Il bel paese (1876)/Serata XXII. - Le Alpi Apuane

Serata XXII. - Le Alpi Apuane

../Serata XXI. - Il letargo e le migrazioni ../Serata XXIII. - I marmi di Carrara IncludiIntestazione 12 novembre 2023 75% Da definire

Serata XXII. - Le Alpi Apuane
Serata XXI. - Il letargo e le migrazioni Serata XXIII. - I marmi di Carrara

[p. 364 modifica]

SERATA XXII


Le Alpi Apuane.

Geografia delle Alpi Apuane, 1. — I marmi apuani, 2. — La Pania Forata, il Pertugio di Martino e il Monte Torghatten, 3. — Il mare dalle alture della valle di Terrinca, 4. — La Val d’Arni e i suoi torrenti, 5. — La Torrite secca, 6. — Un antico ghiacciajo nelle Alpi Apuane, 7.


1. «Dove vuoi condurci stasera?» domandò Giovannina appena mi trovai seduto al solito convegno.

«Davvero non saprei. Quei pipistrelli ci hanno in certo modo tratti fuori di strada. Dacchè s’è cominciato a prendere dalle mie gite in Italia il tema delle nostre conversazioni, io voleva darvi un’idea un po’ completa, un po’ ordinata della sua fisica costituzione. Si parlò delle Alpi coi loro ghiacciai, colle loro cascate; poi vennero gli Apennini coi loro petrolî e i loro vulcani di fango, poi.... Oh!... badate non si può lasciar l’Italia di mezzo per andar là giù in fondo a cercar cose nuove; non si può, dico, lasciarla, senza aver detto qualche parola delle Alpi Apuane».

«Le Alpi Apuane!...» interruppe Giovannino, come don Abbondio, quando s’imbattè, leggendo, in Carneade: «Ho inteso dire e ho letto anch’io delle Alpi Cozie, delle Alpi Graje, delle Noriche, delle Giulie, ecc.; ma le Alpi Apuane dove sono?».

«Non appartengono già alla gran cerchia delle Alpi, distinta in tante parti con quei nomi che hai detto. Le Alpi Apuane sorgono fra la Toscana e la Liguria, e diconsi così perchè abitate dagli antichi Liguri Apuani, fiero popolo di fierissima età1».

«Ah! vedo; sono una porzione degli Apennini», soggiunse il mio interlocutore. [p. 365 modifica]

«Cioè.... Noi subalpini abbiamo il mal vezzo di considerare gli Apennini come una sola catena, e di comprendervi quante montagne o catene rendono irta la penisola, dal luogo ove si stacca dalle Alpi, per correre a mezzodi fra l’uno e l’altro mare. Se si trattasse, che so io?... dell’Asia centrale, dell’America meridionale, potremmo contentarci di comprendere sotto i nomi di Hymalaya e di Cordigliere chi sa quante catene e sistemi di montagne! Ma in fatto di geografia d’Italia, noi Italiani almeno, dovremmo essere un tantino più esigenti. Oso dire che le Alpi Apuane hanno tanto che fare cogli Apennini, quanto gli Apennini hanno che fare colle Alpi. La catena apuana è storicamente, geograficamente, e geologicamente distinta dagli Apennini. Questi, partendo dalle Alpi, erano anticamente abitati dai Liguri, dagli Etruschi, dai Latini, ecc. Gli antichi Apuani invece sono più volte ricordati da Tito Livio come una tribù ostinatamente ribelle al giogo romano, che abitava quel tratto di paese a un di presso che ora si dice Garfagnana. Le Alpi Apuane si potrebbero anche dire Alpi di Garfagnana. Esse si distendono, irti ed ignudi colossi di aspetto alpino o prealpino in tutto e per tutto, sopra una lunghezza di circa 60 chilometri fra il 27,° 40’ e il 28,° 05’ di longitudine, e fra il 43,° e il 44,° 13’ di latitudine. Parmi che le Alpi Apuane sarebbero abbastanza ben definite se comprendessimo sotto questo nome la regione montuosa, chiusa fra la valle di Magra, il mare e il fiume Serchio che specialmente la divide dall’Apennino. Geologicamente parlando poi le Alpi Apuane figurano come porzione di una gran catena, detta da alcuni catena littorale, che, morendo sulla sponda destra del Serchio fra Lucca e Pisa sotto il nome di Alpi Apuane, risorge sulla sinistra dello stesso fiume, col nome di Monte Pisano, finchè trova la destra dell’Arno. Ripiglia oltre l’Arno colle montagne del Volterrano e di Massa Marittima, e così via via, formando una catena a sè, di aspetto e caratteri alpini, parallela all’Apennino, ma distinta, anzi divisa da esso, per mezzo di una grande depressione, a un dipresso come l’Apennino è diviso dalle montagne della Dalmazia per mezzo dell’Adriatico. Quella depressione, occupata un giorno dal mare, è oggi da grandi pianure, di cui la principale è la così detta Campagna romana, irta di eminenze vulcaniche, formanti alla loro volta un sistema di monti, che appare affatto distinto così dalla catena littorale descritta, come dall’Apennino. Provatevi, per esempio, a fare un viaggetto soltanto da Milano a Firenze. Comincerete a Bologna a inoltrarvi negli Apennini [p. 366 modifica]per la valle del Reno. Osservate quanto è diverso l’aspetto di quelle montagne da quelle che noi, guardando a nord, vediamo cingere l’orizzonte con un diadema di denti e di aguglie nevose. Colà invece colli morbidi, ma inameni, nessuna cima appena ardita, fanghi, argille e macigni2, in luogo di porfidi e di graniti. Poco oltre la Porretta, eccovi sulla cima della catena; ma vi par d’esser ancora nell’ima regione delle nostre valli. Di là calando per giri e rigiri a Pistoja, potrete dire di aver attraversata, quanto è larga, la grande catena. Ma fermatevi un istante ancora in vetta e spingete lo sguardo verso ponente. Una vasta pianura parte dal piede dell’Apennino, e sfuma lontano lontano, e là in fondo il mare.... Ma no; là in fondo ci son altre montagne.... c’è un’altra grande catena.... sicuro! quella che ci si presenta direttamente allo sguardo è il monte Pisano appunto, che si pro lunga a nord-ovest colle Alpi Apuane, a sud-est colle montagne di Volterra e di Massa Marittima. E l’Apennino? L’avete sotto ai piedi, mentre quella catena littorale l’avete di fronte, e fra le due la gran valle dell’Ombrone, poi l’immenso bacino della Val d’Arno e del Trasimeno, poi la gran pianura romana, limitata dal Paglia e dal Tevere, ove fra le due catene ne nasce una terza, la catena vulcanica, che ricusa d’aver che fare o coll’una o coll’altra. Ovunque poi vi appressiate alla catena littorale, e’ vi parrà d’essere tornati fra le Alpi. Fianchi ignudi, rupi scoscese, aguglie aeree, sparse talvolta di neve anche nel cuore dell’estate, insomma, ripeto, quell’impronta alpina, che il geologo, meglio ancora del paesista, trova espressa nella natura delle rocce, e nell’epoca a cui esse appartengono».

«Le Alpi Apuane», domandò la Giannina, «sono dunque così elevate come le nostre Alpi?».

«Non tanto; ma però il monte Altissimo si leva fino a 4494 piedi parigini sopra il livello del mare; 5439 ne vanta il monte Sumbra; la Pania della Croce tocca i 5728, e il Pizzo d’Uccellino arriva fino a 57703».

«E sono anch’esse così belle, così maestose come le nostre Alpi?» ripigliò Giannina. [p. 367 modifica]

«Non direi.... cioè non saprei pronunciarmi in proposito. Le conosco così poco.... Vi dirò tuttavia, se vi piace, le impressioni riportate da una gita che mi spinse nel cuore di quelle montagne.

2. » Nel giugno del 1872 dovetti portarmi, per un certo incarico, nella val d’Arni....».

«Non si dice val d’Arno?» volle correggere Giovannino.

«La val d’Arno è una cosa; la val d’Arni è un’altra. Quella piglia il nome dal fiume Arno che la percorre; questa da Arni, miserabile paesello, perduto proprio nelle viscere delle Alpi Apuane. Trovandomi già a Firenze, pigliai la ferrovia che mena a Pisa per la parte di Empoli, e da Pisa alla Spezia. Disceso alla stazione di Querceta, circa a mezza via fra Pisa e la Spezia, e in vicinanza di Serravezza, riuscii all’imbocco della valle della Versilia. Quì cominciano a trovarsi quelle cave di marmi per cui vanno così celebrati i territorî di Massa, di Carrara e di tutta la riviera apuana. A Serravezza, per esempio, rimontando tutta la Versilia, trovate già molte cave di quei marmi che appartengono alla varietà più comune dei così detti marmi di Carrara».

«Quelli di cui si fanno le statue, così bianchi, così belli?» domandò la Marietta.

«No; il marmo statuario è una delle specie o varietà dei marmi carraresi, ed è anche la più rara. A Serravezza di questo, non ce n’è. Abbondano invece il bianco chiaro, il venato, i bardigli. Sono varietà determinate dall’abbondanza o dalla forma di quelle sfumature o venature ceruleo-nerastre, sopra un fondo, che dal calcare bianchissimo detto statuario passa per gradazione al turchino. I bardigli, per esempio, presentano un fondo turchino, più o meno cupo, con venature ora parallele, ora reticolate, o anche con certe macchie, che si direbbero fioriture, e che distinguono dai bardigli comuni i bardigli fioriti. I più belli in commercio vengono dalla Versilia; ma la vera specialità di Serravezza sono le brecce varicolori, o mischî, come li chiamano i Toscani, che passano in commercio sotto il nome di serravezze. Quando sentite dire che quella balaustrata è di serravezza africana, non datevi a credere che venga dall’Africa. Credo l’abbian detta così, perchè si assomiglia ad un marmo che gli antichi traevano dall’Africa; ma essa non è altro che una breccia, un mischio di Serravezza, cioè un marmo composto quasi di tanti pezzetti di altri marmi, un pavimento alla veneziana, un mosaico naturale. Via.... ne avrete visti in Milano dappertutto, perchè i [p. 368 modifica]mischî prestano più facilmente i grandi monoliti4 per balaustrate, colonne, ecc., e sono di un bellissimo effetto. La serravezza è un marmo, dirò, grandioso, che non si presta a piccoli finimenti, ma ha bisogno di vasta superficie, che le permetta di spiegare le sue maschie bellezze. Allora si ammira quel grazioso impasto di calcari bianchi, rossi, carnicini, con verdognole venature di talcoschisto5. Ne vidi una cava, partendo da Ruòsina, e rimontando la Versilia, sulla sinistra del fiume. Che stupendi monoliti stavano aspettando di essere calati giù giù per una lavina quasi inaccessibile!

3. » Ma io volevo dirvi anzitutto le vive impressioni riportate da questa prima andata alle Alpi Apuane. Quella che ne riporterebbe chi percorresse solamente la valle della Versilia, sarebbe dolce, favorevolissima, e gli lascerebbe nell’animo l’invito a tornarvi. Ma non è dappertutto così. Quella valle, solcata da acque perenni, che danno moto alle segherie di marmi, e vita a un paesaggio boscoso, ridente, sparso di paeselli il cui aspetto annunzia un certo benessere, richiama le più belle fra le vallate delle nostre Prealpi; la valle Imagna, per esempio, che vi ho altre volte descritta6. Come nella valle Imagna, come in tutte le nostre vallate prealpine, lo sfondo del paesaggio, tutto ameno e ridente è una gran tela di rupi ignude e severe, di cime squallide e ineguali, che sembrano confinare col cielo. Nello sfondo della Versilia si disegnano infatti le formidabili panie descritte dallo Spallanzani. Donde traggano il nome quelle montagne, no’l potrei sapere di certo7. Formano come una gran cortina, un gran muraglione, da cui si spiccano, levandosi sublimi, diverse cime vertiginose. A tutte sovrasta la Pania della Croce, che chiude la valle precisamente a nord, slanciandosi, come ho detto, fino a 5728 piedi parigini sul livello del mare. Dalla base di questa specie di piramide parte l’enorme muraglia che difende la valle a nord est e termina a sud-est colla Pania Forata, e Monte Forato, il quale presenta un fenomeno assai raro. Pare impossibile che [p. 369 modifica]quella cima d’uomo, quel principe degli osservatori ch’era l’abate Spallanzani, avendo percorso lo stesso cammino da me tenuto, e per di più attraversate le panie che descrisse, non faccia verun cenno, per quanto io sappia, della Pania Forata8. Dunque ve ne dirò io qualche cosa.

» Non avete mai sentito parlare di caverne che passano le montagne parte parte?».

«Del traforo del Cenisio, per esempio....» rispose Giovannino.

«Quella è una galleria artificiale. Quando si dice caverne, s’in tendono fori naturali ne’ monti, e ve n’ha diverse che passano da una parte all’altra della montagna. Le Alpi vantano il Martinsloch o Pertugio di Martino. È una Martinsloch ossia Pertugio di Martino. caverna naturale, che trafora la gran cortina di montagne, per cui la valle della Linth è separata a sud-est da quella del Reno, o, con altre parole, il Cantone di Glarus da quello dei Grigioni. A giudicare da quanto ne lessi, perchè io non l’ho veduto, non pare gran cosa; ma presenta questa singolarità, che due volte all’anno il sole si diverte a farvi capolino, come da una finestra, sbirciando per un pochino il villaggio di Elm».

«Perchè nol farebbe tutti i giorni!» domandò la Camilla.

«No: due sole volte all’anno. Sarà, ritengo, un bel giorno di primavera, e un altro bel giorno d’autunno. Ma non lo so positivamente».

«Non capisco», rispose la Camilla, «il sole passerà tutti i giorni davanti a quella finestra».

«Va bene; ma non tutti i giorni il suo raggio potrà [p. 370 modifica]ugualmente infilarla; perchè tutti i giorni il sole muta di posto sul l’orizzonte, e muta per conseguenza la direzione de’ suoi raggi. La cosa s’intende facilmente. Voi avete, per esempio, una finestra aperta a mezzodì. Se non c’è ostacolo davanti, seduti nell’interno della camera rimpetto alla finestra, vedrete facilmente tutti i giorni passare il sole. Lo vedrete, ma d’inverno giù giù basso sull’orizzonte, e molto alto d’estate. Voi lo potrete accompagnare nella sua discesa e ascesa annuale, perchè la finestra, essendo spaziosa, offre una serie indefinita di punti, per cui può passare il suo raggio diretto, o giungere a ferire il punto ove si trova la vostra pupilla, che dalla finestra guarda tanta parte del cielo. Ma chiudete le imposte; poi praticatevi con un succhiello un forellino, per esempio, a mezzo l’altezza della finestra; ponetevi quindi al posto dove eravate prima. Credete che vi sarà concesso di vedere il sole ogni giorno? Mai più; lo vedrete soltanto quando s’incontri a passare precisamente davanti a quel forellino, in corrispondenza colla vostra pupilla; quando il suo raggio possa infilar quella cruna, e tendersi come un filo tra il forellino e la pupilla. Non lo vedrete perciò d’inverno quando cammina troppo basso sull’orizzonte; non lo vedrete d’estate, quando passa troppo alto: lo vedrete invece un giorno di primavera, quando si presenta davanti al forellino nell’ascesa, e un giorno d’autunno, quando vi ripassa davanti nella discesa».

«Intendo», soggiunse la Camilla. «Bisognerà dunque che la montagna del Pertugio di Martino faccia le veci d’imposta, e il pertugio stesso le veci di forellino».

«Naturalmente; e che il villaggio di Elm occupi il posto di chi siede rimpetto alla finestra. La montagna pertugiata si rizza infatti, come l’imposta, a mezzodì di Elm. Il pertugio è a tale altezza, che il sole d’inverno ci passa per di sotto, e d’estate per di sopra. Il villaggio di Elm non lo vedrà dunque (sempre inteso che il pertugio sia piccolo com’è ) che due giorni all’anno, quando passa e ripassa in direzione del pertugio, cioè in direzione di quel punto del cielo, che il villaggio di Elm vedrà pur sempre attraverso il pertugio stesso. Ma eccoci, come al solito, fuori di via. Tornando dunque alle Alpi Apuane, la Pania Forata è un Pertugio di Martino; ma un gran pertugio, vedete. Esso mi richiama piuttosto il monte Torghatten».

«E dov’è codesto monte?» vollero sapere i bambini.

«Ci siamo! con voi bisogna troncare o deviare a ogni passo. Anche questa piccola digressione per farvi contenti. Il monte [p. 371 modifica]Torghatten fu visto e descritto da Hell, astronomo di Vienna, come è riferito in un’appendice al celebre viaggio di Leopoldo De Buch9. Trovasi sulle coste della Norvegia, fra le isole di Alstahouge e Brunse. Quel monte è così alto, che si vede dal mare, alla distanza di 10 e più miglia tedesche. È un monte d’ignuda roccia, passato da parte a parte da un gran foro, diretto da oriente ad occidente. Anche qui dicesi che si vede talvolta il sole, come attraverso un gran tubo. Pontoppi assegna a quel foro un diametro di 50 pertiche, e una lunghezza di 1000. Di che perti che poi intenda parlare vattel’a pesca. Comunque sia, la pertica è sempre d’una lunghezza riguardevole, e quella caverna dev’essere Monte Torghatten sulle coste della Norvegia. d’una grandezza veramente mostruosa. Il foro della Pania non lo è tanto certamente; ma vi so dire che è un bel buco anch’esso.

» Rimontando la Versilia, appena al di là della Ruòsina, vi trovate in faccia a quella meraviglia della natura, che si pre senta verso oriente, mentre la valle ascende da ovest ad est. Da quella cortina o muraglia che v’ho detto, si rizza maestoso un monte bicorne. È precisamente la Pania Forata. Il pertugio si apre [p. 372 modifica]proprio nel mezzo della fronte, tra i due corni, come l’occhio di Polifemo10. È un gran foro, una caverna ovale, un po’ triangolare. Io credo debba avere almeno 50 metri di luce pel largo, e quasi altrettanti d’altezza11. Certo il pertugio delle Apuane non presenterà il bel fenomeno del pertugio delle Alpi Retiche, perchè correndo, come ho detto, da est a ovest, un po’ che sia lungo, non può essere facilmente infilato dal raggio che gli venga o dalla levata o dal tramonto, anche nel giugno, quando il sole è più alto sull’orizzonte. Questa ragione non vale pel monte Torghatten, attraverso il quale, dicesi, si vede passare il sole, benchè la caverna sia diretta da oriente a occidente. Riflettete infatti che nelle latitudini più avanzate verso il polo il sole non tramonta d’inverno per un numero di giorni maggiore o minore, e compie tutto il giro dell’orizzonte. In quei giorni non v’ha buco comunque diretto, che possa sottrarsi alla immediata ispezione del sovrano del giorno. La Pania Forata mi par troppo meridionale, perchè possa sperarne la visita. Però anche senza sole, era pur bello, com’io lo vidi, quello specchio di purissimo cielo, entro quella rude cornice di rupi! Quell’azzurro, che spiccava così sereno fra il grigio cinereo della montagna, tutta irta, ignuda, seminata di antri cupi e selvaggi, che disegnavano le loro livide ombre sulla parete quasi a picco, sparsa soltanto di qualche strappo di verzura! Dev’essere il gran spettacolo per colui che per l’opposto pendio ascende dalla valle del Serchio, e, rímontando il torrente Petrosciana, si affaccia all’immane pertugio, ove gli si allarga d’improvviso allo sguardo l’immenso mare! Ma non mi fu possibile goderne.

4. » Visitata la valle della Versilia, e dormito a Ruòsina il primo giorno, proseguii il viaggio il dì seguente per giungere, com’era mio incarico, nella val d’Arni, proprio nel cuore delle Alpi Apuane. Si ascende verso nord per la valle di Terrinca12, che si diparte quasi ad angolo retto dalla Versilia. Una strada tortuosa e dirupata, dove a mala pena si arrampicano le mule, porta a Terrinca, sempre fra boschi, e campagne che [p. 373 modifica]rivestono il pendio. Mano mano che si ascende sopra Terrinca, la verzura si dirada e l’amena valle si va mutando in un borro irto di rupi. Così guadagnammo le alture apuane, ignude, aspre, diroccate, come le cime delle nostre Prealpi. Ormai non ci rimane che scavalcare una cortina di rupi, tesa fra il monte Altissimo e il monte Corecchia, e vedremo la val d’Arni. Eccoci infatti al passo de’ Fordazzani. L’occhio si arresta attonito su quelle ignude montagne che gli serrano così addosso l’orizzonte a settentrione, quindi piomba giù giù in quel solitario bacino della val d’Arni; ma si torce ben presto a mezzodì, attratto ancora dalle incantevoli scene che fecero la salita così dilettosa. Non c’è di meglio che portarsi su quell’altura per formarsi un concetto delle Alpi Apuane. Sono esse, lo ripeto, tali e quali le nostre montagne, le nostre Prealpi. L’occhio d’un Lombardo, ingannato da quella dolce illusione, scorre giù giù cercando l’immenso piano ov’è solito posarsi inebbriato: già gli pare di percorrere lentamente le amene campagne, i prati verdeggianti, i campi biondi di spighe, i vigneti disposti a gradinate sui colli, o in densi filari nel piano; di studiare quel serpeggiamento di vie biancheggianti; di andar vagando fra gli sparsi casolari, cinti da un’aureola volubile di fumo: già gli pare di distinguere le ville solitarie fra le ombre studiate dei parchi e il sorriso degli aperti giardini, o di riposarsi sui villaggi, sui borghi, sulle città lontane, di cui riconosce le torri, incantato da una scena, ove gli oggetti che la rendono così varia ed animata si confondono e sfumano da lontano nella nebbia leggera d’un orizzonte, il cui lembo è disegnato, quasi da una serie di sfumature, dalle Alpi e dall’Apennino. Ma no; dalle alture delle Alpi Apuane lo sguardo si posa immediatamente sul mare, e vi rimane immobile, assorto in quella uniforme immensità. Ecco ciò che distingue affatto le Alpi Apuane dalle nostre Prealpi, e ci prepara impressioni affatto nuove in seno a que’ monti, i quali non sarebbero altrimenti che un richiamo dei nostri.

» Guardando giù nella valle per la quale siete saliti, le rupi che la fiancheggiano, che vi si erano già chiuse dietro le spalle, somigliano all’orlo d’un cratere. La loro cerchia dentata, a spigoli così vivi, così acuti, si projetta, quasi sulla tersa superficie d’un immenso specchio, immediatamente sul mare; sul mare, azzurro come il cielo, di cui riflette l’immensità. Ove la cerchia di quelle rupi è più profondamente intaccata, una striscia, bianca, immobile come un cordone di neve, vi disegna il lido. Vedute così [p. 374 modifica]di lontano, quelle spume, sempre immobili allo sguardo, perchè sempre rifatte dalle onde che s’incalzano incessanti, sono veramente il simbolo delle cose di quaggiù, ove tutto si rimuta, e tutto perdura; simbolo specialmente dell’umanità, sempre rifatta dalle generazioni che s’incalzano e muojono. Povere spume!... Muggono, ribollono un istante, e silenziose svaniscono, così che non t’accorgi nemmeno che siano svanite, perchè altre spume muggono, ribollono e svaniscono in loro luogo.

» Per lungo tempo godemmo di quel sublime spettacolo, per correndo, sempre in vista del mare, quella cortina di montagne che separa la val d’Arni dalla valle di Terrinca, per giungere al Covigliajo, il vero passo a cui mette capo la via che guida al paesello di Arni. Qui si comincia a discendere.

5. » Spiacemi di dover ripetere la similitudine; ma che farci, se bisogna veramente che io paragoni la val d’Arni, come già l’alta valle di Terrinca, ad un vasto cratere dall’orlo dentato? Le maggiori cime, che si slanciano dalla muraglia irregolare del circo, cingendo quasi di un diadema la valle, sono il monte Corecchia a levante, l’Altissimo a ponente, e a settentrione la Cima del Vestito, il monte Sella, il monte Fiocca e il monte Sumbra. I fianchi di quelle montagne sono incisi da un gruppo di valli, percorse da altrettanti torrenti, che discendono come raggi dalla periferia al centro di un imbuto, ossia al fondo del bacino. Tutti quei torrenti, finchè corrono isolati pel rispettivo pendio, benchè poveri d’acque, rumoreggiano e spumano. Ma, cosa singolare! sul fondo ove tutti si accostano, in luogo di unirsi a dar vita a più vasto torrente, si perdono prima d’incontrarsi. In luogo di un torrente, non abbiamo che un letto asciutto, tutto sparso di massi di candido marmo. Quel letto, quei massi, dicono certamente che nelle grandi piene il torrente si forma; ma presto anche si sfoga la piena per lasciare il letto all’asciutto. Imaginatevi che il letto del torrente è la consueta, anzi l’unica via che seguono i montanari della val d’Arni per andare a Castelnovo, che è come il loro capoluogo».

«Ove si smarriscono quelle acque?» domandò attonita la Giannina.

«Nulla di più semplice per chi osserva un pochino la natura di quel fondo. Pensa che da migliaja e migliaja di anni que’ monti, quasi tutti di puro marmo, si sfasciano, e i massi duri, angolosi, rotolano giù giù finchè si arrestano sul fondo, ove da migliaja d’anni si accatastano gli uni sugli altri. Essi hanno così colmata [p. 375 modifica]fino ad una grande altezza la valle, la quale è realmente un’orrida gola angusta, fiancheggiata da marmoree pareti. Se fossero meno ignude quelle montagne, se vi fosse un po’ più abbondante il terriccio, se, come suole da noi, vi esistessero delle rocce argillose capaci di convertirsi in fango; il torrente avrebbe potuto formarsi un letto meno permeabile che tenesse l’acqua un po’ meglio. Così, che vuoi? le acque discendono per mille vie in seno a quello sfasciume, che le beve a modo di grande spugna. Sicchè il convegno de’ torrenti ha luogo sotterra, e il letto che tutti dovea raccoglierli in un solo torrente, finisce col divenire un tetto che tutti li copre. State infatti ad udire.

6. » Noi percorremmo per lungo tratto, scendendo, questo tronco superiore della valle, che si chiama Tòrrite Secca, e merita veramente un tale appellativo. Nulla di più ermo, di più desolato, di più arido. Imaginatevi quasi una corrente di massi, in atto di rotolare l’uno sull’altro, che occupa il fondo di una vale incassata in mezzo alle rupi, una Via-Mala, un cannone americano13, dalle pareti di bianco marmo. I massi così accatastati riempiono la gola fino a un’altezza certamente considerevole, formando una massa tutta a vani, entro la quale l’acqua dei torrenti si perde come si perderebbe un sottilissimo filo che piovesse da un robinetto sopra una spugna. Ma alcuni chilometri più in giù, eccoti rediviva la Tòrrite, la Tòrrite vera, perchè più non mente, come la superiore, il nome di fiume. Presso il paesello, detto Isola Santa, da una gran voragine a piè di un monte sbuca con grande fragore un torrente, e corre giù giù per buttarsi nel Serchio a Castelnovo di Garfagnana. Quel torrente rappresenta redivivi i torrenti della val d’Arni, ma riuniti dal mutuo amplesso sotterra.

» Io non giunsi peraltro fino al luogo ove si ammira questo fenomeno; così almeno mi risparmiai il dispiacere di vedere il luogo dove i valligiani di Arni arrischiano, si può dire, tutti i giorni la vita per procurarsi le cose di prima necessità».

«In che modo?» domandò la Giannina sorpresa.

«Quei poveri valligiani non hanno, come vi ho detto, altra via per andare a Castelnovo che il letto del torrente, quale io ve l’ho descritto. Pazienza ancora! Il peggio è che ad un certo punto il letto del torrente diviene un baratro, come direbbesi una [p. 376 modifica]cascata, e quei poveri montanari devono calarsi, se discendono, o arrampicarsi, se salgono, per una rupe quasi a picco, dove il sentiero non è tracciato che da certe tacche nella roccia per fissarvi il piede. Guai a chi patisse di vertigini! Io non vidi dunque quella povera gente nè scendere nè salire quel difficile valico; ma fui abbastanza rattristato dalla vista di una piccola carovana che tornava stanca da Castelnovo, camminando sempre fra i massi del torrente, obbligata a quella dura ginnastica, che sa quanto costi chiunque abbia avuto, anche solo una volta, il vantaggio di esercitarvisi.

7. » Tornando in su verso il paese, perchè c’incamminavamo a sera, ci aspettava, come geologi, una vivissima soddisfazione. Figuratevi.... una morena!...».

«Una morena? Che cos’è codesto?» sclamò Antonio.

«Sbadato! Non ti ricordi mai di nulla. Non vi ho io parlato di ghiacciai e di morene altre volte?».

«Sì sì», saltò su a dire Giovannino. «Me ne ricordo, me ne ricordo.... Quei mucchi di sassi portati giù dai ghiacciai, e che rimasero sul luogo quando i ghiacciai antichi si ritirarono. Ma non intendo perchè quella morena dovesse recarti tanto piacere. Ne hai viste tante!...».

«Va bene; ma nelle Alpi e nelle Prealpi. Nessuno però aveva fino allora indicato una morena o sull’Apennino, o sopra alcuna emi nenza dell’Italia peninsulare. Il prof. Iginio Cocchi, che v’ho nominato testè, aveva manifestato il sospetto, dietro certi indizî, che antichi ghiacciai esistessero una volta nelle Alpi Apuane, le cui vette oggi sono ben al disotto dei limiti delle nevi perpetue. Anch’io aveva espressa l’opinione14 che si dovessero un giorno scoprire le tracce dell’epoca glaciale nell’Italia peninsulare, e nominatamente in quel gruppo di monti che sorge fra il Metauro ed il Sangro, ove abbiamo il monte Catria, il monte Melo, la Majella che si elevano a 1703, a 1787 e a 2793 metri sopra il livello del mare, e sono soverchiate dal Gran Sasso d’Italia, la vetta più elevata degli Apennini, che si spinge fino a 2989 metri di elevazione, e si mostra quasi tutto l’anno coperta di neve. Infatti, diceva io, se nell’epoca glaciale i limiti delle nevi perpetue si abbassarono in guisa nelle Alpi e nelle Prealpi che i ghiacciai invasero le nostre amene valli, i nostri laghi ridenti, fino ai lembi delle ubertose nostre pianure; è impossibile che si trovassero allora [p. 377 modifica]al di sotto di quei limiti le grandi cime dell’Apennino. Quando uno è giunto per via di raziocinî ad una conclusione, se scopre un fatto che ne attesta la giustezza, prova, credetelo, una grande soddisfazione. Quella morena della val d’Arni mi diceva che avevo dato nel segno. Ci può essere della debolezza in questo genere di soddisfazioni; ma po’ poi è anche ragionevole il rallegrarsi quando vediamo di non aver pensato nè detto uno sproposito. Quella morena mostrava d’un tratto alla mia fantasia la catena delle Apuane tutta coperta di nevi, come le cime del monte Bianco e del monte Rosa. Mi vedevo davanti quel vasto circo, chiuso a sud-ovest dal monte Altissimo (1590 metri), e dalle sue propagini; a nord- ovest, dal monte del Vestito e dal monte Sella; a nord- est, dal monte Sella e dal monte Fiocca, colle rispettive diramazioni; tutto ripieno di ghiaccio. Una lama di monti, spiccandosi da settentrione a mezzodì, fra il monte del Vestito e il monte Sella divideva quel circo in due ghiacciai o vedrette15, le quali si riunivano al di sotto di Arni, formando una sola fronte. Quel doppio ghiacciajo è scomparso; ma la sua fronte è là ancora, delineata dalla morena, cioè da un gran cumulo di sassi, quasi tutti di bianco marmo, che accenna a sbarrare tutta la val d’Arni, appoggiandosi alle falde dell’Altissimo a occidente, e al monte Fiocca a oriente: e la sbarrerebbe difatto, se torrenti e torrentelli non vi avessero aperto ciascuno una breccia, per riunirsi giù nel letto della Tòrrite. Pensate quale doveva essere allora il clima, quando quelle montagne, esposte al sole di mezzogiorno, inondate dal tepido alito del mare, si coprivano di un mantello di ghiaccio che resistette alla vampa estiva per molti secoli.

» Da quanto vi ho narrato però avrete certamente già conchiuso che, se la val d’Arni interessa la scienza, non è certamente nè dilettevole nè amena. E credo anch’io che la descrizione che ne ho fatto sia tale da non invogliare ad andarvi chiunque viaggi in cerca del bello.

» Ma volete sapere che cosa renderà celebre un giorno, e, quel che è più, popolosa e ricca quella squallida valle? Il marmo. Quel bacino così nudo, così tristo, è un bacino di marmo candidissimo, come avete potuto già intendere. Abbiamo veduto un pochino quale importanza diano i marmi a Serravezza e a tutta la [p. 378 modifica]valle della Versilia. Ma se volete sapere che avverrà della val d’Arni, quando la cortina di monti che la separa dalla valle di Terrinca sarà traforata da una galleria, quando il vapore fischierà sorvolando gli inaccessi dirupi, bisogna andare a Carrara. Ma ora è un po ’ tardi. Ci andremo giovedì venturo. Va bene?».


Note

  1. Magenta, L’industria del marmi apuani. Firenze, 1871.
  2. Col nome di macigno indicano i Toscani certe arenarie molto dure, ma somiglianti a quella pietra più molle, che i Lombardi chiamano molera, e di cui sogliono incorniciare le finestre.
  3. Piedi parigini 1 = metri 0,32484
    " 4494 = " 1459,83
    " 5728 = " 1860,69
    " 5439 = " 1766,80
    " 5770 = " 1874,33
  4. Dal greco monos = un solo, e lithos = pietra; lavoro d’un sol pezzo di pietra.
  5. Gli schisti sono rocce di tessitura fogliacea, come fossero composte di minerali passati sotto il laminatojo e distesi in falde, che si sovrappongono per formare la roccia. Il talco è un silicato di magnesia, cioè composto di magnesia e di silice, verde, ontuoso e dolcissimo al tatto, e così molle che si scalfisce coll’ugna. Il talco, associato sovente ad altri minerali, forma una roccia schistosa che si chiama talcoschisto.
  6. Vedi la Serata VIII.
  7. Forse Panie è corruzione di Apuane.
  8. Opuscoli inediti di Lazzaro Spallanzani. Reggio, 1843.
  9. Viaggio in Norvegia e in Lapponia, tomo XXVII della Raccolta dei viaggi pubblicata dalla tipografia Sonzogno e C. Milano, 1817.
  10. Famoso nell’Odissea d’Omero come un de’ Ciclopi di Sicilia, genia favolosa di giganti selvaggi e pastori, che avevano un sol occhio in fronte, e questo rotondo; onde il nome Ciclope che vale occhio circolare.
  11. Ricordo che la mia gita si effettuò nel 1872. Nel Bollettino del Club Alpino Italiano del 1874 leggesi una interessante descrizione della Pania della Croce di G. Dalgas. Il Monte Forato è alto 1172 metri sul livello del mare. Il foro può avere, secondo l’autore, 30 metri di altezza e da 20 a 25 di larghezza. Io lo credo più vasto.
  12. Così la chiamo io dal paese che la domina; le carte non le danno alcun nome, nè mi sovviene di averne inteso uno sul luogo.
  13. Vedi sopra a pag. 141 la nota sulla Via-Mala e sui cannoni dei fiumi d’America.
  14. Stoppani. Note ad un corso di geologia. Vol. I, pag. 191.
  15. Il ghiacciajo di val d’Arni, che non giungeva fino a incanalarsi nella valle, come fanno i ghiacciai delle Alpi, era piuttosto una vedretta che un ghiacciajo. (Vedi la nota alla Serata V, pag. 86).