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La sua camera aveva un intonaco a stampi rossocinerini, mattoni slabbrati per pavimento, un pianoforte coperto da un canovaccio crocettato, un letto, un armadio con su boccette medicinali e una civetta impagliata. Una lastra della finestra era di latta rugginosa, con un foro per il tubo della stufa. Siccome il foro s’era slargato, d’inverno, quando mettevano la stufa, Vila incasava con le punte delle forbici un po’ di stracci intorno al tubo. E fumigavano.

Non era bella la casa dove stava Vila! Io entravo come un ladro inesperto, ripiegato in tasca il mio frustino da cani, il mio bel frustino che schioccava con un colpo secco come d’acciaio, camminando lesto in punta di piedi, trattenendo il respiro. L’aria odorava di muffa, di polvere, di vino. Qualche volta la porta dell’ultima camera in fondo, vicina a quella di Vila, era aperta, e Vila la chiudeva subito. Era un disordine tanfoso di stracci, bottiglie, cassette, con le pareti scrostate dall’umido, e ci dormiva la vecia, la mamma del padron di casa, gottosa, reumatica, gonfia, con baffi neri sul grosso labbro.

La vecia io non la vedevo che di domenica, quando seduti intorno alla tavola del salotto, bimbi e babe e il fratello del padron di casa, tutto contento se vinceva un soldo, giocavamo a tombola. Essa non si poteva muovere. Era seduta su una poltrona portatile, con ruote, e teneva la destra, grassa come una pera che si sfà, accanto alla cartella, sul mucchio dei vetrini segnanumeri. Quando doveva pagare la cartella, Vila le si accostava, le metteva la mano dietro alla schiena e tirava fuori un sacchetto gonfio di tela grezza, chiuso con spago. La vecia aveva gli