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64 il re lear


ATTO QUARTO



SCENA I.

Il bosco.

Entra Edgardo.

Edg. Meglio è l’esser dispregiato e conoscer ciò, che vedersi adulato da coloro che segretamente ci disprezzano. Lo sciagurato, percosso dai colpi della fortuna, e precipitato negli ultimi stadi della miseria, conserva sempre un raggio di speranza, o almeno vive scevro di timori. Il mutamento non può paventarsi che dall’uomo felice; il misero non sa mutare che per risalire verso la felicità. Accetto dunque con gioia, e con entusiasmo m’inebbrio di quest’aria invisibile, ultimo bene che mi resta! Il disgraziato, che il tuo soffio tempestoso ha gettato negli abissi, non ha più nulla a temere da’ tuoi uragani. — Ma chi s’avanza? (entra Glocester, condotto da un vecchio) Mio padre guidato da un povero?... Mondo, mondo, oh mondo! Se tanti mali in te non fossero che ci costringono ad odiarti, la più caduca vecchiezza rinunciar non saprebbe alla propria esistenza.

Il vecch. O mio buon signore, fui vostro colono, e colono di vostro padre per ottant’anni.

Gloc. Va, amico mio, ritirati; le tue consolazioni non possono farmi alcun bene, e riescir potrebbero a te assai funeste.

Il vecch. Oimè, signore; ma voi non potete veder la vostra via.

Gloc. Via non ho; onde d’occhi non abbisogno: caddi e mi smarrii allorchè aveva gli occhi. Sovente lo si è veduto: il nostro abbassamento fa la nostra sicurezza, e le nostre privazioni divengono i nostri beni. — Oh mio caro figlio Edgardo, vittima dello sdegno di tuo padre! potess’io viver tanto per sentirti ancora fra le mie braccia, e griderei: ricuperata ho la vista col sussidio del tatto.

Il vecch. Oh! oh! chi è costà?

Edg. (a parte) Oh Dei! come poteva io dire d’essere al colmo dell’infortunio? eccomi più infelice di prima.

Il vecch. È Tom, il povero scemo.

Edg. (a parte) E vieppiù misero ancora posso divenire, chè il