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O Italia no, no! Quando il boschetto cominciò ad ardere, io m’impaurii e volli correre per soccorso. Ma egli mi disse: ― Xe lontan i pompieri ― ; sorrise lentamente, raccolse la frusta, e andò spingendo le quattro vacche.
Io mi sdraiai, sfinito. «Così calava Alboino!»
Povero sangue italiano, sangue di gatto addomesticato. È inutile appiattarsi e guatare e balzare con unghioni tesi contro la preda: la polpetta preparata è ferma nel piatto. Tu sei malato d’anemia cerebrale, povero sangue italiano, e il tuo carso non rigenera più la tua città. Sdràiati sul lastrico delle tue strade e aspetta che il nuovo secolo ti calpesti.
Così stagnai, acqua marcia. E il bosco ardeva e la bella fiamma crepitante insanguinava il cielo.
All’alba rinacqui. Non so come fu. Il cielo era puro e io scorsi la bella bianca città laggiù, e la terra arata. E di un balzo, come chi abbia visto Dio, mi buttai su di lei. Sparito era il sogno e l’incubo: perchè io sono più che Alboino.
Tremando mi caccio nel solco e mi ricopro della terra gravida, sconvolgendo la sementa. E questo tocco di zolla ghiacciata io l’addento come pane. Sotto, pulsano le radici. E la mia anima veramente s’allarga come acqua in una conca immensa, e sento che un albero lontano sussulta per il vento comprimendo intorno a sè la terra, e certo quest’idea che mi nasce è la prima primola nei campi.
A carponi e a tentoni cerco le cose, sbarrando gli occhi, e i rami invernali pingui di gemme contenute, gli stecchi senza linfa del vigneto, la terra ghiaiosa che mi