Il diavolo/Capitolo 14
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Capitolo XIV.
IL DIAVOLO RIDICOLO E IL DIAVOLO DABBENE.
Satana si mostra sotto due diversi e contrarii aspetti, di vincitore e di vinto. Vincitore, egli appare terribile, e riempie gli animi di orrore e di paura; vinto, appar soltanto vituperoso, e provoca il disprezzo ed il riso. Allora, coloro stessi che hanno tremato al suo nome, si rinfrancano, allegramente si fanno beffe di lui. Bisogna notare ancora che, indipendentemente dalle disfatte cui soggiaceva troppo spesso, Satana, nel concetto popolare, non poteva serbare intera la terribilità sua, ma doveva assumere, in certe determinate condizioni, un carattere più mite, e starei per dire più umano. Il popolo, tratto dall’indole del suo pensiero, e più da un bisogno dell’anima, ha sempre famigliarizzato, più o meno, i suoi numi. Le plebi cristiane fecero scendere di cielo in terra, andar gironi pel mondo, entrare nelle case degli uomini, assidersi alle lor mense, attendere a mille svariate faccende, non pure gli angeli e i santi e la stessa Vergine Maria, ma ancora Gesù Cristo e Dio Padre. Come non avrebbero esse dato talvolta un consimile carattere di famigliarità al diavolo, a quel diavolo che essi credevano fosse continuamente in mezzo a loro, e il cui nome ricorreva così frequente nei loro discorsi? In un grandissimo numero di credenze e di fiabe popolari noi vediamo comparire un diavolo profondamente diverso da quello dei teologi e delle leggende ascetiche, un diavolo che ha figura e indole d’uomo, ha una casa come hanno gli uomini, faccende e brighe quali potrebbe avere un agricoltore o un artigiano; un diavolo che mangia, bee e veste panni, è qualche volta indebitato, qualche altra ammalato, e nulla più, o ben poco, serba di diabolico. Questo diavolo ammansato non si chiama più con nomi solenni o terribili, ma con nomi umili, ridicoli gli uni, quasi carezzevoli gli altri: Farfanicchio, Fistolo, Berlic, Farfarello, Tentennino, Culicchia, Ticchi-Tacchi in Italia; Old Nick, Gooseberry in Inghilterra; Don Martin o Martin Piñol in Ispagna, e così via.
Durante tutto il medio evo l’aspetto sotto cui si rappresenta il diavolo, se ha del terribile, ha più del ridicolo. Veggasi come, non immaginando di suo capo, ma seguitando la tradizione, Teofilo Folengo dipinge il diavolo Rubicano nella decimottava maccheronea del Baldo:
Ille super lapidem ventosis fertur ab alis, Sibila, sed retro dependet cauda leonis. |
Baldo e i compagni, vedendo gli scambietti e sberleffi suoi, schiattano dal ridere.
Nè i demonii son sempre torvi e dispettosi; anzi ridono volentieri fra loro, e talvolta eccitano al riso gli uomini, con lazzi e capestrerie da buffoni. Un sant’uomo, ricordato da san Gerolamo, vide un giorno un diavolo che sgangheratamente rideva. Chiestagliene la cagione, quegli rispose che un suo compagno diavolo, il quale stava seduto sullo strascico di una donna, era tombolato per terra nel momento che, dovendo passare un luogo fangoso, la donna s’era tirata su la veste. San Caradoc, essendosi un giorno stancato a lavorare, si tolse la cintura e la tonaca e le gettò in un canto. Venne il diavolo furtivamente e tolse la cintura con la borsa che v’era appesa. Andato il santo per riprenderle, non le trovò, e vide poco lungi il demonio che ruzzava allegramente.
Il diavolo ridicolo è anche un diavolo rimminchionito, al quale si possono dare a intendere le più gran panzane di questo mondo, che si lascia abbindolare da false promesse, non vede i tranelli che gli si tendono, e dà spesse volte prova della più strana e più supina ignoranza. D’ingannatore, egli si tramuta in ingannato, e dove soleva guadagnare, perde. Il primo e maggiore inganno gli è fatto da Dio. Secondo alcuni Padri, l’opera della redenzione non fu se non una divina e solenne frode ordita ai danni del nemico, il quale fu preso come un pesce all’amo, con l’esca della croce. Il diavolo s’immaginò di potere aver l’anima di Cristo in cambio delle anime degli uomini, e perdette queste, senza potere guadagnar quella. In più di una novellina popolare si vede Dio ingannare il demonio con promesse e concessioni di cui questi non può in nessun modo giovarsi.
Così ancora lo ingannano i santi e gli uomini comuni. Un giorno, in una caverna, Virgilio mago trova un demonio, il quale per arte di negromanzia era stato chiuso in un foro suggellato. Il demonio prega il poeta di liberarlo da quell’angustia, e il poeta acconsente, a patto ch’ei gli insegni la magia. Tolto il suggello, il demonio esce fuori, e mantien la promessa; ma allora Virgilio mostra di dubitare ch’ei potesse capir veramente in così angusta prigione. Il demonio, per farnelo certo, ci si raccoglie novamente dentro, e Virgilio, chiuso il foro come prima, se ne va pei fatti suoi. Pressa poco allo stesso modo, Paracelso trasse fuor da un abete un diavolo, e poi ve lo fece rientrare, dopo avere ottenuto da lui una medicina che sanava tutti i mali, e una tintura che mutava ogni cosa in oro.
Altri inganni si hanno in numerosi racconti popolari. Un contadino si obbliga di dar l’anima al diavolo, a patto che questi gli costruisca una casa, o gli ari un campo, o gli renda altro servigio, prima che il gallo canti. Il diavolo si pone all’opera tranquillamente; ma quando egli sta per finire, il contadino con qualche sua astuzia induce il gallo a cantare, e quegli è forzato di partirsi, senza aver premio alcuno della sua fatica. Il diavolo, in beneficio di tale o tale città, costruisce un ponte, con la condizione che l’anima del primo che vi passerà sopra gli abbia ad appartenere. Costruito il ponte, ci si fa passar sopra un cane, o altro quadrupede, e il diavolo deve contentarsi di quella preda. Di più d’uno si racconta che, invece dell’anima e del corpo, lasciò al diavolo l’ombra. Il diavolo insegnava una volta magia nella città di Salamanca. Egli aveva dichiarato ai suoi uditori che, a corso finito, avrebbe tolto in pagamento, anima e corpo, a colui che rimarrebbe ultimo nell’aula. Venuto il giorno stabilito, gli uditori traggono a sorte chi debba soddisfare il debito. Rimane ultimo uno studente, il quale al diavolo, che sta per ghermirlo, addita l’ombra propria sul muro. Il diavolo, stimandola persona, s’avventa per acciuffarla, e intanto lo studente se la svigna. Questa novelletta diede argomento a una poesia di Teodoro Körner. Nel noto romanzetto del Chamisso il diavolo si toglie l’ombra di Pietro Schlemihl ma sapendo ciò ch’ei si fa.
La dabbenaggine e la credulità di certi diavoli minori passano ogni limite. Il trovero francese Rutebeuf, già ricordato, narra di uno, che pensandosi di raccogliere in un sacco l’anima di un villano moribondo, raccolse.... un’altra esalazione. È celebre il diavolo di Papefiguière, di cui racconta le miserevoli avventure il Rabelais. Di grandissima dabbenaggine danno pure esempio i diavoli che vengono sulla terra a tor moglie, come quel Belfagor, di cui narrano la storia il Machiavelli e lo Straparola, e quell’altro di una novella popolare spagnuola, chiuso dalla suocera in un fiasco, e abbandonato sulla cima di una montagna.
I diavoli che Dante trova nella quinta bolgia del cerchio ottavo, se hanno del terribile, hanno anche del comico, sia nell’aspetto e negli atti, sia nei nomi. Essi sono Malacoda, Scarmiglione, Alichino, Calcabrina, Cagnazzo, Barbariccia, Libicocco, Draghignazzo, Ciriatto, Graffiacane, Farfarello, Rubicante, e hanno per giunta il nome collettivo di Malebranche. Essi stringono la lingua coi denti per far cenno al loro duce, come è usanza dei monelli, e il loro duce fa trombetta di ciò che non occorre rammentare. Si lasciano ingannare da Ciampolo, o chi altri si sia il famiglio del buon re Tebaldo, e due di loro, Alichino e Calcabrina, si azzuffano per ciò, e cadono nel bel mezzo del bollente stagno, d’onde i compagni li traggono coi raffii. Somigliantissimi a questi di Dante sono i diavoli che si vedono trescare per entro ai Misteri e alle Moralità del medio evo e della Rinascenza, e l’officio principale loro è quello di far ridere gli spettatori, con l’aspetto buffonescamente mostruoso, coi lazzi e con le smorfie, rincorrendosi e picchiandosi sulla scena. Essi appajono frequentissimi in drammi di sacro argomento francesi, inglesi, tedeschi; molto meno nelle Sacre Rappresentazioni italiane.
In un Mistero francese composto nella seconda metà del secolo XV da Arnoul Greban, e intitolato La nativitè, la passion et la rèsurrection de N. S. Jèsus-Christ, Mistero che conta 34574 versi e non meno di 393 personaggi, sono parecchie scene in cui i demonii hanno parte assai ridicola. Saputo che il mondo sta per essere redento, Lucifero fa convocare a suon di tromba tutti i demonii: chi non risponde alla chiamata, chi manca al consesso, è frustato senza pietà, trascinato sulle natiche attraverso l’inferno, immerso sette volte nel più profondo del pozzo infernale. Satana, di ritorno dalla terra, ove non ha potuto in modo alcuno nuocere a Cristo, è scamatato a dovere, sebbene si appelli all’inferno tutto. In un’altra scena, Satana, Astarot e Berich sono presenti all’ascensione di Cristo; ma Satana solo può dire d’averla veduta. Astarot, quando vuole alzar gli occhi al cielo, cade riverso con le gambe all’aria, e Berich riceve un gran picchio sul capo. Si risolvono di tornare in inferno, sebbene sappiano qual festa li aspetti:
Astarot: Ce ne sera pas sans sentir |
Un’altra volta Satana è legato con catene arroventate e trascinato per l’inferno: Lucifero gli domanda se suda. Nel Mistero di San Desiderio, composto circa quello stesso tempo da Guglielmo Flamang, i diavoli escono in vantamenti ridicoli, adoperando un linguaggio ridicolo e sconcio. In un altro, intitolato Pierre le changeur marchand, i diavoli, vedendosi tolta per intercession della Vergine un’anima, inveiscono arrabbiati e confusi contro Dio, che pronunziò sentenza a loro sfavorevole:
Autrement ne l’oseroit faire, |
In un Mistero tedesco della Passione Lucifero parla ai demonii della caduta sua e loro e della superbia che ne fu la cagione; ma quelli lo ingiuriano e lo picchiano, perchè non vogliono udir prediche. In un altro Mistero tedesco, intitolato la Resurrezione di Cristo, e composto nel 1464, Lucifero, dopo aver veduto spogliato il suo regno dal Redentore, è messo in una botte e legato con catene. Satana e gli altri demonii si partono in busca di anime da predare; ma, partiti appena, Lucifero li richiama, e tanto si sgola per farsi udire da loro che gliene viene mal di capo. Ritornati quelli, Lucifero non sa più perchè li abbia chiamati, ed essi lo rimproverano e si dolgono delle anime perdute. Satana si mette di nuovo in viaggio, e prolungandosi l’assenza di lui, Lucifero comincia a essere in angustie, e a temere di qualche disgrazia. Sarebbe egli ammalato? l’avrebbero per caso accoppato? Finalmente Satana ritorna, portando l’anima di un ecclesiastico, e Lucifero a ridere, meravigliandosi che capitino in inferno coloro che dovrebbero guidar gli altri in paradiso; ma l’astuto ecclesiastico gli risponde per le rime, e lo assorda con le parole per modo, che quegli ordina di lasciarnelo andare al più presto.
Ricorderò ancora una commedia spagnuola, dove il diavolo fa assai trista figura, El diablo predicador, d’ignoto autore. La commedia è del secolo XVII, ma assai più antica di certo è la novella che le dà il soggetto. Il diavolo ha con sue arti messo in mala vista della popolazione un convento di francescani nella città di Lucca. I poveri frati sono a mal partito, quando l’arcangelo Michele scende di cielo col bambino Gesù in braccio, e ordina al calunniatore di riparare al mal fatto, e di riporre i calunniati nella riputazione di prima. Si può immaginare con che gusto il diavolo eseguisca il comando.
Il diavolo Scarapino, che il Bojardo descrive in un luogo dell’Orlando Innamorato, appartiene alla famiglia dei diavoli ridicoli:
Era un demonio questo Scarapino, |
Alla stessa famiglia appartengono i diavoli che Lorenzo Lippi introdusse nel suo Malmantile.
La derisione che colpiva il diavolo doveva, o prima o poi, naturalmente, colpire anche certe cose che si supponeva avessero stretta attinenza con lui, fossero da lui favorite e promosse: la magia e le strane sue pratiche. E questa derisione comincia appunto a farsi sentire quando cominciano a imperversare i processi contro le streghe. Nessuno la fece sonar più alto di Teofilo Folengo, l’arguto, immaginoso e festevole autore del Baldo, il principe dei maccheronici (1496-1544). Nella maccheronea VII di questo poema egli si burla dei domenicani, cui era affidata la inquisizione, e dice essere loro officio porre le streghe a cavallo degli asini,
Nella maccheronea XXI descrive in modo oltre ogni dire ridicolo l’officina, la scuola, il lupanare delle streghe, nel regno di Culfora, e si scusa di non dire tutto ciò che sa, trattenuto dalla paura degl’inquisitori, i quali potrebbero giudicarlo degno della mitera e del rogo. In una scena della sua Cortegiana, Pietro Aretino introduce l’Alvigia a piangere la morte della maestra sua, una vecchia strega che l’Inquisizione fa abbruciare; che era tenuta “una Salamona, una Sibilla, una Cronica da sbirri, da osti, da facchini, da cuochi, da frati e da tutto il mondo;„ che osservava tutte le vigilie, e che a lei, sua scolara, lascia tutte le sue masserizie e le cose del mestiere: un’ampolla piena di lagrime d’amanti, carta non nata, orazioni da far dormire, ricette da far ringiovanire, un diavolo chiuso in un orinale, ecc. ecc. In una scena della Spiritata del Lasca dice il Trafela: “Come altri s’intabacca e comincia punto a credere a malie e streghe, agli spiriti e agl’incanti, si può dir ch’ei sia l’oca;„ e spesso i negromanti e le operazioni magiche sono argomento di celia nelle commedie e nelle novelle nostre del Cinquecento.
Quel capo ameno (per non dirgli altro) di Benvenuto Cellini racconta nella sua Vita una curiosa istoria, che fa molto al proposito nostro, e che qui non può essere passata sotto silenzio. Egli aveva, per certe diverse stravaganze, presa amicizia in Roma con un prete siciliano, di molto ingegno, di gran sapere, e assai profondo in negromanzia. Confidato a costui come tutto il tempo di vita sua avesse avuto grandissimo desiderio di vedere o udire alcuna cosa di quell’arte, n’ebbe promessa che ogni sua voglia sarebbe stata appagata, se si sentiva d’animo forte e sicuro, quale richiedeva l’impresa. Una notte, tolti con sè due compagni, se ne andarono nel Colosseo, e quivi il prete, paratosi secondo l’usanza, cominciò a disegnar circoli in terra, a bruciar profumi, a fare scongiuri, e quanto altro abbisognava. Dopo un’ora e mezzo che queste cerimonie duravano, comparvero parecchie legioni di diavoli, tanto che il Colosseo n’era pieno, e Benvenuto, invitato a domandar qualche cosa, domandò di poter essere con la sua Angelica siciliana. Per quella notte non ebbe risposta, e il prete gli disse che bisognava tornarvi un’altra volta, e ch’ei menasse con sè un fanciulletto vergine. Così fu fatto. Ricominciate le cerimonie e ripetuti gli scongiuri, più solenni quelle e più terribili questi, non andò molto che il Colosseo fu pieno di cento volte più diavoli che non ne fossero apparsi la prima fiata. Benvenuto rifece la sua domanda, e n’ebbe risposta che in capo di un mese il desiderio suo sarebbe appagato; ma tanto era il numero dei demonii, e così minaccioso l’aspetto loro, che il prete cominciò a smarrirsi e a tremare, e con lui i compagni, e Benvenuto medesimo. Il negromante allora cominciò a usare modi dolci e soavi, per vedere di licenziare quei maledetti, e raccomandò di bruciare dell’assa fetida. In quel punto, un dei compagni, certo Agnolino Gaddi, il quale era mezzo morto di paura, fu colto da una irresistibile e strepitosa soccorrenza di ventre, la quale, dice Benvenuto (che usa parole più significative e più spicce), ebbe maggior virtù che non l’assa fetida. Benvenuto allora si mise a ridere, e il fanciullo, levati a quel riso gli occhi, disse che i diavoli se ne cominciavano andare a gran furia, e quando venne a sonar mattutino, disse il fanciullo che pochi ancora ne rimanevano e discosto. Dopo un altro po’ il prete, Benvenuto e gli altri se ne uscirono dal circolo in cui s’erano tenuti stretti, e senz’altro danno che della paura avuta se ne tornarono alle lor case.
Il diavolo ridicolo è, se non meno tristo in sè, certo meno pericoloso e nocivo del diavolo serio, e facilmente si passa da lui al diavolo dabbene. Dare il predicato di buono al diavolo, il quale è il principio stesso del male, pare che non si possa senza contraddizione patente; e pure gli è un fatto che il popolo immaginò una specie di diavolo buono, contrapposto al diavolo malvagio, e che teologi di professione pensarono a una possibile, o a dirittura necessaria conversione finale dei superbi ribelli.
E qui mi bisogna ricordar di nuovo che non tutti gli angeli caduti avevano peccato a un modo ed erano egualmente malvagi. Molti ce ne furono, secondo afferma Origene, che nella gran battaglia combattuta nei cieli, erano rimasti neutrali, e son quelli di cui Dante dice che
non furon ribelli, |
Dante li pone nel vestibolo dell’inferno, insieme con
l’anime triste di coloro |
E prima e dopo di Dante altri ebbe a dire di loro. Nel corso della sua avventurosa navigazione san Brandano giunse ad un’isola, dove trovò un albero meraviglioso, popolato di uccelli candidissimi, i quali erano appunto angeli caduti, ma non malvagi. Essi non soffrivano castigo; ma eran fuori dell’eterna beatitudine. Ugone d’Alvernia trovò angeli così fatti vicino al Paradiso terrestre, i quali lodavano Dio ed erano senza castigo alcuno la domenica.
Il diavolo dabbene si dà anzi tutto a conoscere come diavolo servizievole; egli ajuta gli uomini nei pericoli e nei bisogni, spontaneamente, senza mala intenzione, e senza chiedere premio alcuno, o contentandosi di piccolissimo compenso. Gli esempii e le prove sono innumerevoli.
In molti racconti si vede un demonio trasportar per l’aria, da luogo a luogo, e a distanze grandissime, un eroe, affinchè egli possa giungere in tempo a recar soccorso, o a impedire che si compia alcuna cosa in suo danno. Un giorno d’inverno (così si narra in una vecchia cronaca tedesca) un povero demonio tutto intirizzito dal freddo entrò in casa del cavaliere Wernhard von Strätlingen. Questi, mosso a compassione, gli regala un mantello; poi da lì a qualche tempo va in pellegrinaggio. Viaggio facendo, è preso e trattenuto prigione sul monte Gargano. Allora gli appare il diavolo con in dosso il mantello donatogli, e gli dice d’essere mandato dall’arcangelo Michele per riportar lui a casa, ove la moglie sua sta per rimaritarsi. E lo riporta a casa davvero.
Parecchi altri cavalieri e parecchi santi viaggiarono a questo stesso modo, senza che la magia c’entrasse per nulla. Di sant’Antidio, morto, come si crede, nel 411, raccontano che si fece portare a Roma da un diavolo per dare una lavata di capo al papa, il quale aveva commesso non so che peccatuzzo contro il sesto comandamento.
Di molti diavoli si legge che servirono volonterosamente in casa di persone dabbene e persino in conventi. Certo, questi servigi loro non sempre erano disinteressati, e potevano recare pericolo grande a chi se ne giovava. Nel VI secolo sant’Erveo scoverse un diavolo sotto le vesti di un servitore, in casa del conte Eleno, e un altro ne scoverse nel convento del santo abate Majano: entrambi confessarono le malvage loro intenzioni. Gualtiero di Coincy narra la storia di un demonio, che si pose ai servigi di un ricco uomo, e tentò, non solo di distorlo dalla virtù, ma di ucciderlo a dirittura. Questa poteva esser la regola; ma anche tra i servitori diavoli qualcuno di buono se ne trovava. Un diavolo si pone per valletto con un cavaliere, e lo serve con somma fedeltà e discrezione, anzi, in certa congiuntura, scampa lui e la moglie da sicura morte. Scopertane la natura, il cavaliere non osa più tenerlo con sè, ma gli dice di chiedere qual premio più gli piaccia de’ suoi servigi. L’onesto demonio chiede una piccola somma, e avutala la restituisce al padrone, pregandolo di voler comperare con essa una campana per certa chiesa povera. Così racconta il nostro Cesario. Un altro diavolo stette più tempo ai servigi del vescovo di Hildesheim, secondo attesta il Trithemio. In un vecchio racconto italiano si legge di un diavolo che stava con certi monaci e faceva con grandissima diligenza e puntualità il lavoro di dieci servitori: “onde subitamente apparecchiava la mensa e sparecchiava, e spazzava e lavava le scodelle, e così molti altri servigi: e che più è, sonata la prima volta al mattutino, toglieva un bastone e picchiava le celle, sollicitandogli ch’andassero a dire mattutino nella chiesa.„ Un esempio ancora e poi potrà bastare. Il cronista tedesco Bernardo Hederich (secolo XVI) racconta la storia di un diavolo, il quale servì lungo tempo onestamente in un convento di francescani, nella città di Schwerin, e non chiese al partirsi altro premio che una veste di più colori, con molti sonagli intorno, già pattuita innanzi.
Ma anche in altro modo sanno rendersi utili i diavoli dabbene. Uno di essi una volta fece scommessa coll’arcangelo Michele a chi avrebbe fabbricata la più bella chiesa sul monte di Normandia che appunto ha nome dall’arcangelo. Un altro giunse a insegnare a san Bernardo sette versetti dei salmi, che, recitati ogni giorno, assicuravano il paradiso. Un altro, senz’essere richiesto, trasportò l’anima di un cavaliere ammalato a Roma e a Gerusalemme, e gli fece racquistare la sanità perduta. Questi erano certamente diavoli nobili e di gran levatura: quelli di minor conto facevano ciò che potevano. Cesario racconta di uno che per una cesta d’uva custodì una vigna.
Che diremo del diavolo credente, che recitava orazioni e confessava le verità della fede? Di uno, che entrato in corpo a una vecchierella, cantava inni, salmi e il Kyrie eleison, si narra nella Vita di san Giovanni Gualberto. Nella storia popolare di Fausto, ricordata più sopra, questi ragiona di teologia con Mefostofile. Il demonio dice, con molta verità, della bellezza ond’era adorno nel cielo il suo signore Lucifero; della caduta sua e degli angeli ribelli, provocata dalla superbia; delle tentazioni che i diavoli adoperano contro gli uomini; dell’inferno e de’ suoi tremendi castighi. Una volta Fausto gli domanda: “Se tu fossi uomo e non demonio, che faresti per piacere a Dio e agli uomini?„ ed egli risponde sorridendo: “Se io fossi uomo, come tu sei, io m’inchinerei dinanzi a Dio sin che avessi fiato, e farei quanto fosse da me per non l’offendere e per non muoverlo a sdegno. Osserverei la sua dottrina e la sua legge; non invocherei, loderei, onorerei se non lui, e mi guadagnerei così dopo la morte, la beatitudine eterna.„
Ma il più savio, buono e cortese diavolo che mai sia stato al mondo è quell’Astarotte che Luigi Pulci introduce in certa parte del suo Morgante Maggiore. Malagigi, il mago benefico, ha scoperte le frodi del traditor Ganellone, e prevede la sciagura che sta per incogliere Orlando e gli altri paladini in Roncisvalle. Egli allora evoca il demonio Astarotte per sapere dove sieno Rinaldo e Ricciardetto. Astarotte narra una lunga storia delle loro avventure in Asia ed in Africa, poi, a un certo punto gli scappa detto che il Figliuolo non sa tutto ciò che sa Dio Padre. Malagigi rimane di ciò confuso, e vuole averne ragione; ed ecco il diavolo entrare in un nuovo discorso, in cui molto dottamente, e in modo al tutto ortodosso, ragiona della Trinità, della creazione, della caduta degli angeli; e avendo Malagigi notato che questa caduta non par si concilii con la infinita bontà di Dio, egli va sulle furie, e afferma che Dio fu egualmente buono e giusto per tutti, e che i caduti non d’altri si debbono dolere che di sè stessi. Dopo di ciò, tolto in sua compagnia il demonio Farfarello, se ne va in Egitto, per prendere Rinaldo e Ricciardetto, cui usa, tornando, mille cortesie. Provvede vivande squisite, sventa l’inganno di un altro demonio, Squarciaferro, mandato da un negromante nemico, e a Rinaldo descrive molti strani animali che sono in Africa e in Asia, e chiarisce, come a Malagigi, alcun punto più oscuro della fede, affermando che
Vera è la fede sola de’ Cristiani, |
Giunti tutti insieme in Roncisvalle, egli, nell’accommiatarsi, può dir con ragione:
Non creder nello inferno anche fra noi |
e Rinaldo, che del suo partire si duole, quanto fussi fratello, afferma di credere che sia in inferno,
invita lui, e Farfarello, e Squarciaferro ancora, fatto di nemico amico, a venirlo a vedere, e prega Dio che perdoni loro.
Il diavolo zoppo del Guevara e del Lesage è, esso pure, un buon diavolo.
Fu notato che nel diavolo bonario e servizievole riappajono alcuni caratteri proprii di esseri mitologici benigni, come gnomi, elfi, silfi; ma il concetto di un diavolo così fatto, anzi di un diavolo che potesse ravvedersi e redimersi, doveva sorgere spontaneamente negli animi, senza bisogno di suggestioni derivate di lontano.
Nel secondo e nel terzo secolo dopo Cristo, Giustino, Clemente Alessandrino e il grande Origene ammisero come possibile, o a dirittura come necessario, il ravvedimento del diavolo; Didimo di Alessandria e Gregorio di Nissa professarono nel IV la stessa opinione. Ma la opinione contraria, che cioè il diavolo non potesse pentirsi, e che la dannazione sua fosse eterna e irreparabile, prevalse, e dal sesto secolo in poi fu considerata come la sola ortodossa. Nel medio evo la eretica dottrina non è più sostenuta che da Scoto Erigena, e sant’Anselmo la combatte ad oltranza; san Tommaso, lume della teologia, nega recisamente che il diavolo possa diventar migliore. Nella Vita di san Martino, scritta da Venanzio Fortunato nel sesto secolo, si dice che il diavolo, se potesse pentirsi, sarebbe salvo; ma ciò che si negava appunto era la possibilità del pentimento in lui, e per negare quella possibilità, senza da altra banda negare il libero arbitrio, il quale era in lui non meno che negli uomini, si annaspavano strane e sottili dottrine; si diceva, per esempio, che il diavolo non poteva fare penitenza, per non essere in lui che una sola natura, la spirituale, mentre l’uomo, in virtù della penitenza, ascendeva da carne a spirito. Ma i teologi di professione avevano un bell’annaspare e un bell’arzigogolare; il popolo, il quale sente assai più che non ragioni, non riuscì mai a capacitarsi interamente di quella malvagità non necessaria, e pure irrimediabile del diavolo; ammise, se non altro, in più di un demonio, il desiderio di far penitenza; e se l’avessero lasciato fare, qualcuno in cielo ne avrebbe portato di certo. Ebrei e maomettani furono in ciò più larghi di manica che non i cristiani. Fu opinione dei rabbini, che come l’inferno un giorno sarà purificato e santificato, così i demonii saranno convertiti novamente in angeli; e di demonii convertiti si parla nel Corano.
Desiderio del cielo perduto, e pentimento della stolta ribellione mostrarono in varii tempi più diavoli. Di uno, assai degno di compassione, racconta l’inesaurabile Cesario: in un vecchio poema inglese, The develis parlament or parlamentum of feendis, il diavolo si oppone a Cristo venuto a liberare le anime dell’inferno, e non potendogli contrastare, chiede di essere liberato con loro. Da questo desiderio di redenzione poteva nascere la volontà di adoperare i mezzi che conducevano a redenzione: si capisce per altro, come quei mezzi dovessero riuscir alquanto ostici a diavoli di professione, e come, fattone il saggio, questi smettessero e si tirassero indietro.
Sant’Ipazio domandò una volta a un diavolo perchè non si pentisse, mentre, pentendosi, avrebbe potuto ottenere facilmente perdono: il diavolo ch’era dei più protervi, non volle riconoscersi peccatore. Era questo, come ognun vede, un assai cattivo principio, perchè la prima cosa che il peccatore ha da fare è di riconoscere d’aver peccato, e pentirsi. In un contrasto italiano fra Cristo e Satana, questi si lagna del Redentore, che amò l’uomo, creatura vile più di lui, creatura angelica, e l’uomo redense, lasciando lui in disperata miseria. Cristo gli dice: “Se io non t’ajuto, questa si è la casgione che tu medesmo non ti vuoli ajutare. Perciò ajuto l’omo ch’elli medesmo s’ajuta. Così salverei io tei come lui, se tu ti vollessi ajutare pentendoti et adorandomi et dimandandomi misericordia et dicendo tua colpa et adorandomi come singnore.„ Ma Satana risponde orgogliosamente: “Io mi pento ch’io caddi di cielo; ma non perchè io ti voglia adorare, nè dire mia colpa. Innansi vorrei andare in profondo di inferno, in cento milia cutanta pena ch’io sia, non ch’io ti volesse adorare.„
Tristo diavolo anche questo! altri di miglior indole pensarono sul serio a convertirsi, e giunsero sino a volersi confessare. Che i diavoli si confessino è caso raro; assai più frequente in vece che facciano essi da confessori, e allora bisogna guardarsi bene e raccomandarsi a Dio, perchè, ad ogni peccato che odono recitare, per quanto brutto e grave esso sia, hanno in uso di dire: “Non è nulla ciò; non v’è male alcuno: non vi badate.„ Pure qualcuno se ne confessò: al qual proposito è da ricordare che spesse volte diavoli cicaloni, fecero, non chiesti, conoscere ad uomini di santa vita, le arti loro più nascoste e più frodolenti, e Pietro il Venerabile s’ingegna di spiegare perchè essi, pur tanto astuti, facciano ciò. Il solito Cesario racconta che un diavolo s’andò un giorno a confessare, sperando perdono. Il confessore, prete caritatevole e discreto, non gl’impose altra penitenza se non d’inginocchiarsi ogni giorno tre volte, e dire con animo contrito: Signore Iddio, mio creatore, ho peccato, perdonami. Ma il diavolo, ch’era pur sempre un diavolo, la trovò troppo aspra al suo orgoglio, e non se ne fece altro. Guglielmo di Wadington, già ricordato altra volta, autore di un Manuale dei peccati, racconta la storia di un altro diavolo, che vedendo i meravigliosi effetti della confessione, e come molti si salvassero per essa, volle una volta confessarsi, e andò a recitare a un sant’uomo la sterminata e spaventosa lista de’ suoi peccati; ma senza effetto, perchè rifiutò di far penitenza. Altri sacramenti dovevano riuscir men gravi ai maledetti superbi. Dal famoso processo di Mora in Isvezia, nel 1669, venne fuori, insieme con altre moltissime cose, che nei consueti ritrovi delle streghe il diavolo chiamava un prete e si faceva battezzare.
Nell’immortale poema del Milton, Satana, sopraffatto dall’orrore della miseria in cui è precipitato, e più dall’orror di sè stesso, rimpiange il commesso peccato, il paradiso per sempre perduto; ma sente di non poter chiedere nè ottenere perdono, e, disperato, prorompe in queste terribili parole:
Or bene, addio, speranze!... |
Non meno tenace si mostra, nè meno fiero parla l’Adramelecco del Klopstock; ma e l’uno vince il Lucifero del Byron, l’altero e indomabile Lucifero, che a Caino, il quale gli ricorda Dio, signore del tutto, risponde:
Ah no! pel cielo |
Ma nella stessa Messiade del Klopstock è il demonio Abbadona, che piange il proprio peccato e la morte di Cristo, e rientra, ribenedetto da Dio, nel paradiso. La Sand nel Consuelo, e il Montanelli in un suo poema drammatico intitolato La Tentazione, mostrarono un Satana convertito e redento; Alfredo de Vigny, in un poema immaginato, ma non composto, Satan sauvè, voleva narrare la storia di Satana salvato dall’amore di Eloa, angelo nato da una lacrima di Cristo; e Vittore Hugo, in un poema rimasto incompiuto, La fin de Satan, la riconciliazione di Satana con Dio.