Il Re Lear/Atto quarto

Atto quarto

../Atto terzo ../Atto quinto IncludiIntestazione 15 ottobre 2024 100% Da definire

William Shakespeare - Il Re Lear (1606)
Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1858)
Atto quarto
Atto terzo Atto quinto

[p. 64 modifica]

ATTO QUARTO


SCENA I.

Il bosco.

Entra Edgardo.

Edg. Meglio è l’esser dispregiato e conoscer ciò, che vedersi adulato da coloro che segretamente ci disprezzano. Lo sciagurato, percosso dai colpi della fortuna, e precipitato negli ultimi stadi della miseria, conserva sempre un raggio di speranza, o almeno vive scevro di timori. Il mutamento non può paventarsi che dall’uomo felice; il misero non sa mutare che per risalire verso la felicità. Accetto dunque con gioia, e con entusiasmo m’inebbrio di quest’aria invisibile, ultimo bene che mi resta! Il disgraziato, che il tuo soffio tempestoso ha gettato negli abissi, non ha più nulla a temere da’ tuoi uragani. — Ma chi s’avanza? (entra Glocester, condotto da un vecchio) Mio padre guidato da un povero?... Mondo, mondo, oh mondo! Se tanti mali in te non fossero che ci costringono ad odiarti, la più caduca vecchiezza rinunciar non saprebbe alla propria esistenza.

Il vecch. O mio buon signore, fui vostro colono, e colono di vostro padre per ottant’anni.

Gloc. Va, amico mio, ritirati; le tue consolazioni non possono farmi alcun bene, e riescir potrebbero a te assai funeste.

Il vecch. Oimè, signore; ma voi non potete veder la vostra via.

Gloc. Via non ho; onde d’occhi non abbisogno: caddi e mi smarrii allorchè aveva gli occhi. Sovente lo si è veduto: il nostro abbassamento fa la nostra sicurezza, e le nostre privazioni divengono i nostri beni. — Oh mio caro figlio Edgardo, vittima dello sdegno di tuo padre! potess’io viver tanto per sentirti ancora fra le mie braccia, e griderei: ricuperata ho la vista col sussidio del tatto.

Il vecch. Oh! oh! chi è costà?

Edg. (a parte) Oh Dei! come poteva io dire d’essere al colmo dell’infortunio? eccomi più infelice di prima.

Il vecch. È Tom, il povero scemo.

Edg. (a parte) E vieppiù misero ancora posso divenire, chè il [p. 65 modifica]maggiore dei mali non è accaduto, finchè dir si può: questa è la più rea sventura.

Il vecch. Amico, dove vai?

Gloc. È un mendico?

Il vecch. Mendico e pazzo.

Gloc. Un lume di ragione però gli resta, poichè mendica. Durante la tempesta della notte scorsa ho veduto uno di quegli infelici; e ben considerandolo, ne ho tratto che l’uomo non è che un verme. Mio figlio allora mi ricorse alla mente: e nullameno l’odio mio verso di lui non era per anche estinto. Grandi cose ho saputo di poi! Noi siamo per gli Dei quello che gli insetti sono pei fanciulli: essi ne schiacciano per loro sollazzo.

Edg. (a parte) Come potè accader ciò?... Fatal destino, che mi costringi ad imitare l’insensato, attristando gli altri mentre sono io così afflitto. — (ad alta voce) Sii benedetto, signore.

Gloc. È questi quel povero ignudo?

Il vecch. Sì, milord.

Gloc. Allora, te ne prego, lasciami. Se per amor mio vuoi condurci lungi due miglia di qui, sulla via che guida a Douvres, te ne saprò grado. Ma va prima a cercare qualche vestimento per cuoprire la nudità di questo infelice, ch’io pregherò d’accompagnarmi.

Il vecch. Oimè, signore! ma egli è pazzo.

Gloc. Sono tempi terribili quelli in cui i pazzi guidano i ciechi. Fa com’io dico, o piuttosto segui il piacer tuo. Ma prima di tutto lasciaci.

Il vecch. Gli recherò il miglior vestito che posseggo, checchè me ne possa avvenire. (esce)

Gloc. Amico, oh sventurato!

Edg. Il povero Tom ha freddo. — (a parte) Non posso omai più dissimulare.

Gloc. Appressati, amico.

Edg. (a parte) È nullameno forza che continui. — (ad alta voce) Buon vecchio, sian benedetti i tuoi poveri occhi; essi versano sangue.

Gloc. Conosci la strada che guida a Douvres?

Edg. Cancelli e porte, strade maestre e sentieri, tutto io conosco. Il povero Tom fu privato della ragione: il Cielo salvi il buon uomo dal malvagio spirito! Cinque demoni in una volta sono entrati nel povero Tom: Obdicut, demone della lussuria; Hobbididen, principe dei muti; Mahu, diavolo dei ladri; Modo, che presiede all’omicidio; e Flibbertigibbet, demonio delle smorfie [p. 66 modifica]e dei ghigni, che da qualche tempo, investe le fantesche e le ancelle. Onde sii benedetto, signore!

Gloc. Tieni, prendi questa borsa; tu, che i flagelli del Cielo han tanto percosso, ringrazia la mia sventura; ella ti rende felice. Dei, governatene sempre così! L’uomo che disprezza le vostre leggi in seno all’abbondanza, e che fornito di superflue dovizie si rifiuta a soccorrere il misero, perchè mai non provò il bisogno, vada soggetto eternamente al peso del vostro sdegno, onde un’equa ripartigione tolga le ineguaglianze fra gli uomini, e a tutti sia concesso il necessario. — Sai dov’è Douvres?

Edg. Sì, messere.

Gloc. Là v’è una montagna, la cui cima si estolle gigantesca: sul mare che freme a’ suoi piedi. Guidami soltanto fino all’ultimo orlo di quella vetta, ed io ti toglierò dalla tua povertà con un oggetto prezioso che porto meco. Giunto là, non m’occorreranno più guide.

Edg. Dammi il tuo braccio; il povero Tom ti sarà duce. (escono)

SCENA II.

Dinnanzi al palazzo del duca d’Albanìa.

Entrano Gonerilla e Edmondo; il Maggiordomo vien loro innanzi.

Gon. Siate il ben giunto, milord. Stupisco che il mio molle sposo non vi sia venuto incontro. — Dov’è il vostro padrone? (al Magg.)

Magg. Dentro, signora; ma non mai uomo fe’ più gran mutamento. Gli ho favellato dell’esercito qui approdato, ed ha sorriso. Gli ho detto il vostro arrivo, e m’ha risposto: tanto peggio. L’ho istrutto del tradimento di Glocester, e dell’alto servigio renduto da suo figlio, e m’ha chiamato stolto, rimproverandomi di aver messo la confusione e il torbido dapertutto. Ciò che doveva dispiacergli, è ciò che gli piace; ciò che piacer gli doveva, è ciò che l’offende.

Gon. (a Edm.) In tal caso voi non verrete più oltre. Un pusillanime terrore ha invasa la sua mente, che gli vieta di nulla intraprendere. Attender non vorrà alle ingiurie che gli comandano la vendetta. I voti che formavamo dietro la via potrebbero compiersi. Tornate da mio fratello; affrettate la mossa delle sue genti, e mettetevi alla loro testa. Ben m’avveggo che m’è necessario fare un cambio con mio marito; e gli darò la mia conocchia, per [p. 67 modifica]prendere io la sua spada. — Quest’uomo (additando il Magg.) sarà il nostro fido agente. Se sapete tutto ardire per servire la vostra fortuna, riceverete fra poco i comandi di un’amante. Abbiatevi intanto questo pegno (dandogli un anello); non isperdete parole; chinate la fronte... Questo bacio, se osasse parlare, ti farebbe esalare tutta l’anima in un’estasi... Abbi giusta idea di me, e tutto spera... Addio.

Edm. Vostro sarò fino agli estremi di morte.

Gon. Mio amato Glocester! (Edm. esce) Oh qual differenza fra uomo e uomo! A te le cure di una donna son dovute; il mio stolto marito usurpa il mio letto.

Magg. Signora, viene a questa volta milord. (esce; ed entra Albanìa)

Gon. Valeva io dunque ben poco agli occhi vostri?

Alb. Gonerilla, tu vali meno della vil polvere che il vento soffia sopra il tuo volto. Conosco il tuo carattere, e lo temo. Colei che intorbida la sorgente da cui trasse la vita, non può più avere nè freno, nè norma. Colei che si strappa dal seno paterno debbe necessariamente appassirsi, come la fronda divelta dall’albero, e servir più non puote che ad usi funesti.

Gon. Basta; tal tema è stolta.

Alb. La saviezza e la bontà sembrano vili all’anima vile; sol la sozzura piace alle menti sozze. Che avete voi fatto, tigri, non figlie, che avete fatto? Un padre, un buon vecchio, per riverenza di cui anche un orso avrebbe deposta la sua ferocia, barbare, snaturate femmine, ridotto voi avete alla pazzia. Come potè mio fratello, e uomo e principe, sostener la vista della vostra ingratitudine verso chi l’avea tanto beneficato? Ah! se il Cielo non si affretta ad inviare sotto forma visibile i suoi ministri sulla terra per domare i cuori feroci ed ingrati, gli uomini fra breve si divoreranno fra loro come i mostri dell’oceano.

Gon. Uomo debole e timoroso, alle cui gote si addicono soltanto guanciate, sul di cui capo ben cadono le ingiurie, non hai tu occhi per discernere l’onor tuo e la tua vergogna? Non sai tu che non v’hanno che i pazzi che possano compiangere il miserabile che va punito del suo delitto prima d’averlo compiuto? Dov’è la tua bandiera? La Francia sventola liberamente i suoi vessilli sui nostri campi silenziosi. Già il tuo uccisore, col piumato elmo in testa, ti minaccia, intantochè tu, stoltamente moralizzando, poltrisci qui, e gridi: Oimè! perchè vien egli ad assalirne?

Alb. Va a mirare il tuo volto, furia d’inferno, chè la deformità non è tanto orrenda nei demoni, come lo è nella donna. [p. 68 modifica]

Gon. Oh vano stolto!

Alb. Essere abbietto, e decaduto dalla tua prima natura, in nome della vergogna, vela i tuoi lineamenti mostruosi. Se lecito mi fosse il lasciar seguire alla mano il movimento del mio sangue, vorrei farti in brani. Ma sebbene un mostro tu sia, la tua forma di donna vale a salvarti.

Gon. In verità, che ora siete coraggioso! (entra un messaggiere)

Alb. Quali novelle?

Mess. Oh mio buon signore, il duca di Cornovaglia è morto, ucciso da uno de’ suoi domestici mentre andava a strappare il secondo occhio di Glocester!

Alb. Il secondo occhio di Glocester!

Mess. Un servitore, compreso di sdegno, volle opporsi al suo disegno, e rivolse la spada contro il petto del suo signore, che gli si avventò contro; la duchessa soccorse il suo sposo, e lo sciagurato cadde morto fra di loro. Ma il duca avea ricevuto una ferita mortale, che l’ha fatto scendere nel sepolcro.

Alb. Questo prova che voi dunque esistete, giudici invisibili, che sì prontamente vendicate i delitti che gli uomini commettono sulla terra. Ma, oh sfortunato Glocester! un occhio ei dunque perde?

Mess. Entrambi, entrambi, milord. — Questa lettera, signora, esige una risposta subito; è di vostra sorella.

Gon. (a parte) Per un lato amo ciò.... ma mia sorella, fatta vedova, sposando il mio Glocester che ora sta con lei, può far crollare sopra il mio capo tutto l’edificio che colla mente innalzai... in altro modo considerando, non mi sembra spiacevole l’avvenimento... Leggerò la lettera, e risponderò. (esce)

Alb. Dov’era suo figlio quando l’acciecarono?

Mess. Erasi recato qui colla duchessa.

Alb. Ma qui non è.

Mess. No, mio buon signore; lo incontrai venendo.

Alb. Conosce egli il delitto?

Mess. Sì, milord; e fu esso che denunziò il colpevole: nè si allontanò dalla sua dimora che per lasciare più libero corso al supplizio di suo padre.

Alb. Oh Glocester! io vivo per ringraziarti dell’amore che hai portato al re, e per vendicarti. Vieni, amico, vieni ad istruirmi di tutto ciò che t’è noto. (escono) [p. 69 modifica]

SCENA III.

Il campo francese nelle vicinanze di Douvres.

Entrano Kent e un Gentiluomo.

Kent. Sapete perchè il re di Francia sia così subitamente tornato indietro?

Gent. Per attendere a certe cure del suo Stato, di cui non si era rammentato partendo. Il timore di espor la Francia a qualche gran pericolo mercè una più lunga dimora, ha precipitato il suo ritorno.

Kent. E qual generale lasciò in sua vece?

Gent. Il maresciallo di Francia, monsieur Le Fer.

Kent. Leggendo le mie lettere diè la regina qualche segno di dolore?

Gent. Oh! signore, essa le prese, le percorse a me dinanzi, e vidi di tratto in tratto le sue delicate gote inondate di lagrime. Nullameno sembrava voler vincere il proprio affanno, che qual ribelle cercava impadronirsi della sua signora.

Kent. Fu ella dunque assai commossa?

Gen. Commossa, ma non sino al furore. La pazienza e l’ambascia sembravano disputarsi l’impero della sua dolce anima. Qualche volta avrete veduto una rugiada di pioggia scendere dal cielo in mezzo ai raggi del sole? Ebbene, il suo sorriso e i suoi pianti confusi insieme rammentavano un’iride del mese delle voluttà1. Il riso affettuoso che errava sui suoi labbri vermigli, pareva ignorar le lagrime che sgorgavano da’ suoi occhi, pure e terse come altrettante perle staccate da due diamanti: in breve, il dolore sarebbe la cosa più incantatrice di questo mondo, se avesse in tutti i volti le grazie che rivestiva sul suo.

Kent. Nè un sol lamento le uscì?

Gent. Sì; parecchie volte un sospiro portò fino alla sua bocca il nome di padre, come se questo nome le avesse oppresso il cuore; quindi gridava: Sorelle, sorelle! disonore del mio sesso! Oh sorelle! Kent! padre mio! durante la notte!... fra il ruggir della tempesta!... oh! la pietà nol possa credere giammai! Poscia tergeva le lagrime che scendevano da’ suoi occhi celesti; nè potendo più raffrenare l’ambascia del cuore, corse a chiudersi nelle sue stanze. [p. 70 modifica]

Kent. Sono le stelle, le stelle del cielo che ne governano; altrimenti una coppia di sposi simili generar non potrebbe figli tanto differenti. Le parlaste poi?

Gent. No.

Kent. Fa prima del ritorno del re che la vedeste?

Gent. Fu dopo.

Kent. Bene, signore, lo sfortunato Lear è ora in citta. Nei momenti in cui riacquista la ragione riconosce quelli che lo circondano; ma non vuole veder sua figlia.

Gent. Perchè?

Kent. Un’insuperabile vergogna glielo impedisce. Memore della durezza con cui le tolse la sua benedizione e l’abbandonò in paese straniero in balìa della sorte, privandola di tutti i suoi diritti, che concedeva a figlie snaturate, rifugge dal riabbracciare la sua Cordelia col cuore straziato da acerbissimi rimorsi.

Gent. Oimè, infelice re!

Kent. Avete novelle dell’esercito dei duchi?

Gent. Dicesi sia in via.

Kent. Andiamo da Lear che voi accompagnerete. Un interesse che mi è caro mi obbliga ancora per qualche giorno a questo travestimento. Quando mi sarò fatto conoscere, non vi pentirete delle istruzioni che mi avete dato. Vi prego, seguitemi. (escono)

SCENA IV.

La stessa. — Una tenda.

Entrano Cordelia, un Medico e parecchi soldati.

Cord. Oimè! era egli stesso, che furioso come il mare agitato, cantando con tutta la voce, incoronato di verbena, di papaveri, di amaraco, e d’ogni altra erba parassita che cresce in mezzo alle messi, precipitosamente correva. Si mandi un distaccamento di soldati a ricercarlo per queste immense campagne coperte di biade, e si conduca da me. — (esce un uffiziale) — Che può far la saggezza umana per ristabilire in lui la ragione di cui è privo? Quegli che potrà soccorrerlo abbia quanto possiedo.

Med. Signora, vi sono alcuni mezzi: il sonno è il dolce alimentatore della natura. Di riposo, più che d’ogni altra cosa, egli ha bisogno. Per farlo gustare a lui, abbiamo certi semplici, la cui virtù potente può chiudere gli occhi dello stesso dolore.

Cord. Erbe benedette dal Cielo, fortunate piante, che i germi portate di tante ignote virtù della terra, crescete annaffiate dalle [p. 71 modifica]mie lagrime, afforzatevi tanto da alleviare i mali di questo buon re! Si vada a cercarlo. Temo che nel suo sfrenato furore non si tolga una vita priva di quel lume che è necessario a conservarla. (entra un messaggiere)

Mess. Novelle, signora; l’esercito britanno si avanza a gran giornate.

Cord. Lo sapeva; ed il nostro l’aspetta e lo accoglierà come si deve. — Oh caro padre! è per te solo che m’adopero; per te che il mio dolore ha attristata la Francia; per te che le inesauste mie lagrime hanno eccitata la pietà di quella nazione. Non è una folle ambizione che ci mette le armi in mano; è l’amore, il tenero amore di un padre vecchio e caro, per difendere i cui diritti ci apprestiamo a combattere. Così potessi io in breve udirlo e rivederlo!     (escono)

SCENA V.

Una stanza nel castello di Glocester.

Entrano Regana e il Maggiordomo.

Reg. Ma le schiere di mio fratello sono accampate?

Magg. Sì, milady.

Reg. Ed ei stesso le accompagna?

Magg. Così fa, e con molto ardore. Vostra sorella è poi il migliore di quei soldati.

Reg. Lord Edmondo non parlò col signor vostro allorchè là venne?

Magg. Non gli parlò.

Reg. Che gli dovrebbe importare la lettera di mia sorella?

Magg. Nol so, signora.

Reg. In verità, per cure ben gravi è partito di qui così sollecito. Colpa nostra inescusabile fu il non aver tolta la vita a quel Glocester, insieme con gli occhi. Per tutto ov’ei va, la sua vista accende i cuori e li solleva contro di noi. Edmondo è partito, credo, per alleviarlo della sua miseria, liberandolo di una esistenza che gli è fatta un peso. Ei debbe in pari tempo riconoscere le forze del nemico.

Magg. Signora, conviene che io gli corra dietro per dargli questa lettera.

Reg. Le nostre schiere debbono avanzarsi domani in ordine di battaglia. Restate qui; le strade non son sicure.

Magg. Nol posso, signora; la principessa che io servo, mi raccomandò questa bisogna con grande ardore. [p. 72 modifica]

Reg. Ma perchè scrive ella ad Edmondo? Non poteva affidarvi i suoi comandi a voce? Orsù, una parola..... non so il perchè..... ma lasciami dissuggellar quella lettera, e ti amerò molto.

Magg. Signora, vorrei piuttosto.....

Reg. So che la vostra padrona non ama suo marito; son sicura di ciò: e quando, non ha molto, qui stava, volgeva spesso sguardi strani ed eloquenti al nobile Edmondo. So ancora che voi siete a parte dei segreti di lei.

Magg. Io, signora?

Reg. Sì; parlo con scienza; voi siete il suo intimo confidente, lo so: onde pensate a ben ascoltare quello che voglio dirvi. — Il mio sposo è morto; con Edmondo favellai; e la mia mano gli si addice più che quella della signora vostra. Saprete di più in seguito. Se ora lo trovate, esponetegli ciò, ve ne prego; e quando istruirete di tutto quello che vi ho detto la vostra signora, consigliatela a far uso di tutta la sua ragione. Addio. — Se per avventura udiste parlare di quel cieco traditore, la fortuna verserà i suoi doni sopra colui che l’avrà trucidato.

Magg. Potessi incontrarlo, signora! e mostrar vorrei a qual partito io sia ligio.

Reg. Addio. (escono)

SCENA VI.

Una landa nelle vicinanze di Douvres.

Entrano Glocester, e Edgardo in abito da contadino.

Gloc. Quando arriveremo alla cima della montagna?

Edg. Voi cominciate a salirla ora; sentite com’è disagevole!

Gloc. Parmi che il terreno sia uguale.

Edg. Orrendo precipizio; non udite il muggito del mare?

Gloc. No, in verità.

Edg. Convien dire allora, che anche gli altri vostri sensi sian divenuti imperfetti per lo spasimo degli occhi.

Gloc. Così può essere; ma parmi che la tua voce siasi alterata e che tu favelli con miglior frase e senno che prima non facevi.

Edg. V’ingannate; in nulla io son mutato, fuori che ne’ vestimenti.

Gloc. Parmi che favelli meglio.

Edg. Avanzatevi, signore; quest’è il luogo: non vi muovete. — Come tremendo e orribile è il gettar gli occhi in fondo a questo abisso! Il capogiro mi piglia!..... Il nibbio e la cornacchia che [p. 73 modifica]volano per l’aere, a metà della montagna mi sembrano appena della grandezza di una cicala. Sul pendìo, a metà del precipizio, veggo un uomo sospeso sulle roccie, che coglie piante marine. Mestiere pericoloso! Quell’uomo mi sembra grosso appena come la sua testa: e i pescatori che camminano lungo la spiaggia paiono donnole saltellanti. Quel gran vascello che sta là in fondo ancorato è piccolo come il suo caicco; e il suo caicco non maggiore di un animaletto. Non mai fu meglio inteso il ruggito delle onde che si frangono contro gli sterili e innumerabili scogli delle rive. Riguardar più non voglio; chè la mia ragione si smarrirebbe, e i miei occhi una volta abbagliati, cadrei col capo il primo.

Gloc. Mettimi dove tu sei.

Edg. Datemi la mano; eccovi ora distante un piede dall’orlo dell’abisso; per tutti i beni di questo mondo avventar non mi vorrei all’innanzi.

Gloc. Lascia la mia mano: eccoti, amico, un’altra borsa; v’è dentro un gioiello che debbe riuscir accetto ad un uomo povero. Le Fate e i Numi ti siano propizi! Allontanati; dimmi addio, e fa ch’io t’oda partire.

Edg. (fingendo ritirarsi) Dunque addio, buon signore.

Gloc. Con tutto il mio cuore.

Edg. (a parte) Perchè mi fo io così giuoco della sua disperazione? Oimè! solo per guarirlo.

Gloc. Oh voi, potenti Dei, a questo mondo io rinunzio, e in presenza vostra mi sgravo senza dolore del peso del mio orrendo infortunio. Se sopportar lo potessi più a lungo, senza avventurarmi al pericolo di mormorare contro i vostri santi e ineluttabili decreti, lascierei consumare fino al suo termine questo avanzo disprezzabile del fanale de’ miei giorni. Ove Edgardo viva, colmatelo de’ vostri favori, beneditelo e rendetelo felice! — Ora, amico, addio. (dal monticello su cui Edgardo lo aveva condotto, salta e cade nella vicina pianura).

Edg. Addio, signore, addio. — (a parte) Io non so per qual bizzarro talento l’uomo possa così indursi a togliersi la vita, allorchè il corso di questa è pur tanto fugace! Se questi fosse stato ove credeva essere, sarebbe già estinto. — (avvicinandoglisi e parlandogli come un altro uomo che dalla riva del mare appiè della montagna lo avesse veduto cadere) Siete vivo, o morto? O amico, mi udite? Parlate. Pur potrebb’essere estinto... Ma no: già ritorna in sè... Chi siete, signore?

Gloc. Va lungi di qui, e lasciami morire. [p. 74 modifica]

Edg. Se tu non fossi stato più leggiero di una piuma o dell’aere, cadendo da questa immensa altezza, saresti andato in minuzzoli come un uovo. Ma lo veggo; tu respiri; sei d’una sostanza solida, e il tuo sangue non iscorre. Parla; sei ferito? Dieci alberi l’uno all’altro sovrapposti non arriverebbero alla cima del monte, da cui ti sei precipitato. La tua vita è un miracolo; favella, te ne prego.

Gloc. Ma caddi io dunque, o no?

Edg. Dall’orrenda cima di questa montagna di macigno. Solleva gli occhi, e guarda quell’altura dove l’allodola non potrebbe nè vedersi, nè intendersi, in onta della sua acuta voce. Guarda, guarda.

Gloc. Oimè! non ho più occhi. — È dunque la miseria priva del benefizio di finire i proprii mali colla morte? Sommo conforto era per la sventura il poter deludere la rabbia del suo fiero tiranno, e frustrarne il truce volere.

Edg. Datemi il vostro braccio... su... così... Come vi sentite ora? potete valervi delle gambe? vi reggete?

Gloc. Anche troppo, anche troppo.

Edg. Questa supera ogni altra cosa straordinaria. Sulla cima del monte chi altri era vosco, che vidi allontanarsi?

Gloc. Un povero mendico.

Edg. Mentre io me ne stava quaggiù, mi parve che i suoi occhi raggiassero come due lune, che avesse mille nasi, e cento corna infuocate, da cui si partiva uno splendor tremulo e inquieto come le onde del mare. Era al certo qualche spirito; perciò, felice vecchio, sii convinto che i tuoi giorni sono stati salvati dai Numi, che talvolta si gloriano di mostrare la loro potenza operando ciò che è impossibile agli uomini.

Gloc. Ora tutto rimembro, e per l’avvenire sopporterò i miei mali finchè essi stessi gridino: Basta, muori! Lo spirito, di cui mi parli, l’aveva preso per un uomo; ma spesso l’udiva gridare: il demone, il demone, mentre mi conduceva qui.

Edg. Sopporta rassegnato e paziente. — Ma chi viene? (entra Lear bizzarramente incoronato di fiori) Non mai uomo di senno mostrossi con tali apparenze.

Lear. No, condannar non mi possono, se batto moneta; non sono io la persona del re?

Edg. Oh vista che mi trafigge il cuore!

Lear. In ciò la natura è superiore all’arte. Prendi; ecco il tuo soldo. Quel pazzo porta l’arco come uno sgraziato artigiano; appena forse è buono a spaventar le cornacchie. Ecco la mia [p. 75 modifica]manopola... vediamo il suo valore... Guarda, guarda; un topo! Zitto; in tempo corre al cacio! Dov’è il gigante? Datemi la mia scure... vuo’ provarmi con lui... Oh! ben voli, uccello... vola, vola, uh!... La parola d’ordine, se vi piace?

Edg. Benefico amaraco!

Lear. Passa.

Gloc. Conosco questa voce.

Lear. Ah Gonerilla!... colla barba bianca!... Esse mi sojavano come un cane; e dicevano che avevo peli canuti nella barba, prima ancora che i neri fossero spuntati. Dicevano e no ad ogni cosa ch’io sostenessi. — Il e il no non erano buone prove. Quando la pioggia venne ad inzupparmi, e il vento a farmi tremare; quando il tuono non volle acquetarsi al mio comando, fu allora che le conobbi, e le apprezzai al loro giusto valore. Va; esse non sanno, come gli uomini, osservar le parole; mi dicevano ch’io era onnipotente. È una menzogna; io non sono a prova di febbre.

Gloc. I suoni di questa voce io rammento bene. Non è il re?

Lear. Sì, re dai piedi alla testa. Quando assumo un contegno fiero, guarda come i miei sudditi tremano. Accordo a quest’uomo la vita; qual era il tuo delitto? — Adulterio. — Ebbene, non morrai. Morire per adulterio? No. Il reattino e la giovine farfalla volano gaiamente a commetterlo dinanzi a me. Prosperi a posta sua l’adulterio, dacchè il bastardo di Glocester fu più umano verso suo padre, che meco nol fossero le mie figliuole generate entro un legittimo letto. Ardite, libertini; mescolate i sessi, perchè io manco di soldati. — Mira quella signora che sorride, il cui volto traverso alla sua mano direbbesi che è di neve, quali sembianze di virtù ostenta, e come scrolla il capo al solo nome del piacere! Eppure il gatto e lo stallone chiuso nella scuderia, non corrono con maggior foga e appetito verso voluttà. E’ son Centauri dalla cinta al fondo, sebbene femminile sia la parte di sopra: ma della cintura si piacciono gli Dei; del resto i diavoli. V’è un inferno; e tenebre; è una fossa di zolfo ardente, avvampante, fetida, voratrice... Vitupero, vergogna! Oh! oh! oh! Dammi un’oncia di zibetto, buono speziale, per addolcire la mia immaginazione; qui v’è una moneta per te.

Gloc. Ah! lasciatemi baciar questa mano.

Lear. Permetti pria ch’io la terga; sente odor di morto.

Gloc. Oh ruina fatale di sì bell’opera di natura! Questo gran mondo egualmente tornerà al nulla. — Mi conosci tu?

Lear. Ricordo i tuoi occhi. Ma bieco mi guati? Infierisci a tuo [p. 76 modifica]senno, cieco Cupido; io non amerò più. — Leggi questa disfida; e osservane bene i caratteri.

Gloc. Fossero tutte le lettere soli, io non potrei vederne alcuna.

Edg. Nol crederei per narrazione... e vedendolo, il mio cuore sanguina.

Lear. Leggi.

Gloc. Colle occhiaie vuote.

Lear. Ah! ah! siete voi qui con me? Senz’occhi in fronte, senza danari nella borsa? Le vostre pupille versano in grave bisogna; la vostra borsa in lieve. Nullameno voi vedete come corre questo mondo.

Gloc. Lo veggo sentendolo.

Lear. Che! sei insensato? Un uomo può ben vedere come va questo mondo anche senz’occhi. Guarda colle orecchie: vedi là come la giustizia schernisce quel povero ladro. Porgi attento ascolto; poi muta i posti, Andì-dandì2: chi è il giudice ora, e chi il ladro? — Hai veduto mai il cane d’un villico latrare ad un mendico?

Gloc. Sì, milord.

Lear. E il mendico fuggir dal cane? Ebbene, tu hai veduto la grande immagine dell’autorità. È al cane che si porge obbedienza... Bidello infame, trattieni la sanguinosa mano: perchè sferzi quella meretrice? Sferza il tuo dorso, e farai miglior opera, libertino rotto ad ogni scostumatezza. L’usuraio fa appiccare il truffatore; i piccoli vizi traspariscono fra i cenci della miseria. Ma le pelli e le vesti di seta nascondono tutto. Dà al vizio uno scudo d’oro, e la spada della giustizia vi si romperà senza forarlo. Ma copri lo scudo di cenci, e un pigmeo con un fuscello lo trapasserà. Alcuno, ti dico, alcuno non fece male, e perdono a tutti. Abbiti questo da me, amico mio; da me, che potenza ho di chiuder la bocca dell’accusatore. Prendi i tuoi occhiali, e come un impudente politico fingi di vedere quello che non vedi. Ora, ora, ora, ora; toglietemi i calzari; più in fretta, più in fretta; così.

Edg. Oh misto di stravaganze e di verità! quanta ragione è nella sua follia!

Lear. Se tu vuoi piangere le mie sventure; prendi i miei occhi; io ti conosco abbastanza; il tuo nome è Glocester. Convien però sii paziente, in questo mondo venimmo urlando. Tu ben sai che appena incominciammo a fiutar l’aere, i vagiti uscirono dal nostro petto. Ti farò un sermone; attendi bene. [p. 77 modifica]

Gloc. Oimè! oimè! sventuratissimo giorno!

Lear. Allorchè nasciamo, gridiamo per essere venuti su questo gran teatro di pazzi... Codesto è un bel cappello? Grazioso stratagemma sarebbe il calzare una schiera di cavalli di borra... Vo’ farne prova; e quando rapiti avrò que’ miei generi, allora uccidi, uccidi, uccidi, uccidi, uccidi, uccidi. (entra un Gentiluomo con seguito)

Gent. Oh! egli è qui: prendetelo... La vostra amorosa figlia...

Lear. Non v’è riscatto? Come! prigioniero? Io sono, signore, pur anco il pazzo beneviso dalla fortuna. — Comportatevi bene con me; e ne sarete ricompensati. Chiamatemi un cerusico, ho una ferita nel cervello.

Gent. Avrete ogni cosa.

Lear. Alcuno non mi seconda? Tutto debbo compier da me? Ciò farebbe stemperare un uomo in lagrime; muterebbe i suoi occhi in due annaffiatoi, valevoli a smorzare la polvere dell’autunno.

Gent. Buon signore...

Lear. Morrò generosamente, come un novello sposo. Che? sarò lieto: venite, venite. Io sono un re, miei signori; conoscete voi questa cosa?

Gent. Voi siete re, e vogliamo ubbidirvi.

Lear. Sensato dicesti. Ora se volete prenderlo, lo dovrete prender correndo. Va, va, va, va. (esce fuggendo; alcuni del seguito gli van dietro)

Gent. Vista dolorosa anche nell’infimo degli uomini; oltre ogni dire un re!... Ma tu hai una figlia che redime natura dalla generale maledizione che l’altre tue due avevano attirato su di essa.

Edg. Salve, gentil signore.

Gent. Addio. Che volete da me?

Edg. Sapete nulla intorno alla battaglia che debbe accadere?

Gent. Novelle certe e pubbliche; alcun non vi ha, che udito non ne abbia parlare.

Edg. Ma, in mercè, ditemi, è vicino l’esercito nemico?

Gent. Vicino e in celere moto, ad ogni istante può scoprirsi.

Edg. Vi ringrazio, signore.

Gent. Sebbene la regina per motivi suoi si trattenga ancora qui, le sue schiere sono già mosse.

Edg. Vi ringrazio. (esce il Gent.)

Gloc. Voi, pietosi Dei, voi soli omai toglietemi la vita che mi resta, ond’io più tentato non sia dal mio spirito malvagio a terminarla prima dell’ora che avete stabilita. [p. 78 modifica]

Edg. Ben pregaste, padre.

Gloc. Buon giovine, chi siete?

Edg. Un uomo poverissimo domato dalla fortuna, che, per l’esperienza de’ proprii mali, sa compianger gli altrui. Datemi la vostra mano, e vi condurrò in qualche asilo.

Gloc. Ti ringrazio di cuore. Le misericordie e le benedizioni del cielo t’allietino e ti ricompensino. (entra il Maggiordomo)

Magg. Una taglia già bandita!... fortunato evento! La testa di quel cieco fu fatta, credo, perchè servisse di sgabello alle mie fortune. — Vecchio traditore sciagurato, pentiti in breve di tutte le colpe della tua vita. La spada che deve trafiggerti è già snudata.

Gloc. L’amica tua mano vibri il colpo fatale. (Edgardo s’oppone)

Magg. Perchè, villico audace, osi tu difendere un pubblica traditore? Vattene lungi, per tema che il suo contatto non attiri su di te una egual sorte. Lascia il suo braccio.

Edg. Nol farò, se prima non ce ne avete detto di più3.

Magg. Lascialo, miserabile, o sei morto.

Edg. Buon gentiluomo, andate per la vostra via, e concedete il passo alla povera gente. Mala opera fate frapponendovi... ite lontano. Se a questo vecchio v’appressate, anche d’una sola linea, sperimenterò se sia più duro il vostro cranio, o il mio bastone. Parmi parlar chiaro.

Magg. Lungi di qui, immondezzaio4.

Edg. Vi romperò i denti, messere. Avanzatevi; non mi cure della vostra spada. (lottano, e Edgardo lo atterra)

Magg. Scellerato, mi hai ucciso... Empio, prenditi la mia borsa; se la tua sorte ti cale, seppellisci il mio corpo, e dà le lettere, che porto meco, a Edmondo conte di Glocester... Cercalo nell’esercito britanno... Oh morte intempestiva... (spira)

Edg. Ben ti conosco, ufficioso scellerato, prono ai comandi della tua colpevole signora, come la malvagità poteva desiderarlo.

Gloc. È egli già morto?

Edg. Assidetevi, padre, e riposate. — Vediam le sue saccoccie, e speriamo conforti dalle lettere di cui parlò. — È morto..... duolmi solo che un altro non l’uccidesse... — Vediamo... Cera gentile, permetti; e non me ne incolga biasimo: chè se per [p. 79 modifica]conoscere i nostri nemici laceriam loro il cuore, sarà ben minor colpa il lacerarne le lettere. (legge) Sianvi presenti i nostri scambievoli voti. Molte opportunità avete per trucidarlo. Se il voler vostro collima in ciò, il tempo e il luogo vi saran porti benignamente. Nulla si è fatto, s’ei riede vincitore; io rimango in tal caso sua prigioniera, e il suo letto mi sarà carcere. A’ suoi abborriti amplessi sottraetemi, e, in mercede, occupate il posto suo.

Vostra sposa (così dir vorrei) e vostra serva affezionata
Gonerilla.

Oh inconcepibile instabilità della donna!... Costei congiura, congiura contro la virtuosa vita di suo marito, a cui surrogar vuole mio fratello!... Qui per questa sabbia, vo’ trascinarti, o esecrabile messaggiere di due impudichi assassini; e quando sarà l’ora con quest’infame carta farò inorridir l’insidiato duca. Bene sarà per lui, che del tuo messaggio e della tua morte io possa istruirlo. (esce, trascinando il corpo del Maggiordomo)

Gloc. Il re ha perduto la ragione; ma quanto tenace è la mia, e come tutto mi fa sentire i miei dolori! Meglio per me sarebbe di essere insensato; i miei pensieri almeno non verserebbero sempre su’ miei mali. Quando l’immaginazione è accesa, l’uomo perde la conoscenza di sè e della vita sua. (rientra Edgardo)

Edg. Datemi la mano; mi parve intender da lungi suoni di guerra. Venite, padre, e seguirete un amico. (escono)

SCENA VII.

Una tenda nel campo francese. — Lear sopra un letto, addormentato.
Un Medico, Gentiluomini ed altri, che vegliano intorno a lui.

Entrano Cordelia e Kent.

Cord. O mio buon Kent, come potrei io viver tanto per ricompensare la tua bontà? La mia vita sarà troppo breve, ed ogni istante che ne trascorre è perduto per la mia riconoscenza.

Kent. Signora, io mi chiamo ricompensato immensamente da questa dichiarazione. La pura verità ha dettato tutti i miei racconti; niuno ne omisi, niuno ne amplificai.

Cord. Indossate vestimenta che meglio vi si addicano; le luride spoglie, in che vi avviluppate, mi ricordano sempre giorni obbrobriosi. Deponetele, ve ne prego.

Kent. Perdonatemi, cara signora; l’esser conosciuto mi frustrerebbe del mio intento. Vi chieggo per mercè di non volermi [p. 80 modifica]riconoscere, finchè i tempi non mi diano opportunità di manifestarmi.

Cord. Ebbene, sia così, mio buon lord. — Come sta il re? (al medico)

Med. Signora, ei dorme ancora.

Cord. O voi, buoni Dei, sanate questa gran piaga nella sua ferita ragione; ristabilite l’armonia e la calma nei sensi di questo buon padre, a cui i figli han pervertita la mente!

Med. Consente Vostra Maestà che si svegli il re? egli ha dormito già troppo.

Cord. Fate il senno vostro, e ciò che comanda la scienza. È egli vestito?

Med. Sì, signora; approfittando d’un sonno profondo, gli abbiamo fatto indossare nuovi abiti. Statevi accanto a lui, buona signora, allorchè lo desteremo; non dubito della sua calma.

Cord. Sia così.

Med. Piacciavi farvi più vicino. — Ora la musica incominci. (odonsi i preludii d’una musica dolce e malinconica)

Cord. Oh mio caro padre! Faccia la Dea della salute sgorgare dalle mia labbra il suo balsamo; e questo bacio, ch’io ti do, o padre mio, dissipi il disordine spaventoso che le mie due sorelle hanno cagionato nella tua augusta ragione.

Kent. Virtuosa e cara principessa!

Cord. Quand’anche non fosse stato loro padre, questi bianchi capelli non avrebbero dovuto eccitare la loro pietà? Questo volto venerabile era egli fatto per andar soggetto al furore dei venti, fra il ruggir del tuono, e i suoi terribili lampi! Dovevi tu passar le notti a capo scoperto, e senza tetto, nello squallore e nella disperazione? Sì, il cane del mio nemico, quando anche morsicato m’avesse col suo dente micidiale, sarebbe stato da me ricovrato in quella notte fatale; e tu, povero padre, tu debole e caduco, dovevi esser ridotto a non aver per letto che un po’ d’immonda paglia, e non aver per asilo che il ricetto d’animali anche più immondi? Oimè! oimè! è ben miracolo se non perdesti in pari tempo la mente e la vita!... Ma ei si sveglia; favellategli.

Med. Signora, fatelo voi: sarà meglio.

Cord. Come si sente il mio real signore? come sta Vostra Altezza?

Lear. Mi fate oltraggio, strappandomi così dalla tomba... Tu sei un’anima benedetta; ma io sono legato sopra una ruota di fuoco, e le mie lagrime scorrono come piombo liquefatto.

Cord. Signore, mi conoscete? [p. 81 modifica]

Lear. So che siete uno spirito; ma quando moriste?

Cord. Oimè, oimè, egli vaneggia ancora!

Med. È appena desto; lasciamolo solo per alcuni istanti.

Lear. Dove fui io?..... dove sono ora?..... Amabile luce di sole!... Troppo mi sento travagliato... Morrei di compassione, se vedessi un altro nello stato mio... Non so che dire... non vorrei giurare che queste sono le mie mani... Proviamole: sento una spilla che mi punge... Foss’io sicuro della mia esistenza!

Cord. Oh! guardatemi, signore, e stendete il vostro braccio per benedirmi..... Oh, mio signore, voi non dovete inginocchiarvi.

Lear. Ti prego, non beffarti di me. Io sono un povero e debole vecchio, che varcò già gli ottanta; e per dir sinceramente, temo d’avere un po’ gli spiriti alienati. Parmi di conoscervi, e di conoscere quest’uomo; ma ne dubito, perchè ignoro qual luogo sia questo; e tutta la mia memoria non vale a richiamarmi questi vestimenti, nè a farmi certo del luogo in cui albergai la scorsa notte. Non mi deridete; ma, com’è vero ch’io sono uomo, credo che questa signora sia la mia figlia Cordelia.

Cord. Sono quella, sono quella.

Lear. Bagnano le vostre lagrime? Sì, in verità. Vi prego, non piangete: se avete un veleno per me, io l’ingoierò. So che non mi amate, perchè le vostre sorelle furono, per quanto ricordo, crudeli verso di me. Voi avete cagione di odiarmi; elleno non ne hanno.

Cord. Nessuna, nessuna.

Lear. Sono io in Francia?

Kent. Nel vostro regno, signore.

Lear. Deh! non m’ingannate.

Med. Rallegratevi, buona signora; gli accessi del furore passarono: nullameno sarebbe pericoloso il richiamargli le idee che ha dimenticate. Pregatelo di entrare; nol turbiam più finchè i suoi sensi non siansi rafforzati.

Cord. Piacerebbe a Vostra Altezza di passeggiare?

Lear. Converrà che mi portiate. Vi prego, obbliate e perdonatemi; io sono vecchio, e la mia ragione è smarrita. (escono Lear, Cord., Med., e il seguito)

Gent. È vero, signore, che il duca di Cornovaglia rimanesse ucciso?

Kent. Non se ne può dubitare, signore.

Gent. Chi è il duce delle sue genti?

Kent. Dicesi il figlio illegittimo di Glocester. [p. 82 modifica]

Gent. Corre fama che Edgardo, l’altro figliuolo bandito, sia col conte di Kent in Germania.

Kent. Varia è la voce su di ciò; ma è tempo di andare al campo, dove fra poco debbonsi determinare i nostri destini.

Gent. La decisione ne sarà, credo, sanguinosa. Addio, signore. (esce)

Kent. Intenderò al mio scopo fra tutti gli ostacoli che la fortuna o le disavventure di questo giorno di battaglia mi opporranno. (esce)






Note

  1. Il maggio.
  2. Formola di certi giouchi.
  3. Edgardo simula in tutto questo dialogo la maniera di parlare dei villici d’Inghilterra.
  4. Dunghill.