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laggiù. Ma l’aria ti abbraccia e ti gravita come grossa coperta su maschio che aspetti invano l’amante.
Immobile. La bora aguzza di schegge mi frusta e mi strappa le orecchie. Ho i capelli come aghi di ginepro, e gli occhi sanguinosi e la bocca arida si spalancano in una risata. Bella è la bora. È il tuo respiro, fratello gigante. Dilati rabbioso il tuo fiato nello spazio e i tronchi si squarciano dalla terra e il mare, gonfiato dalle profondità, si rovescia mostruoso contro il cielo. Scricchia e turbina la città quando tu disfreni la tua rauca anima. Fratello, con la tua grande anima io voglio scendere laggiù.
Perdonami s’io balzo su come tu non puoi e t’abbandono. È come se d’improvviso una fonte t’infertilisse sgorgandoti dentro il cuore. Gorgoglia e fiotta la nostalgia irrequieta. Ho desiderio d’andare, fratello. Ho desiderio di possedere grandi campi di frumento e prati ombrosi. La patria è laggiù. Bisogna ch’io sia fratello d’altre creature che tu non conosci, che io non conosco, monte Kâl, ma vivono unite laggiù dove calano le nuvole turgide di piova.
Anni giovani, che vi spalancate tremando come corolle di violette nella neve, dove volete gioiosi portarmi? Alzo le braccia e le riabbasso freneticamente come se avessi ali, e a ogni colpo i miei denti aggrappassero materia più leggera e tanto diafana che l’anima mi si spandesse a formar l’alba d’una nuova vita. E sbalzo sul suolo, ripercosso dallo stesso monte che mi comprende e m’aiuta. Calo giù.
La bora mi schiaffa a ondate nella schiena e piombo, torrentaccio. I sassi voltolano e rotolano rombando. Ogni