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seggio, e il grembiule macchiato di sangue vecchio si gonfia e sbatte svolazzando. Appena siamo passati ci guarda e urla: ― Dèghe al giandarmo! ― Scappa.
Io vedo bene pulsare l’arteria nel collo di questo imbecille. E le mie mani sono molto lunghe, e sono come ossa ai polpastrelli. E non c’è gente. Alboino... Ma io sono più che Alboino. Io sono più che Bismarck. Io stringo insensibilmente il pollice dentro le altre dita e faccio della mano una più sottile prolungazione del polso. Lentamente scivolo fra le sue dita rallentate per il freddo. Intanto parlo: ― Triste vita la loro! Chè! capisco bene che lei fa il suo dovere. Quante ore di servizio hanno? otto? consecutive? e lassù in carso, con tutti i tempi, di notte. ― Nella gola mi cantano alcune parole fresche che la mia bella veciota venesiana me l’insegnò: Nè per torto nè per rason, no state far meter in preson. ― Guardo negli occhi il gendarme, strappo, via. Viva la libertà! Io sono italiano.
Neanche mi rincorse. E io, dopo duecento metri di corsa furiosa, rimasi male a vederlo impalato, lontano. Poi riprese la sua marcia cadenzata, toc, tac, in direzione opposta.
Toc, tac, pare che s’avvicini, che sia qui dietro a me, con la sua mano sulla mia spalla. Filai in un portone: nel casotto del portinaio c’è un cranio calvo, assiepato da una corona di capelli fini, di bimbo, curvo su una scarpetta da signora. Esco; mi pianto la berretta più salda in testa, mi ravvolgo nella mia mantella e cammino picchiando con forza il lastrico, come se tra esso e i miei scarponi sia qualche cosa che bisogna vincere.