Il fanciullo nascosto/Lo spirito del male
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Lo spirito del male.
Era d’ottobre ma faceva ancora caldo, e Valentina Lecis, la moglie del dottor Lecis, sentiva fin dentro la sua camera il chiacchierio un poco stanco e le risate vaghe delle donne riunite nella strada a prendersi il fresco come nelle notti di luglio.
Per conto suo ella aveva già chiuso la finestra e sbadigliava, disponendosi ad andare a letto.
Suo marito era fuori e aveva chiuso a doppio giro la porta, senza dimenticare la solita avvertenza di tutte le sere a sua moglie e alla vecchia serva:
— Non aprite la porta e neppure le finestre, se la persona che picchia non è più che conosciuta.
Valentina, inoltre, conosceva troppo bene il desiderio di lui, che ella non si affacciasse alla finestra, neppure di giorno, e non prendesse parte alle chiacchiere delle donnicciuole della strada. Egli teneva molto al decoro e alla dignità della famiglia, e anche lei ci teneva; non aveva mai protestato, quindi, se il suo unico divago era di andare in chiesa o di fare qualche visita cerimoniosa, accompagnata dal marito; e se in quelle tiepide sere d’ottobre, prima delle nove la vecchia serva che era stata sua balia dormiva già, nello stesso letto coi bambini, uno per parte, e tutto era silenzio in casa.
Anche a lei non restava di meglio che andarsene a letto in santa pace. Quella sera, però, si sentiva tutto d’un tratto scontenta: sbadigliava e guardava fisso il suo piccolo piede tenendosi con le mani intrecciate il ginocchio destro accavallato su quello sinistro. Non che avesse voglia di andare a ballare; era stanca perchè tutto il giorno aveva aiutato la serva, o meglio la serva aveva aiutato lei a travasare del mosto, e ancora ne odorava tutta e si sentiva girare la testa per una vaga ubbriachezza: ma forse era appunto questo stordimento e l’aria dolce della sera e quel chiacchierio di donne desiose, e anche un canto corale lontano sfumato nel silenzio e nella chiarità lunare, che le davano un’irrequietudine nervosa, un desiderio di cose nuove, indefinibili.
— Che vita, Santa Maria mia! Sempre la stessa cosa.
Cominciò a slegarsi la scarpetta spruzzata di mosto. Aveva le calze traforate, e pensava che dopo tutto suo marito era buono; non le lasciava mancar nulla: le faceva venire dai Fratelli Bocconi i vestiti con la cintura di seta e le calze alla moda. Se aveva travasato lei il mosto, quel giorno, è perchè bisogna bene che una buona padrona di casa dia attenzione alla roba che Dio le concede; e il marito anche lui invecchiava lavorando, e aveva le sue buone ragioni per voler tenere alto il decoro della famiglia e non permettere a sua moglie e neppure alla vecchia serva pelata e sdentata di dare il più piccolo motivo alle mormorazioni del prossimo.
Eppure, pensando a tutto questo ella smise di slacciare la scarpetta e tornò ad accavalcare le gambe tenendole un poco scoperte: belle gambe lunghe, dalla caviglia fine: la pelle bianca traspariva attraverso le calze traforate. Un sorriso ambiguo, fra di scherno e di pietà, le sollevò il labbro carnoso; ma tosto fu spento da un lungo sbadiglio che le diede un brivido. S’alzò e si sciolse la treccia castanea per rifarla più stretta per la notte; e mentre con la testa reclinata da un lato lisciava e torceva con un lieve piacere sensuale delle dita le tre lunghe bande di capelli che parevano di seta, sentì picchiare lievemente alla finestra. I suoi occhi si spalancarono, le dita si fermarono fra i capelli: un attimo, e tante cose le passarono in mente.
Così picchiava suo marito, quando era ancora studente e amoreggiavano di nascosto dei parenti di lei. La camera era al pianterreno, con due finestre una a ponente verso la strada, l’altra a levante verso una specie di aia aperta che confinava con la collina.
Così picchiava suo marito, perchè era facile parlarsi dalla finestra a levante. Ella si rivedeva dritta ansiosa ad aspettarlo: egli le appariva come in sogno; e se la luna sorgeva dalla bassa linea della collina a lei pareva una fiamma d’oro che sgorgasse fra i capelli ricciuti dell’amante.
Allora la finestra era piccola, senza inferriata; la famiglia di lei, di paesani benestanti, non aveva tante pretese e viveva con una libertà che rasentava il disordine; più tardi, dispersa la famiglia e rimasta la casa a lei, il marito aveva fatto ingrandire porte e finestre e mettere le inferriate: egli amava la simmetria, la sicurezza, l’ordine, e aveva sempre le sue buone ragioni per fare quello che faceva.
I colpi insistevano; tutti i vetri tremolavano.
— Se fosse lui, per provarmi?
Perchè più di una volta l’aveva messa alla prova. Ebbene, ella non seppe perchè, ma la sola idea che fosse lui, per provarla, le diede un impeto di rabbia.
— E io voglio vedere chi è.
— Chi è? — domandò senza muoversi.
— Amici.
Era una voce sconosciuta, che le parve quella di uno straniero.
— Che cosa volete?
— Sono un forestiero di passaggio e ti porto i saluti di tuo fratello.
Ella si riattorcigliò subito i capelli e senza badare che lo sconosciuto le dava del tu, come del resto usano i pastori di certi paesetti, aprì la finestra. Ma invece di un pastore vide, ben disegnata sullo sfondo bianco di luna, la figura elegante di un giovine signore. Vestito di nero, col viso scuro allungato da una barbetta nera a punta, col bianco degli occhi e i denti chiari come fatti di perla, egli le ricordò subito la figura di suo marito studente; solo che era più alto, altissimo anzi. Lei non aveva mai veduto un uomo così alto; arrivava quasi all’arco della finestra, e con le braccia aperte appoggiate all’inferriata dava l’idea d’una croce.
Mai lei si era sentita così mortificata di non avere libertà di ricevere un ospite. Non potendo far altro lo salutò gentile e timida dandogli del lei.
— Mi dispiace tanto di non poter aprire. Mio marito è fuori.... Ha la chiave lui.... Io ero già a letto perchè non sto molto bene.
Egli la guardava dall’alto, scostandosi un poco perchè il chiarore della luna la illuminasse meglio: pareva volesse osservarla bene e che l’esame lo lasciasse soddisfatto.
— Si può parlare anche così, come i prigionieri, — disse, serio. Tuttavia Valentina ebbe l’impressione ch’egli si beffasse un poco di lei, e la sua mortificazione crebbe.
Le venne desiderio di parlar male di suo marito; ma lo straniero non gliene diede tempo perchè cominciò a parlarle del fratello di lei, impiegato in una miniera, e in ultimo abbassando la voce disse una cosa che la offese e la sbalordì.
— Io speravo di farti una lunga visita entro casa tua. Ma si vede che non ricevi più.... che ti sei messa in regola con Dio!
— Io sono fin troppo in regola con Dio, — ella esclamò ergendosi fiera. — E tu puoi fare a meno di parlare così con chi non conosci!
L’uomo mise il braccio dentro l’inferriata e le afferrò la mano.
— Perdonami e scusami! Forse ho sbagliato. Chi sei? Valentina o Rosaria?
— Sono Valentina Lecis, la moglie del dottor Vittorio Lecis.
Egli si tolse subito il cappello ma non le lasciò la mano, stringendola sempre più entro la sua morbida e calda; e riprese, con accento rispettoso e quasi commosso:
— La prego di scusarmi. Io ho picchiato credendo che qui stava sua sorella, e vedendola chiusa in questo modo mi convincevo ch’era proprio Rosaria.
Valentina si mise a ridere; pure così scambiata dallo sconosciuto, pure così presa nel morso della mano di lui, si mise a ridere. Il calore di quella mano le saliva su per il braccio, fino alla testa; e di nuovo un’ubbriachezza simile a quella che dà l’odore del vino in fermento le destava un’allegria senza ragione. Ebbe voglia di scherzare, di burlarsi un poco dello sconosciuto.
— Si vede che vieni da una miniera sui monti e non conosci il mondo, — disse, dandogli a sua volta del tu. — Sono proprio Valentina Lecis, la moglie legittima del dottor Vittorio Lecis, ma come vedi sono chiusa dentro a chiave, mentre mia sorella Rosaria, che sta con un uomo che non è suo marito, è libera in casa sua, padrona di ricevere gli ospiti e di fare quello che vuole.
L’uomo non pareva sorpreso. Solo disse, con accento di filosofo:
— Così va il mondo.
E si rimise il cappello e cercò di prenderle l’altra mano. Lei aveva una grande voglia di dargliela; ma pensava a suo marito e in fondo provava vergogna a essere così sfacciata. Qualche cosa di strano, di malefico, la costringeva però a fare così. Ed era appunto il pensiero di burlarsi anche di suo marito, di aver finalmente l’occasione di vendicarsi della schiavitù a cui egli la sottometteva, che le dava un’eccitazione piacevole.
Tentò di liberarsi dalla stretta dello sconosciuto, ma continuò a parlargli con famigliarità e leggerezza.
— Del resto Rosaria è cento volte più fortunata di me. Io lo dico sempre, a mio marito: preferirei la sorte di mia sorella alla mia. Almeno ha la sua libertà. L’uomo col quale vive l’ama e la rispetta più che i mariti amino e rispettino le loro mogli. Lei è l’assoluta padrona della casa, e possiede denari e gioielli. Ma quello che più importa è la libertà: nulla può paragonarsi alla libertà, Rosaria è libera come gli uccelli dell’aria: se stasera o domani le vien voglia di girare il mondo può partire senza chiedere permesso a nessuno. E se tu stasera andrai a trovarla, a portarle i saluti del nostro fratello, ella certo non ti riceverà così, dietro un’inferriata, come ti riceve la moglie del dottor Lecis. Se vuoi andare va pure, a trovarla; ella ti aprirà e ti farà onore come si deve all’ospite, ti riceverà come una signora che è, nella sua bella stanza, seduta sul canapè di seta, con la dita piene di anelli come una sposa nuova. Va, va pure, — proseguì sempre più esaltata, — l’amico suo non è in paese, ma anche ci fosse, lei ti riceverebbe lo stesso. È libera, ecco tutto! La sua casa è dietro la chiesa, poco giù di qui, con la porta e le finestre verdi: non c’è da sbagliare, non c’è altra casa con la porta e le finestre verdi....
D’improvviso tacque, quasi ansante: nella foga del parlare s’era accostata tanto all’inferriata che l’uomo aveva avuto modo di cingerle la vita col braccio e di accostare il viso al viso di lei.
— Come mi piaci, — le disse, — peccato che tu non sii libera di ricevermi!
Il suo alito era ardente. Valentina appoggiò la fronte all’inferriata e sentì tutte le sue viscere tremare. Mai aveva provato una gioia e un dolore simili: e l’alito dello sconosciuto le passava sui capelli e le scendeva giù per la nuca e per il solco delle spalle come un rivolo d’acqua calda che aumentava il fremito d’ogni sua fibra: mai aveva provato una gioia e un dolore simili.
Ma un passo risuonò nel viottolo dietro l’aia. Ella balzò, spaurita, mormorando:
— È mio marito!
E lo sconosciuto la lasciò subito, allontanandosi senza neppure salutarla. Ella chiuse la finestra e si mise a spogliarsi in fretta. Il passo andò oltre.
Il passo andò oltre; non era quello di suo marito, o forse, sì, era il passo di suo marito ma era andato oltre.
Ella restava immobile davanti al suo grande letto candido, scalza e con la treccia sfatta che le scendeva sul petto. Non riusciva a coricarsi. Un’irritazione cupa scacciava a poco a poco il suo turbamento.
— Che vita, Santa Maria mia, — ripetè, ma non aggiunse: — sempre la stessa.
Una speranza dolce e terribile le nasceva in fondo al cuore: che lo sconosciuto, la sera dopo, tornasse: e qualche cosa di più terribile ancora le nasceva in un luogo profondo che non era certo il cuore: la gelosia e l’invidia per sua sorella.
Ecco, la vedeva a ricevere l’ospite, il signore bello e ben vestito come è il diavolo nelle sue trasformazioni umane, — secondo la leggenda; — la vedeva a riceverlo nella sua bella stanza col canapè di seta, a offrirgli il vino buono, a chiedergli con la mite dolcezza che aveva sempre formato il maggior fascino di Rosaria, notizie del fratello lontano, della miniera, della vita della miniera. Ed egli la guardava silenzioso, col bicchiere in mano; poi deponeva il bicchiere e le prendeva le mani: — Come mi piaci!
L’alito ardente dell’uomo smuoveva i lievi capelli della donna. Egli le stringeva così forte le mani che gli anelli di lei gli pungevano le dita.
A lei, Valentina, non rimaneva che riprendere a raccontare a sè stessa la felice storia della sorella.
— Rosaria è fortunata; è più fortunata di me. La libertà.... i gioielli.... l’amore.... ha tutto....
Di nuovo un passo la fece scuotere. Sollevò la testa, si rigettò indietro la treccia sfatta, col moto fiero di una giovine puledra che scuote la criniera. E si alzò, aspettando. Era suo marito? Lo aspettava. E che egli provasse a chiederle perchè era ancora alzata! Che egli provasse a dirle alcuna cosa sgradevole. Era tempo di finirla; di rompere le catene della schiavitù. Era pronta alla ribellione. Ma anche questa volta il passo andò oltre ed ella si abbattè sul letto piangendo nervosamente.
L’indomani all’alba Rosaria fu trovata morta strangolata nella sua bella stanza dai mobili di noce, sul canapè di seta. I denari e i gioielli che la sorella le invidiava erano scomparsi.
Valentina e suo marito stavano ancora a letto, quando la vecchia serva portò tutta spaventata la notizia. Il dottore balzò silenzioso dal letto, mentre Valentina, sollevata con terrore sui guanciali gridava:
— È stato lui, è stato lui!
E raccontò confusamente la visita dello sconosciuto. Il dottore fece uscire la serva, poi afferrò la moglie per gli omeri e la costrinse a rimettersi giù.
— Tu sei malata, — le disse con calma feroce. — Tu hai sognato e ti guarderai bene dall’accusare nessuno e sopratutto dal raccontare che hai aperto la finestra ad uno sconosciuto. Tua sorella riceveva tutti. E adesso io metterò il lucchetto anche alle tue finestre.
E la costrinse a stare a letto. Ella piangeva, sopratutto pensando che aveva indicato lei la casa della sorella allo sconosciuto; e cercava di convincersi che questi non era altri che lo spirito del male incarnato in un bel giovine signore, ma alla notte si sentì più tranquilla, nella sua camera solitaria, perchè il marito aveva messo il lucchetto alla finestra.