Il bel paese (1876)/Serata XXI. - Il letargo e le migrazioni

Serata XXI. - Il letargo e le migrazioni

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Serata XXI. - Il letargo e le migrazioni
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SERATA XXI


Il letargo e le migrazioni.

Animali ibernanti, 1. — Causa del letargo non è il freddo, 2. — Il letargo estivo a tropici, 3. — Fisiologia del letargo, 4. — letargo con fase di speciale attività, 5. — Migrazioni apparenti, 6. — Migrazioni vere, 7. — Un po’ di predica sulla Provvidenza, 8. — Gli insetti distrutti dai pipistrelli, 9. — Il guano del Perù, 10. — Il guano dei pipistrelli, 11. — Pipistrelli mangerecci, 12. — I parassiti de’ pipistrelli, 13. — Il nostro egoismo e il magistero della natura, 14.


1. «I pipistrelli, hai detto, dormono dei mesi interi?... Oh questa sì che l’è curiosa», disse l’Annetta, appena mi vide seduto, quasi continuasse il discorso interrotto sette giorni prima.

«Qual meraviglia? Vi hanno tanti animali che dormono le intere stagioni.... Non hai mai sentito parlare di animali ibernanti? di ibernazione? di sonno, di letargo invernale?».

«Oh sì», saltò a dire Giovannino; «ho letto della marmotta, che dorme tutto l’inverno».

«Non solo la marmotta, ma il riccio, l’orso, il tasso, il castoro, lo scojattolo, il lepre, ecc., son gente soggetta a un letargo invernale, più o meno lungo, più o meno profondo. Questi tra i mammiferi: ma il letargo è ancora più deciso, e può dirsi assolutamente fenomeno universale pei rettili, come le tartarughe, le lucertole; per le lumache che si chiudono nel loro guscio; per gl’insetti che si fabbricano il bozzolo, e vi passano lunga stagione allo stato di larva. Or bene, i pipistrelli sono anch’essi animali eminentemente letargici. Ditemi un po’.... Vedeste mai i pipistrelli uscire a diporto in quelle belle sere di gennajo, in cui le stelle brillano così pure? No, certamente; nè in gennajo nè in tutto l’inverno, finchè non ritornino i primi tepori di primavera. Dove se ne stanno tutti quei pipistrelli, che volano d’estate per ogni [p. 347 modifica]parte in città e in campagna? Volete vederli? Salite sul solajo, osservate i luoghi più oscuri, più riposti, più difesi dalle intemperie; penetrate nelle caverne e rimarrete storditi della quantità di pipistrelli, appiccicati, come al solito, durante il riposo, agglomerati insieme a migliaja, e per di più immobili, stecchiti, come fossero morti. Essi dormono il sonno invernale. Giuseppe Mangili, già professore di storia naturale all’università di Pavia, celebre pe’ suoi studî sul letargo invernale1, visitò precisamente la nostra buca del Corno sulla fine d’estate nel 1795. Vi trovò fin d’allora coperto il suolo d’escrementi, e la volta di pipistrelli. Questi appartenevano tutti alla specie che abbiam detto del pipistrello- topo. Ci tornò poi in dicembre dello stesso anno, e non trovò più che 300 pipistrelli, divisi in due gruppi, assiderati, perfettamente insensibili, infine nello stato di profondo letargo. Sparò una fucilata contro quei gruppi, e ne caddero una sessantina tra morti e feriti. Il credereste? Nemmeno i feriti si riscossero, continuando a dormire colla stessa tranquillità».

«Dormono lungamente?...» chiese la Giovannina».

Questo a norma delle specie, della stagione, del clima.... Le specie meridionali dormono da 2 a 3 mesi: le settentrionali da 4 a 5. Vi sono delle specie meno riguardose, che si risvegliano qualche volta d’inverno, appena ci sia una giornata un po’ mite, fanno la loro partitina di caccia, e poi s’addormentano di nuovo». «Dunque durante tutto quel tempo», domandò l’Annetta, «i pipistrelli non mangiano nemmeno?».

«Non solo non mangiano, ma quasi non respirano; si direbbero veramente morti. La respirazione si rende infatti lentissima, lentissima la circolazione del sangue: la temperatura interna di quei poveri animali si abbassa fino a 4° e vuolsi fino ad 1° sopra zero del termometro centigrado».

«E se gelassero?» chiese la Giannina.

«Se gelassero, morirebbero. Sembra che a 0° non possa persistere la vita di quegli animali....».

2. «È il freddo, n’è vero», ripigliò la Giannina, «che pro duce quel sonno così lungo nei pipistrelli e negli altri animali, che presentano il fenomeno del letargo invernale?». [p. 348 modifica]

«Il freddo.... Non si può dire ciò con tutta esattezza. Gli animali ibernanti anzi lo temono il freddo, come quello che, arrivato a un certo punto, li ucciderebbe senza remissione. Avvisati dal loro istinto maraviglioso che la stagione invernale si appressa, e che la natura li condanna a giacersi privi di forze, incapaci di movimento nei mesi più rigidi, cercano un riparo contro la rea stagione, e lo dispongono all’uopo con ogni finezza di arte, per salvarsi dal freddo. È mirabile in ciò la marmotta, che proprio in seno alle Alpi, sa cercarsi una tana, e sprimacciarvisi un letto così bene studiato, che al sopravvenire del letargo, e quando tutto è stretto dal gelo all’esterno, essa trovasi a riposare in un ambiente della temperatura di 8 gradi. Sono osservazioni del Mangili, il quale vi dice ugualmente come le nottole, al sopravvenire del letargo invernale, ricorrono ai solai, penetrano nei comignoli delle case, e sopratutto si rintanano nelle caverne, le quali mantengono anche d’inverno un grado notevole di tepore, proporzionato alla loro profondità. Non è dunque il freddo, e molto meno un freddo eccessivo, che determini o mantenga il letargo degli animali. Volete di più? Un freddo appena eccessivo desta gli animali dormenti, e destatili li uccide. Il bravo Mangili narra come gli avvenne di visitare appunto la buca del Corno, un’altra volta, nei primi giorni di febbrajo del 1804. Vi trovò centinaja di pipistrelli che pendevano dalla volta della caverna in istato di perfetto letargo. Egli ne staccò alcuni, e, portatili, così dormenti, fuori dell’antro, scavò delle pozzette nella neve, e ve li pose a giacere. Quei pipistrelli, che si sarebbero detti incapaci di sensazione, anzi privi di vita, posti a contatto della neve, cominciarono a respirare vivamente, come per compensare con una più attiva circolazione il calore che andavano perdendo; in seguito si risvegliarono, e ricuperato un calore di 30°, levaronsi a volo, rientrando ben tosto nella tepida caverna. Se il naturalista avesse costretto quei pipistrelli a rimanere nella neve, i poverini sarebbero morți gelati. Gli accadde, per esempio, nel mezzo di un inverno freddissimo, di trovare sui davanzali delle finestre dei pipistrelli agghiacciati. Certamente i tapini, desti da un freddo a cui non avevano trovato sufficiente riparo, erano venuti cercando più mite ambiente, guidati forse dal lume che splendeva attraverso le invetriate: ma non potendo entrare, erano morti sulla soglia inospitale».

3. «Mi pare però», riflettè con molta acutezza la Marietta, «che se il freddo eccessivo sveglia e uccide i dormenti, stia [p. 349 modifica]pur sempre nel freddo (in un freddo moderato, s’intende ) la ragione del sonno invernale. Ciò è tanto vero, che tutti codesti animali ibernanti dormono d’inverno e....».

«E per ciò si dissero ibernanti, da un verbo latino che vuol dire svernare, e chiamossi invernale il loro letargo. Ma venne poi un tempo in cui i naturalisti dovettero acconciarsi ad ammettere un sonno estivo».

«Vi han forse animali», ripigliò tosto un po’ mortificata la Marietta, «che dormono l’estate invece dell’inverno?».

«Ma sicuro: e se diciamo che il freddo produce il sonno degli animali nelle nostre regioni temperate, dovremo dire che lo stesso effetto è prodotto dal caldo nelle regioni tropicali. L’Humboldt ne’ suoi splendidi Quadri della natura descrive il maraviglioso alternare delle stagioni nelle sconfinate steppe dell’America tropicale, che si chiamano Llanos2. Durante la stagione delle piogge, che sarebbe l’inverno dei tropici, le steppe presentano l’aspetto di un immenso lago. I giumenti si rifugiano coi loro piccoli sui banchi erbosi, che si elevano come isole in mezzo alle acque, fuggendo dalle scariche elettriche dei gimnoti, anguille della lunghezza di 6 piedi, e dal morso dei coccodrilli, che formicolano in seno alle acque. Ma ecco la stagione della siccità! ecco la state! Sotto un cielo senza nubi, sotto il raggio verticale del sole, i grandi veli d’acqua si restringono, scompajono; gli erbosi tappeti si carbonizzano e si riducono in polvere; il suolo s’indura e si screpola; nubi di polvere infocata si aggirano vorticose sul piano desolato. Inviluppato nelle nubi polverose, tormentato dalla fame e dalla sete, si sente il bestiame riempir l’aria di sordi muggiti, e veggonsi i cavalli, il collo teso, il naso levato al vento, intesi a scoprire qualche rimasuglio d’acqua in mezzo al cocente deserto. Dove sono quelle orde di rettili formidabili, che infestavano le sconfinate paludi? Come in seno alle Alpi ghiacciate si addormentano le marmotte, così dormono immobili il coccodrillo e il boa, sepolti nel fango disseccato, per non destarsi che al ritorno delle piogge. — Qualche volta, — dice l’Humboldt riportando i racconti degl’indigeni, — sulle rive degli stagni vedesi il fango, inumidito dalle prime piogge, sollevarsi lentamente a strato a strato. D’un tratto, con un fracasso simile all’esplosione di un vulcano di fango, la terra sollevata è lanciata in aria. Lo spettatore fugge davanti all’improvvisa apparizione: è un serpente [p. 350 modifica]acquatico gigantesco, o un coccodrillo corazzato, che risorge dalla tomba, risuscitato dalla sua morte apparente al sopravvenire della prima ondata. Che te ne pare, Marietta? È il freddo o il caldo che produce il letargo?».

4. «È l’uno e l’altro», rispose l’interrogata.

«Allora nè l’uno, nè l’altro, perchè non si vedrebbe come due cause opposte possano produrre l’identico effetto. Io direi che il letargo invernale od estivo è una conseguenza della speciale organizzazione dei diversi animali, destinati a vivere sotto un clima piuttosto che sotto un altro. Un certo grado di temperatura esterna è sicuramente una delle condizioni perchè l’animale obbedisca alle leggi del proprio organismo, eserciti una speciale funzione. Ma il dire che il freddo o il caldo sono la causa del letargo, parmi, lo ripeto, un esprimersi con molta inesattezza. Il signor E. Baudement3 paragona il sonno letargico al sonno naturale ordinario; il sonno annuale al sonno quotidiano. Il sonno invernale o estivo sarebbe un lungo periodo di riposo a ristoro di un lungo periodo di attività. Non è nè il freddo nè il caldo. che ci costringe a dormire; ma la stanchezza che ci coglie dopo molte ore di veglia. Il freddo e il caldo, come l’oscurità, ci conciliano il sonno; questo è vero: ma non ne sono la causa. Una volta che abbiamo ben dormito, non c’è nè freddo, nè caldo, nè oscurità che ci sottragga alla veglia. Piuttosto nel metterci al riposo noi cerchiamo per istinto di metterci al riparo dagli agenti esterni per non esserne disturbati. Perciò dormiamo volentieri sotto le coltri d’inverno, e al rezzo d’una pianta d’estate. Così i pipistrelli si cacciano nelle caverne dove fa più caldo d’inverno, e i coccodrilli d’America sotterra, ove fa più fresco d’estate. Il sonno è necessario, come il nutrimento, all’uomo ed agli animali. Noi e tanti animali che ci assomigliano pel loro organismo, mangiamo tutti i giorni, e più volte al giorno; il boa non mangia che a intervalli di molti giorni, fors’anche di mesi. Così, se noi e tanti animali alterniamo la veglia e il sonno coi giorni e colle notti, il baco da seta dorme quattro volte nella sua vita di larva, e gli animali ibernanti alternano il sonno e la veglia colle stagioni. E tanto vero che il letargo animale equivale al sonno quotidiano, che potete osservare in genere, come gli animali letargici siano, nel lungo periodo di veglia, animali notturni e diurni ad un tempo. I pipistrelli volano di notte; ma li trovate ben [p. 351 modifica]desti di giorno nelle caverne ove sentono il vostro appressarsi, e si mettono in moto: il riccio dà la caccia di notte ai bacherozzoli; ma lo sorprenderete anche di giorno a rotolarsi sul prato: di notte il ghiro dà l’assalto alle noci; ma lo vedrete pure talvolta di giorno sdrucciolarsi furtivo tra fronda e fronda: o sfolgori il sole, o piova i suoi miti splendori la luna, non ismettono nè il grillo, nè la rana l’usata canzone. Bisogna pure che arrivi un tempo in cui si rifacciano di tanti giorni, di tante notti di veglia. Se è così lunga per quegli animali la giornata laboriosa, dovrà esser lunga in proporzione la notte del riposo, altrimenti il loro organismo ne soffrirebbe. Potremmo noi vivere senza dormire?».

«Che?» domandò Giovannino; «si può egli morire di veglia?».

5. «Sì certamente, come si può morire di fame e di sete. Noi abbiamo del sonno un’idea molto incompleta. Anche per la scienza, vedete, il sonno, a un dipresso, è ancora un mistero. Il sonno fu paragonato alla morte: lo si considera in genere come un periodo d’inerzia, un periodo negativo nella vita dell’animale. Falso, falsissimo! Il sonno è anch’esso una funzione, anzi un complesso di funzioni: è un periodo di attività come la veglia. Durante la veglia l’attività dell’animale è tutta, dirò così, assorbita dai rapporti col mondo esterno: durante il sonno, l’attività, sottratta all’influenze esterne, tutta si concentra nell’interno occupata de’ suoi rapporti coll’organismo. Ripara allora alle perdite che i nostri organi hanno sofferte dall’attrito così moltiforme col mondo esterno; prepara allora l’organismo all’esercizio di quelle funzioni più complicate, a cui può essere chiamato nel suo progressivo sviluppo. Oh sonno benefico! Come è orribile il giorno dopo una notte di veglia! Quante volte l’infermo, straziato dai dolori, divorato dalla febbre, dopo qualche ora di sonno, si trova ridesto alla vita, ridonato alla salute? Chi può dire il lavoro di profondo ristauro compito dal sonno in quell’afflitto organismo? In questo senso il letargo, come sonno più intenso e di più lunga durata, sarà pur capace di ristaurare le parti più intime dell’organismo, capace anche di trasformarlo. Paragonare, come si è fatto, il letargo degli animali, a quel letargo funesto, con cui ci assale un freddo eccessivo, è follia. Che ci ha a fare quel letargo morboso, per cui il povero alpigiano si abbandona nelle spire atroci della frugna4, che gli succhia il calore e la vita, con [p. 352 modifica]quel letargo riparatore che la vita rinnovella ed accresce? Avete bisogno che io vi narri i portenti vitali del letargo? Osservate gl’insetti che, come il baco da seta, sono destinati in vita a così meravigliose trasformazioni. Non parliamo di quelle dormite periodiche, per cui quelle larve vanno successivamente spogliandosi e rivestendosi, guadagnando sempre di attività vitale, e palesandola alla voracità sempre crescente. Siamo al momento solenne; al momento di quella morte apparente che precede la totale trasformazione degl’insetti. Quella larva vi si prepara con un lavoro che in sè racchiude un mondo di meraviglie. Da prima una rada orditura riempie, a modo di nube leggerissima, il vano tra fronda e fronda. Ma quella nube si condensa: la larva a poco a poco si dilegua e in pari tempo un’altra forma più decisa traspare da un contorno indefinito: è il bozzolo; la larva si è così fabbricata una tomba. Prendete quel bozzolo; tagliatelo; eccovi una figura stupidamente imbacuccata, eccovi la crisalide, somigliante a un cadavere, ove non rimane che un resto di vita, tradito da lievi guizzi, da deboli contrazioni. Passano alcuni giorni: un leggero crepitare vi avverte che un essere vivo si agita là dentro, ove prima regnava un mortale silenzio. Quella tomba si apre.... Chi ravviserebbe nel fantasma che ne sboccia quel lurido bruco che vi si chiuse pochi giorni innanzi? Quel fantasma è un essere ebbro di una vita tutta novella. Le ale flaccide e ripiegate si agitano e si distendono: il raggio del sole vi si frange in una miriade di gemme. Leggera come l’aria, di cui diviene libera cittadina, ecco librarsi la vaga farfalla, cinta di tutti gli splendori di una reggia, e ruota, e turbina, poggiandosi leggera or su questo fiore, or su quello, simbolo della vita, simbolo di quella Psiche, che è l’anima, che è la sostanza delle più sublimi nature. Direte voi che il letargo è simbolo di morte? Ditelo pure: ma nel senso che piglia la morte guardata al raggio della fede nella immortalità: in quel senso in cui disse Dante:

Non v’accorgete voi che noi siam vermi
Nati a formar l’angelica farfalla?5».

6. Tutta questa tirata un po’ troppo filosofica m’era uscita, senza avvedermene, dimenticandomi un pochino qual fosse la natura e la capacità del mio piccolo uditorio; sicchè alla fine, risovvenendomi, dovetti ridere di me stesso. «Vedete?... Dai [p. 353 modifica]pipistrelli siamo venuti fino alla risurrezione e alla immortalità. Eppure io credo che la contemplazione della natura finisca sempre col trasportarci in quest’ordine d’idee, superiore alla natura. Ritorniamo ai nostri pipistrelli, poichè non vo’ che ignoriate alcune altre particolarità interessanti della loro vita. Vi ricorderete come io rimasi un pochino sconcertato quando, dopo aver predetto al signor Major quella moltitudine infinita di pipistrelli, che mi aveva quasi soffocato nella mia visita d’estate alla caverna, la trovai invece quasi spopolata allorchè la visitammo insieme sul principio della primavera. Lo stesso era già avvenuto al professor Mangili. Quando v’entrò sulla fine dell’estate del 1795, trovò tutta la volta della caverna coperta di pipistrelli e tutto il suolo di escrementi. Ripetendo invece la visita nel dicembre dello stesso anno, non vi scopri che due gruppi di pipistrelli, assiderati. Ma il Mangili osservò qualche cosa di più della semplice differenza di numero: voglio dire che ebbe anche a notare la differenza delle specie. Nell’estate non trovò che il pipistrello-topo: nell’inverno invece il solo rinolofo a ferro di cavallo. — Come va questa faccenda! Gli abitatori della caverna si cambiano dunque secondo le stagioni? — Il Mangili infatti ne conchiuse che i pipistrelli sono, al pari degli uccelli, animali migratori, ossia di passata; che, come le rondini passano in un luogo l’estate, e in un altro l’inverno. Così il pipistrello-topo che abita d’estate le nostre caverne, andrebbe a svernare altrove, ove regni un clima più mite; e il rinolofo a ferro di cavallo, che ha goduto delle frescure della Germania durante l’estate, verrebbe a porsi allo schermo dei geli in seno ai tepidi antri delle nostre montagne. Il signor Major non è di questo avviso ed io inchinerei a dargli ragione. I primi pipistrelli, incontrati da noi prima di oltrepassare il pertugio, erano rinolofi, forse gli ultimi rimasti della caterva che vi aveva svernato, poichè allora eravamo al principio della primavera. Oltrepassato il pertugio, il che non pare aver mai fatto il Mangili, ci trovammo un numero immenso di individui dell’altra specie, cioè del pipistrello-topo. Erano forse già dunque venuti da paesi più caldi, mentre potevamo ancora dirci in inverno? Pare improbabile. Poi non è vero che il pipistrello-topo passi l’inverno in paesi più caldi dell’Italia settentrionale, mentre si trova in gran copia durante l’inverno anche al di là delle Alpi. Mi narrava il signor Major che in un certo inverno si volle accendere il fuoco a un camino nel castello di Lucens nel cantone di Vaud: ma ben tosto si avvisò che la canna del [p. 354 modifica]camino era ostrutta. Nell’osservare da che nascesse l’intoppo, si trovò che un’innumerevole colonia di pipistrelli, precisamente della specie pipistrello-topo, vi si era posta a svernare, ostruendone affatto il vano».

«Come si spiegherà dunque», domandò Giannina, «codesto cambiarsi degli abitatori nella caverna d’Entratico?».

«Essi non si cambiano, o almeno non si cambiano pel fatto di una vera migrazione da un paese all’altro. Si può ammettere soltanto, come pensa il signor Major, che i pipistrelli cerchino un ambiente più mite durante l’inverno, senza cambiar paese. Le loro esigenze in proposito saranno in rapporto colla relativa delicatezza delle diverse specie. Il pipistrello-topo, come specie più delicata, cerca d’inverno il fondo della caverna, ove si mantiene maggiormente il tepore; il rinolofo invece, che ha più dello spartano, si contenta di occuparne la parte anteriore appena riparata. Viene l’estate? Il rinolofo andrà ad abitare, per esempio, l’aperta campagna e i ventosi solai, lasciando il posto al pipistrello-topo, che viene a star bene più in quà, verso l’ingresso della caverna.... Nella parte anteriore della caverna si troveranno dunque, come trovammo noi, e il Mangili quasi 80 anni prima di noi, il pipistrello-topo d’estate, e il rinolofo d’inverno. Bisogna ritenere però in questo caso che la colonia dei pipistrelli-topi sia infinitamente più numerosa di quella dei rinolofi, per cui durante l’estate soltanto la parte più accessibile della buca del Corno è così meravigliosamente popolosa.

7. » È tuttavia incontestabile che alcune specie migrano veramente da un paese all’altro. Il Vesperugo Hillsondi, per esempio, non s’incontra che d’estate nella Russia settentrionale. Scompare d’inverno, e viene a passarlo in Germania o presso le falde settentrionali delle Alpi. Nei paesi più caldi, ove assai maggiore è l’abbondanza dei pipistrelli, le loro migrazioni si osservano anche più facilmente. Durante la stagione della siccità, che è, come già dissi, l’estate delle regioni tropicali, certi pipistrelli si ritirano nelle montagne, e altri si portano in paesi lontani, per ritornarne dopo alcun tempo.

» In alcuni casi non sono le ragioni del clima che determinano i pipistrelli a cambiar paese, ma l’opportunità del pascolo. Il signor Heugli wurtemberghese, noto pe’ suoi viaggi nell’Africa, riporta il fatto seguente. Nei paesi dei Bogas gli abitanti si occupano assai dell’allevamento del bestiame, e sono costretti a guidarlo, come avviene da noi, per alcuni mesi dell’anno in [p. 355 modifica]luoghi lontani dalla loro ordinaria dimora. — Quando io arrivai a Queeren — dice l’Heugli — tutto il bestiame, coll’infinito moscheto che suole accompagnarlo, si trovava lontano nelle bassure della Barza. Osservai che i pipistrelli erano eccessivamente radi. Verso la fine della stagione delle piogge tutte le mandre erano tornate al paese, arrestandosi durante un mese all’incirca nelle vicinanze. Contemporaneamente comparve un numero incredibile di pipistrelli, di cui non rimase più nemmeno la traccia, appena gli armenti si furono di nuovo allontanati —».

8. Stavo per chiudere la mia lunga conversazione, quando una delle mamme, osando appena volgere uno sguardo fuggitivo al povero rinolofo, che se ne stava ancora inchiodato sulla sua tavoletta, prese a dire: «Non posso negare che il naturalista trovi sempre nello studio della natura qualche cosa di curioso e d’interessante. Ma codesti pipistrelli son pure le brutte bestie. Se non temessi di dire uno sproposito, vorrei domandare se il Creatore non poteva fare a meno di riempire l’aria di bestiacce così orribili e schifose. Non valeva egli la pena di moltiplicare piuttosto gli uccelli che ci dilettano del colore delle loro piume, ci rallegrano del loro canto, e ci prestano all’uopo uno squisito alimento?».

«Cara cognata», risposi, «hai fatto bene a mettere avanti il piede coll’esprimere il timore di dire uno sproposito. Noi dovremmo far sempre così: anzi dobbiamo star certi di dire uno sproposito, ogniqualvolta ci viene la tentazione di far la critica alla natura, poichè la natura, come opera di Dio, non può essere che perfetta. Dovremmo tenercene certi anche quando non sapessimo in nessun modo renderci ragione del bene, che è lo scopo unico, immancabile, di tutte le create cose. Parlando poi di questi poveri pipistrelli, così odiati, perseguitati, mi pare d’averne detto abbastanza per esigere che non siano calunniati come animali nocivi, od anche semplicemente inutili. Vi sono tanti beni, tanti vantaggi, di cui noi non ci accorgiamo fino a quando non ci tocchi di sperimentarne la privazione, e il danno che da essa deriva. È sentenza volgare, per esempio, che non si apprezza il bene della salute se non quando s’è ammalati. Così dicasi di tutti i beni che ci largisce gratuitamente la natura. Verrebbe in mente a un bambino di andare in visibilio per l’aria che si respira, per l’acqua che si beve? Ma quando ci sarà accaduto di trovarci anche solo in mezzo ad una calca, in un ambiente chiuso, o di camminare qualche ora sotto la sferza del sole, su d’una strada [p. 356 modifica]polverosa, oh! allora sì che avremo compreso il bene di un soffio d’aria libera, di un bicchier d’acqua fresca. Così è del bene che ci arrecano i pipistrelli. Provassimo un giorno solo il danno che sono destinati a scongiurare, noi diveremmo, non c’è dubbio, i loro cordiali panegiristi. Ditemi un po’: vi danno noja le mosche? Oh quanto! in un giorno d’estate, là in mezzo ai campi, ove ci obbligano a una tormentosa ginnastica da mane a sera, ove c’inondano la mensa, c’insozzano le vivande.... oh che supplizio degno dell’inferno di Dante! Pensate un po’: se quelle mosche dovessero moltiplicarsi quanto il consentono i loro mezzi di moltiplicazione, ogni mosca ne produrrebbe cento, forse duecento, forse mille, perchè non so veramente quante ova possa deporre una mosca. So tuttavia che le mosche sono stupendamente prolifiche, come tutti gl’insetti: e se dovessero prolificare in proporzione delle loro parenti, le api, sarebbero ancora da lodarsi di discrezione quando ogni mosca lasciasse una posterità di dieci o dodici mila mosche. Tale è infatti il numero delle ova che l’ape femmina, quella che si chiama regina, depone nelle celle dell’alveare per formare il nuovo sciame. Aggiungete alle mosche i moscherini d’ogni foggia, le zanzare, le vespe, gli scarabei d’ogni forma e d’ogni colore, le falene, insomma tutto il mondo degl’insetti volanti, ciascuno dei quali è capace di moltiplicarsi quanto le mosche e le api. Quale spavento! Quale orribile flagello! Le piaghe d’Egitto debbono parerci un ristoro in confronto dell’orribile piaga, che avrebbe per conseguenza inevitabile la distruzione di quanto vegeta o vive sulla superficie della terra, e lo sterminio del genere umano.

» Dammi un po’ quì», dissi poi volgendomi alla cognata che mi aveva tirato in questo discorso: «dammi un po’ qui quel libro del Faber che ti recai l’altro dì. Mi ricordo che c’è un passo molto a proposito.... Oh eccolo!... È proprio bellino: — Se ci volgiamo al mondo degl’insetti, il contemplarlo c’infonde una specie di nervosa trepidazione. Il numero degl’insetti ed il loro potere sono così grandi, così irresistibili, che potrebbero spazzare ogni cosa vivente dalla faccia della terra, e divorarci tutti in una settimana, come se fossero l’ardente fiato d’un angelo distruttore. Noi non sappiamo dire che cosa mai raffreni la fulminea rapidità del moltiplicarsi delle loro generazioni. Uccelli da preda, guerre intestine di ogni specie, l’attiva ostilità dell’uomo, sono mezzi che, anche calcolati al sommo, pajono inadeguati a comprimere la popolazione degl’insetti, il cui numero e la cui [p. 357 modifica]potenza di danneggiarci minacciano annualmente di espellerci dal nostro pianeta6. —

9. » Avete inteso? Ma tra gli strumenti noverati da questo pio e brillante scrittore, come ordinati dalla Provvidenza a proteggerci da un flagello così spaventevole, egli dimentica forse il principale, o almeno uno de’ più adatti. E qual è? Questi poveri pipistrelli. Sì, la buca del Corno non è che un quartiere d’inverno, per un numeroso reggimento di questo innumerevole esercito, che nella calda stagione è chiamato in campo a combattere su tutta la superficie del globo quell’esercito ancor più formidabile, il quale, supplendo col numero alla piccolezza dei corpi ed alla debolezza delle armi, riuscirebbe in breve allo sterminio del genere umano. Quel lavoro di distruzione, di cui, a nostro vantaggio, si occupano le rondini e tante migliaja di piccoli uccelletti durante il giorno, è continuato dai pipistrelli durante la notte. È incredibile a dirsi la quantità d’insetti notturni che viene così distrutta. I pipistrelli sono di una voracità insaziabile. Le grandi specie sono capaci d’ingojarsi in un momento una dozzina di scarabei, o una sessantina di mosche, senza dar segno che il loro appetito sia soddisfatto. Sfido io: con quel po’ po’ di attività ch’hanno indosso, ci vuol ben altro!

» Da tanta voracità dei pipistrelli deriva poi un altro vantaggio per noi. È proprio il caso di danno cessante e lucro emergente».

«Un lucro per loro», volle dir Giovannino, «che si sentiranno confortato lo stomaco. Ma per noi.... non capisco».

10. «Hai sentito parlare del guano?».

«Così.... qualche cosa....» soggiunse Giovannino, «come di un concime, che vien dall’America.... che so io?...».

«Ne sai anche troppo: ma gioverà saperne di più. Già capisco che questa sera la vuol andare per le lunghe. Quello che propriamente si dice guano, huanu, che in lingua quichna significa escremento d’animale, ci viene dal Perù, ove lo si scava precisamente come da noi si scavano la torba e la pietra da calce. Ma il guano non è altro, almeno per la maggior parte, che un ammasso di escrementi d’uccelli, disteso sulle coste e sulle isole del Perù. Quei depositi sono enormi, avendo una grossezza fin di 16 metri, e qualche milione di metri quadrati di superficie. [p. 358 modifica]Le sei guaniere, ossia miniere di guano, misurate da un certo ingegnere Francesco Rivero, devono dare almeno 26 milioni di tonnellate di guano».

«Tutto escrementi d’uccelli? come è possibile?...» sclamò la Camilla.

«Tutto, almeno quasi tutto, come ho detto; poichè il guano contiene cadaveri d’uccelli, ova, e altre materie».

«E come ha potuto accumularsi in quei luoghi una sì enorme quantità di escrementi?» riprese la Camilla.

«Vivono in quei luoghi degli uccelli marini, buoni volatori, eminentemente sociali, in numero veramente sterminato. Appartengono a diverse specie. Stanno appollajati giorno e notte su quelle coste irte e rocciose, e su quelle isole, le quali non son altro che scogli disabitati, ritirandosi sui monti quando tira vento. Se posano, coprono, a rigor di parola, aree vastissime; se levansi a volo, oscurano il sole. Si nutrono di pesci e sono d’una voracità incredibile. Qual meraviglia se, a lungo andare, si formano montagne di escrementi?».

«Ma noi non vediamo nulla di simile in Europa», saltò a dir Battistino, piccolo cacciatore di cince e di pettirossi. «Da noi si gira le intere giornate senza incontrare becco d’uccello».

«E sarà così anche in America, io penso, fra un secolo o due. Già a quest’ora quegli eserciti d’uccelli guanieri si sono diradati, e quasi dissipati. Capisci bene che il rombo dei cannoni che tuonano su quelle coste, l’andare e il venire dei bastimenti, l’addensarsi della popolazione, sopratutto l’invasione dei cercatori di guano su quegli scogli, devono essere molesti, anzi funesti ai poveri uccelli guanieri, non meno che i nostri Battistini alle cince ed ai pettirossi. Del resto, volendo fare una scappata in America, credo che sarai ancora in tempo a cavarti la voglia di vedere e di acchiappare uccelli d’ogni maniera. Mi ricordo di un tale Wilson, il quale calcolò che una squadra di piccioni, uccelli di passata in America, era forte almeno di 2000 milioni d’individui. Il signor Audubon descrive così una di tali migrazioni, osservata nei dintorni dell’Ohio:

— L’aria era talmente pregna di quegli uccelli, che il sole in pieno meriggio era oscurato come da un eclisse: gli escrementi fioccavano fitti come la neve. Alla mattina ero partito da Henderson, ed arrivai prima del tramonto a Louisville, che ne dista 55 miglia, coperto sempre da quella nube: i piccioni passavano ancora in truppa serrata: e lo sfilare di quell’esercito immenso [p. 359 modifica]durò ancora 3 giorni. Se una di quelle orde si arresta per alcun tempo in una foresta, tutto è in breve distrutto: e i loro escrementi coprono il suolo di uno strato di parecchi centimetri per l’estensione di migliaja di ettari7 —».

«Capisco», riflettè la Marietta, «quand’è così.... Ma tuttavia mi pare che le piogge dovrebbero essere sufficienti a ripulire il suolo da quella bruttura, mano mano che ci si va deponendo....».

«Bravissima! ma il segreto delle guaniere del Perù sta appunto in questo, che al Perù non piove».

«Come non piove?» domandarono meravigliati i fanciulli.

«No: il Perù è un paese a cui sono ignote le piogge».

«È dunque un deserto come il Sahara», osservò la Camilla.

«Invece è un giardino.... Via! bisognerebbe per darvi ragione del fatto che io vi spiegassi tutto il sistema della circolazione dei venti e delle piogge. Vi basti dunque di sapere che le coste del Perù sono una regione senza pioggia. Mentre però sotto la sferza dei tropici tutto si dissecca e si mummifica sulle nude rocce; sugli arsi rilievi e sui piani sabbiosi scendono i fiumi dalle cime ghiacciate delle Cordigliere, e convertono le valli in ubertose campagne. Basta così, n’è vero? perchè non vo’ dimenticarmi di esser divenuto l’avvocato dei pipistrelli, e mi picco di servir bene i miei clienti.

11. » Volevo dunque dirvi che anch’essi producono il guano, poichè ormai si è convenuto di chiamar guano qualunque ammasso naturale di escrementi. Quel contadino che mi servi di guida la prima volta entro la buca del Corno, mi assicurò che si andava là dentro talvolta a raccogliere il guano per concimarne i campi. Del resto, dai luoghi abbandonati, per esempio, dai solai delle chiese, il guano di pipistrello, si esporta a carrettate, ed è un guano eccellente. Quello delle caverne è raccolto regolarmente, e con grande profitto, nei Carpazî. Si conosce anche un guano che proviene dalle grandi caverne calcaree del defluvio occidentale delle Cordigliere, e si ritiene che consti anch’esso in gran parte d’escrementi di pipistrelli. Non vi pare adunque che questi poveri animali siano ingiustamente calunniati, quando si chiamano bestie inutili? Se gli uccelli, superbi di essere tanto vagheggiati, accarezzati, nutriti dagli uomini, [p. 360 modifica]volgessero un giorno parole di scherno a questi volatori notturni, i quali non vedono che visi arricciati, non odono che guai di ribrezzo, non incontrano che mani armate ad ucciderli, potrebbero ben essi rispondere: — Che l’uomo abbia per voi le carezze, per noi i colpi di granata, questa è cosa che lo riguarda. D’ingiustizie l’uomo ne fa tante!... Ma quanto al servirlo, quanto al meritarle le sue carezze, miei cari uccelletti, siamo pari. Voi struggete per lui gl’insetti di giorno, e noi di notte: voi gli preparate il guano al Perù, noi glielo formiamo giornalmente in tutte le parti del mondo.... —».

12. «Ma badi signor zio», interruppe il cacciatore di cince e di pettirossi, «gli uccelli almeno si mangiano, e che ghiotto boccone!...».

«Anche i pipistrelli....». Grido generale di ribrezzo e di spavento! «Sicuro, i pipistrelli si mangiano, e come!... Sapete che cosa vuol dire edulis in latino?».

«Mangereccio, che si mangia», fu pronto a dire Giovannino.

«Bravo! che si mangia. A Giava e nelle isole circostanti si fa una caccia spietata dello Pteropus8 edulis, per liberarsi dalle sue devastazioni, e per mangiarne le carni. E così si mangiano i suoi congeneri, cioè le rossette, che sono i più schifosi, i più terribili pipistrelli in apparenza: dipinti come bestie feroci, come vampiri del peggior conio, che hanno una larghezza fin di 1 metro e 62 centimetri: eppure animali pacifici, che vivono patriarcalmente in grandi famiglie, sospesi agli alberi o alle vôlte delle caverne e degli edifici. Abitano l’India, l’Egitto, il Senegal, l’Arcipelago indiano, ecc. L’Europa non possiede alcun rappresentante di questa famiglia....».

«E così schiveremo di diventare mangiatori di pipistrelli», disse la cognata.

«Non mi vorrai però negare», risposi, «che se si mangiano vuol dire che si trovano buoni a mangiarsi. Quanto a quella tal specie di Giava, ho letto che gli Europei la trovano disgustosa, per un forte odor di muschio che le è naturale; ma ho letto anche che la carne delle rossette è bianca, succulenta e di buon sapore. In quanti modi adunque questi poveri animali si rendono utili all’uomo!».

13. «Sta a vedere», disse la cognata, la quale mostrava di [p. 361 modifica]non volersi arrendere così presto «che di questo passo divengono un amore anche quei parassiti che rendono più sozzi cotesti sozzi animali».

«Perchè no? Io non volevo parlarne: ma, giacchè mi ci tirate per forza, non mi sento disposto a fare nessuna eccezione a quella sentenza che la natura è perfetta: il che vuol dire che non vi ha un minimo sbaglio nel divisamento, con cui la si propose di raggiungere la maggior somma possibile di bene.

» Se sono utili i pipistrelli, utile certamente è qualunque cosa valga a mantenerli. È in questo senso almeno che riescono utili a noi gli schifosi parassiti, che si annidano specialmente sotto le ali di quei volatili. Dovete sapere che, durante il letargo, non cessano per essi le diverse secrezioni della pelle. Quei parassiti sembrano necessari appunto a questo processo di secrezione, e riescono per conseguenza molto utili ai pipistrelli. Molti di quei parassiti non si nutrono di sangue, come le pulci, ma dei prodotti secretori dell’animale, o di quella che noi diciamo pelle morta. Bisogna dire che i parassiti siano veramente utili, fors’anche necessarî, alle nottole, se la natura ci ha messo tanto studio, prima a farli, poi ad assicurarli sul corpo degli animali a cui li destinava. La struttura dei peli del pipistrello è complicata: ogni pelo è come provvisto di un uncino, per cui i parassiti possono assicurarvisi, in guisa da non temere le scosse, i movimenti rapidi, vorticosi, impensati, turbolenti, a cui sono di continuo soggetti, mentre accompagnano i pipistrelli nelle loro fortunose peregrinazioni per i campi dell’aria.

14. » Imparate una volta a non giudicare utile sol quanto vi arreca un vantaggio immediato, o piuttosto un vantaggio da voi immediatamente avvertito: e dannoso ciò che vi reca una sensazione spiacevole, od anche un danno, relativo alle condizioni speciali in cui vi trovate, isolandovi egoisticamente dall’universo. È in questo senso che noi siam soliti a distinguere col nome di animali utili il bue, il cavallo, l’asino, la capra, il baco da seta, la cocciniglia, la mignatta, ecc., mentre si classificano come animali inutili o nocivi le fiere, i sorci, le locuste, i parassiti. Ma se potessimo penetrare nel magistero della natura, quante cose che si dicono inutili e nocive ci si mostrerebbero utilissime, anzi indispensabili È però un errore questo di giudicare della bontà degli oggetti, considerandoli soltanto in sè stessi. Quando si dice magistero della natura, quando si dice Provvidenza, si accenna a un gran sistema, che non esclude nessuna creatura, che a tutto [p. 362 modifica]provvede, perchè ciascuna si trovi bene al suo posto e soddisfaccia agl’impegni che le sono affidati: che coordina le parti al tutto, e il tutto coordina all’uomo, pel quale finalmente si può dire che l’universo si coordina a Dio. È questa grande legge di coordinamento di tutto il creato che va studiando il naturalista, smanioso di arrivare in qualche modo a quella sintesi, cioè a quel concetto dell’insieme che fu dal principio nel pensiero di Dio. A poco a poco questa legge si va svolgendo: ma, ahimè! si è sempre daccapo: siam sempre come quel bambino della leggenda, che s’era messo sul lido a votare il mare col cucchiajo. Una parte impercettibile di questa legge di coordinamento ci si rivela nella storia dei pipistrelli. I parassiti assicurano la prosperità dei pipistrelli: i pipistrelli distruggono le mosche e gli altri insetti; le mosche e gl’insetti distruggono le carogne, convertendole in materia animata. Distruggete i parassiti, e soffriranno i pipistrelli: uccidete i pipistrelli, e le mosche diventeranno un flagello; uccidete le mosche, e le carogne ammorberanno l’aria. Dio adunque a distruggere le carogne ordina le mosche: per tenere nel giusto numero le mosche, ordina i pipistrelli: i pipistrelli ci danno il guano; pel guano verdeggiano i prati e biondeggiano le messi: l’erba e i grani servono di nutrimento all’uomo, od alle be stie utili all’uomo. È così anche nell’ordine morale. Togliete il male, saranno essiccate le radici del bene: sbandite i poveri, e avrete soppressa la classe dei benefattori; non si versino più lagrime, e avremo un’umanità senza cuore; togliete dal mondo le offese e non vi saranno più animi generosi: appianate tutte le difficoltà, e al mondo non rimarranno che dei poltroni. Tutto questo è tanto per dir qualche cosa di quanto si legge con quel barlume di scienza o di esperienza di cui possiamo vantarci. Ma sappiamo poi quali vantaggi potrà ricavare l’età futura da quegli oggetti, che ora ci sembrano inutili, e fors’anche nocivi? I più mortali veleni non son essi divenuti altrettanti farmachi in mano della medicina o altrettanti utili ausiliarî in quelle dell’industria? E tutte quelle maravigliose scoperte, di cui tanto si gloria il secolo nostro, in che consistono esse, se non nell’aver trovato utile ciò che prima o s’ignorava o si credeva inutile? La Provvidenza a tutto provvede fin dal principio delle cose, non solo per il tempo passato e per il presente, ma anche per il futuro dell’umanità. Studiate, miei cari: avvezzatevi ad osservare anche le piccole cose, che sfuggono ai più; cercate, coll’osservazione e collo studio, di comprendere la ragione degli stessi fenomeni più comuni, e [p. 363 modifica]questo studio della natura diverrà per voi una sorgente d’ineffabili diletti. Anche gli ingegni più volgari, perfino i selvaggi si sentono penetrati della grandezza e della potenza di Dio, quando veggono splendere il sole e la luna, cadere le piogge, e coprirsi la terra di piante e animali utili. All’uomo colto, al filosofo, sono riservate ben altre soddisfazioni. Non vedete voi come la vita di un uomo, che pur possiede un cuor grande e un’intelligenza eletta, si consuma talora, si perde, direbbesi, nello studio di un piccolo fenomeno, nell’esame di un insetto, o di uno di quegli esseri impercettibili che spaziano liberi in una goccia d’acqua come in un mare? Bisogna ben dire che quell’uomo ci pigli un gran gusto, che trovi in quell’insetto, in quella monade9, quel piacere che ad altri appena sa dare la contemplazione dell’intero universo. Ed è così: o vi concentriate sopra un punto, o andiate spaziando nell’immensità del creato, la natura vi parla sempre lo stesso linguaggio. Dio non vi si impiccolisce giammai. E studia e studia: è una gara di uomini e di nazioni, è un tormentarsi d’ingegni sovrani, un consumarsi di vite preziose nello sviscerare i segreti della natura; e poi non si è sollevato che un piccol lembo del gran velo che nasconde le maraviglie dell’universo; e noi già vi ci perdiamo come in un pelago e siam sopraffatti pur da un solo barlume di tanta bontà e sapienza divina».

Non saprei definire l’effetto prodotto sull’uditorio dalla mia predica. Le donne erano divenute pensose: i fanciulli più grandicelli erano rimasti come trasognati: i bambini dormivano. L’ora era difatti assai tarda.


Note

  1. Saggio d’osservazioni per servire alla storia dei mammiferi soggetti a periodico letargo. Milano, 1807. — Il Mangili fu mosso ad intraprendere questi studî da una lettera di Lorenzo Mascheroni, che porta la data del 2 dicembre 1795, nella quale il celebre matematico-poeta lo impegnava a visitare la caverna d’Entratico a nome del grande naturalista Spallanzani (Biografia di Lorenzo Mascheroni di Camillo Ugoni, pubblicata dal prof. D. Antonio Alessandri. Bergamo, 1873).
  2. Pronunziate glianos.
  3. Dictionnaire d’histoire naturelle di C. D’Orbigny.
  4. I montanari toscani dicono frugna o frugno quella pericolosa burrasca di monte che i montanari francesi dicono tourmente.
  5. Purg., C. X.
  6. F. G. Faber, Il Creatore e la creatura, tradotto dall’inglese da Luigi Mussa, pag. 61.
  7. Milne Edwards, Zoologie. — Nella Nordamerica, sulla sinistra del fiume Ohio, a mezzo quel tratto del suo corso che divide i due stati dell’Indiana e del Kentucky, troverete Louisville; di là, seguendo la corrente, troverete più a sud- ovest, poco prima del confluente del Wabash coll’Ohio, la città di Henderson.
  8. Pteropus, dal greco pteron = ala e pous = piede, significa che ha l’ali ai piedi.
  9. Monade per i naturalisti è un animale dell’ordine degl’infusorî. Osservato col microscopio sembra un piccolo punto che si muova con grandissima velocità; ma non ci si vedono gli organi motori. — Nel linguaggio filosofico monade ha pure altri significati derivati dal suo senso primitivo di unità, per cui ne’ dadi i Greci chiamarono monade l’asso.