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occhietti di un barbagianni di giorno: erano cattivi e fermi. Io li sfuggivo. Quando seduto accanto a Vila, ginocchio a ginocchio, facevo finta di giocare, sapevo che quella vecia vedeva tutto, anche ciò che gli altri non vedevano, e ci odiava tutti, ma non poteva alzarsi. Avevo schifo di lei, e non mi fece niente pietà quando un giorno Vila mi disse che lo zio sputava in faccia alla mamma.

Lo zio era il terrore di tutti. Non era cattivo. Ma beveva rum, e in rabbia, sputava addosso alla gente e bestemmiava sempre sporcamente. ― Ma io non voglio parlare di questa genía! Io voglio bene a Vila. Vila è buona e bella. Ha una camicia rossa scarlatta, un berrettino da giochei, scarpettine con tacco alto, e quando gioca a tamburello salta meravigliosamente da una parte all’altra.

Secchi, netti colpi battevamo col tamburello nell’ampio piazzale davanti alla grande casa gialla! Quando Scipio e Vila giocano, gl’inquilini guardano sorridenti dalle finestre e gridano: ― Bravo! bene! ― La palla rota come un punto di fuoco da me a lei, da lei a me: ― stan ― e stan; stan ― e stan. Dice il colpo: ti voglio bene. Risponde il colpo: ti voglio bene. Il sole è alto. È l’estate, amore.

Cari tempi erano quelli, amorosi e gloriosi. Mia era Vila, una signorina, Vila amata da Ucio, corteggiata da tutti i ragazzi della campagna. Riceveva cartoline da ricchi giovanotti, da studenti delle lontane università; ma ella rideva con me e mi baciava. Era mia. Io solo andavo con lei per la campagna, in cerca delle gocce di gomma sui tronchi dei susini, dei quadrifogli nell’erba, coprendola colle mie braccia quando pioveva.