Il fanciullo nascosto/Il cuscino ricamato
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Il cuscino ricamato.
La vecchia guardiana della vecchia villa era stata tutto il giorno inquieta per il ritorno del padrone: ritorno insolito, così alla metà di autunno, dopo una lettera di lui che annunziava la sua intenzione di passare l’inverno in campagna.
«E non chiamare e non avvertire nessuno perchè non voglio seccature».
Questo si sapeva: seccature egli non ne aveva voluto mai, neppure da giovane quando le seccature è facile sopportarle. Per questo era stato un uomo fortunato; tutto aveva avuto, onori, alte cariche, denari. E adesso doveva anche sposarsi, con una donna ricca, d’età proporzionata alla sua, tale anche da non aver neppure la seccatura di molti figli. Ed ecco che d’improvviso egli andava a rintanarsi laggiù, per tutto l’inverno: lasciava la sua alta carica, la sua bella casa di città, la fidanzata ricca e paziente: perchè?
— Perchè? — si domandava la vecchia guardiana, sbattendo i tappeti tarlati, su nella loggia verdastra d’umido: e guardando i boschi gialli e giù verso il fiume la casa rossa in mezzo ai pioppi d’argento le veniva un’idea: giù nella casa rossa abitava una donna, una signorina che il padrone qualche tempo prima doveva sposare ma che poi aveva piantato perchè non abbastanza ricca e con tanti parenti poveri che potevano dargli molte seccature.
La signorina, però, diceva qualcuno, lo aspettava sempre, e i parenti, se egli tentava di sposare un’altra donna, volevano dargli egualmente qualche seccatura mettendo impedimenti al suo matrimonio.
Ecco perchè tornava! Per questo; per appianare le cose. Non occorreva però tutto l’inverno, per questo, tanto più che la signorina della casa rossa era sempre malaticcia, i parenti bisognosi, e forse bastava poco per acquatare tutti.
Ma guarda, guarda! Proprio uno di questi parenti, nero rapido su una bicicletta come un grande uccello di malaugurio viene a sbattersi contro il cancello. La vecchia sussultò, quasi di piacere. Fa sempre piacere, lusinga il nostro amor proprio, l’aver indovinato una cosa, sia pure poco allegra.
La vecchia guardiana dunque scese, con le chiavi in mano e in bocca le parole «badate che non vuol seccature», ma non adoperò nè le une nè le altre perchè l’uomo domandava solo, un po’ ansante, se c’era lì il Dottore.
— Il Dottore? A far che?
— Lui non è arrivato?
La vecchia guardiana non si credette in obbligo di rispondere; e l’uomo, capito che non c’era nè il padrone nè il Dottore, andò via rapido nero com’era venuto. La vecchia tornò su, ma era inquieta e non sapeva se raccontare o no l’incidente al padrone. Più tardi però arrivò il vignaiuolo e le diede la spiegazione del mistero.
— La signorina giù è morta, — disse con voce tranquilla, poichè dopo tutto a lui non importava niente del fatto. — Pare che avesse un tumore nel cuore e oggi s’è crepato. Cercavano il Dottore qui perchè pare che anche il padrone sia malato, d’un brutto male di cui non si guarisce.
— E arriva proprio oggi! E quella va a morire proprio oggi! Ma perchè? proprio oggi; perchè? — domandava la vecchia guardiana.
E il vignaiuolo rispondeva tranquillo:
— Perdio! perchè il Signore fa quello che gli pare e piace!
*
Il padrone non parve impressionarsi molto per la notizia; gliel’avevano già data per strada.
— Cos’aveva? — domandò solamente, e senz’ascoltare bene la risposta se ne andò in giardino a guardare i limoni piantati ultimamente dal vignaiuolo. Le pianticelle tremavano lucide al vento del tramonto: egli le osservava, si curvava a toccarne il fusto, e non sembrava preoccupato d’altro. Sollevandosi, però, vide la vecchia affacciarsi alla loggia e guardarlo come lo guardava la sua governante laggiù in città, con occhi pieni di curiosità e di compassione: ed ecco neppure i limoni lo interessarono più: ed ecco ebbe voglia di andare lontano. Andare, andare.... Fuggire la gente che lo conosceva, nascondersi come le bestie malate o ferite; non aveva altra smania, da qualche tempo in qua, e camminando pei viali umidi del suo giardino deserto, con tutti quei muri coperti d’edera intorno, senza nessuno che gli desse più seccature, lontano dagli amici, dalla fidanzata, dai futuri parenti, dalle spaventose sale d’aspetto degli specialisti celebri, s’era sentito quasi tranquillo. Lo sguardo della vecchia aveva guastato questa tranquillità.
Eccola affacciarsi ancora! Egli andò dietro la casa, camminando a testa bassa, con le mani in tasca, con un senso di smania in tutta la persona.
— Che noia! Perchè sono tornato?
Là dietro la casa era umida: certi angoli del giardino, verdi di erba d’un verde metallico, parevano cantucci di cimitero. E subito la smania di andar fuori, lontano, lo incalzò. Era come una mano che lo spingeva, forte, sempre più forte.
Aperto il cancello lo richiuse, poi lo aprì ancora, guardando per terra per assicurarsi che il ferro correva bene sul sabbione del viale; infine si mise lì davanti, buttò via col piede qualche sassolino, sbadigliò, tossì: e allo stridere rauco della gola rosa dal male, il suo viso duro si sollevò, con gli occhi pieni di un’angoscia feroce, protendendosi come per ascoltare un richiamo già noto ma non per questo meno spaventoso.
Allora si rimise a camminare, per sfuggire anche quella voce. Il sole era tramontato, ma laggiù lungo il fiume pareva che il suo splendore perdurasse ancora: tutto il bosco ceduo era d’un giallo luminoso e l’acqua dorata brillava attraverso i fusti argentei dei pioppi. Si udiva, nel silenzio profondo, lo scroscio dei molini lontani e un lamento di fisarmonica, un grido così straziante e pieno di implorazione che pareva venir dal fiume, da una donna giovane e bella che annegasse.
E l’uomo andava; camminava sulle foglie secche, divertendosi a tuffarvi i piedi e a trascinarsele per il sentiero, come faceva da ragazzo, mentre dagli alberi altre ne cadevano fermandosi sul suo omero e sul suo braccio simili a farfalle dure morte.
Arrivato all’argine si fermò: laggiù l’oro del tramonto si smorzava nel verde dell’acqua e dei giunchi e nell’aria restava l’odore dei pomi di cui era carica una barca che scendeva il fiume, e nella quale appunto si suonava la fisarmonica. Egli andò lungo l’argine, seguendo l’odore e il suono; ma in breve si trovò in una radura circondata di pioppi, con le casette bianche del paese fra il giallo degli orti.
Un sentiero erboso attraversava la radura, apriva il bosco, lasciava veder in fondo la casa rossa.
Egli non voleva andare oltre; ma i suoi piedi lo portavano contro la sua volontà. Sapevano la strada, i suoi piedi, e la vollero percorrere ancora.
— Ma perchè, poi? — si domandava.
E non sapeva rispondersi. Si sentiva spinto da una forza invincibile e andava; andava annoiato, disgustato, ma andava.
Il cancello era aperto sul ponticello sopra il fosso la cui acqua, al riflesso della casa, pareva sangue: sui muri pendevano, grandi ghirlande funebri, i festoni gialli e rossi della vite, e i vetri tremavano e stridevano al vento come chiamando qualcuno che passava di là senza voltarsi.
Egli andò fino alla porta: lì si ribellò: no, non voleva entrare, non capiva perchè era andato fin là, perchè prendeva gusto a tormentarsi. Tornò indietro, fino alla siepe di robinie; qualche cosa lo fermò di nuovo, lo costrinse a sollevare la testa. Era ancora l’odore delle mele, che non veniva più dalla barca ma dalla casetta stessa. Un coro di voci infantili che si sparse nell’aria come un velo scintillante, parve fondersi con quel profumo dolce di fanciullezza, di frutta intatte color di rosa e d’oro.
Erano i bambini di un piccolo asilo fondato dalla padrona della casa rossa; la maestrina sentimentale li aveva condotti a dare l’addio ed a pregare intorno alla loro benefattrice morta. La maestrina stessa aveva composto il coro, e il primo verso diceva:
- Tu che a Dio spiegasti l’ali....
L’uomo giù accanto alla siepe di robinie sorrise: un sorriso che di nuovo diede ai suoi occhi un’espressione di angoscia non più umana.
E tornò davanti alla casa, entrò, si tolse il cappello e, come un tempo, invece di lasciarlo sull’attaccapanni dell’atrio lo portò su in mano fino alla camera di lei.
La camera vasta, con tre finestre verdi di crepuscolo e di foglie, pareva piena di uccelli e di stelle: i bambini vestiti di grigio, ciascuno con un cero acceso in mano, cantavano, e in mezzo era lei, stesa lunga bianca sul letto coperto di damasco rosso, con la faccia pallida fra i capelli che sul velluto nero del cuscino parevano azzurrognoli. Il cuscino era ricamato d’oro: d’oro anche il pettine intorno alla fronte: così lei, in quella camera verde, con quell’odore di frutta mature, con tutti quegli uccellini e quei fiori di fiamma tremuli sui lunghi steli di cera, sembrava la bella addormentata nel bosco.
Per questo i bambini cantavano con piacere; e con piacere videro il signore sconosciuto avanzarsi piano piano e stare immobile davanti al lettuccio con gli occhi fissi sul ricamo del cuscino.
Era naturale ch’egli guardasse il cuscino: anche loro, uno per uno sfilando davanti alla benefattrice morta, avevano guardato il cuscino: spiccavano sul velluto, ricamate in oro, due parole semplici che parevano scritte perchè ciascuno di loro le leggesse.
«Ti aspetto».
Si capisce, ella li aspettava uno dopo l’altro vecchi vecchi in paradiso: nessuno aveva pensato di piangere, per questo, tanto più che la maestra nel condurli aveva detto: «è per rendere l’ultimo omaggio a chi vi ha beneficato, ma anche per abituarvi allo spettacolo grande della morte: siate forti: avanti, a due a due». Ed ecco invece quel signore alto, così ben vestito, piega d’un tratto le gambe come gliele rompano, e cade inginocchiato, e curva le spalle, col viso fra le mani come uno che ha paura. Si vede che ha paura dei morti. Un bambino ride piano piano; un altro ride più forte; il velo monotono del coro infantile si rompe, scintilla, ed è come un pigolio di passeri scappati dalla rete, un trillare di rondini svolazzanti intorno alla bella addormentata nel bosco.