Il Re Giovanni/Atto terzo
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ATTO TERZO
SCENA I.
La stessa. — La tenda del re di Francia.
Entrano Costanza, Arturo e Salisbury.
Cos. Partiti per maritarsi! Partiti per giurarsi pace! Il figlio di un traditore unito al sangue di un traditore! Partiti per una conciliazione! Luigi avrà Bianca, e Bianca avrà queste provincie! Non può essere; ti sei male spiegato; hai male inteso. — Pensa con senno: ripetimi il tuo racconto. Non può essere. Tu dici solo che è; ma spero di poter dubitare di te: il tuo racconto non è che il vano discorso di un uomo del volgo. Va, non ti credo: ho il giuramento del re che mi garantisce l’opposto. Tu sarai punito per avermi causato tanto spavento. Imperocchè io sono inferma e suscettiva di terrori: sono oppressa di oltraggi e piena di sgomenti; sono una donna, senza sposo che mi sostenga, e in questa solitudine la mia anima è abbeverata di dolori: sono una donna, e il mio sesso è debole e naturalmente timido. Quand’anche tu mi dicessi ora che la tua novella non fu che celia, non potrei calmare i miei spiriti agitati; questo tremito di tutti i miei nervi e la mia commozione dureranno tutto questo dì. — Che vuoi tu accennarmi scrollando così il capo? Perchè affiggi quel doloroso sguardo sopra mio figlio? Perchè tu poni quella mano sul cuore? Perchè quelle lagrime, che sgorgano tuo malgrado da’ tuoi occhi, come torrente straripato? Quei tristi sospiri confermano essi le tue parole? Parla dunque di nuovo: dimmi, non quello che mi hai detto, ma un solo accento: è vero il tuo racconto?
Sal. Così vero, come credo che abbiate ragione di riputar falsi coloro, che sono gli autori della sua veracità.
Cos. Oh! se tu m’insegni a credere ciò che cagiona il mio dolore, insegna del pari al mio dolore di farmi morire; e il colpo, con cui questa notizia mi uccide, sia così spietato, come l’incontro imprevisto di due furiosi nemici che al primo urto cadono e soccombono! — Luigi ammogliato con Bianca! Oh mio figlio, che diverrai tu? — La Francia amica dell’Inghilterra? Che sarà di me stessa? — Uomo, ritirati, non posso sostener la tua vista. Questa notizia ti ha reso orribile ai miei occhi.
Sal. Che male ho io fatto, signora, istruendovi del male che vi han fatto gli altri?
Cos. Ah questo male è sì tremendo per me, che rende colpevoli a’ miei occhi tutti coloro che me l’annunziano!
Art. Vi prego, signora, calmatevi.
Cos. Oh! Tu che mi dici di calmarmi, se la tua nascita fosse l’obbrobrio del seno di tua madre; se la bruttezza deformasse il tuo volto; se fossi un mostro orrendo, di persona odiosa e strana; se le tue membra storpie e contraffatte, coperte di un’erpete econcia e generale, non lasciassero vedere in sè che uno sciagurato aborto di natura, sarei indifferente alla tua sorte, e non me ne affliggerei: perocchè allora non ti amerei, nè tu saresti degno dei tuoi illustri natali o di una corona. Ma tu sei bello, mio figlio, e alla tua nascita la natura e la fortuna sonosi adoperate di concerto per formarti a grandi destini. Tu puoi vantarti di riunire tutti i pregi della beltà. Il giglio e la rosa non hanno maggior freschezza, o maggiori grazie di te: ma la fortuna, oimè! si è mutata, e ti ha derelitto. Corrotta come vil cortigiana, essa non si stanca di prodigare i suoi favori a tuo zio, e la sua mano dorata ha abbagliato il monarca di Francia, facendogli calpestare l’onore dei sovrani, e prostituire la maestà dei re dinanzi all’interesse. Il re di Francia si è vergognosamente venduto alla fortuna e al re Giovanni; alla fortuna infedele, e all’usurpatore Giovanni. — Dimmi, il re di Francia non è egli uno spergiuro? Impreca al suo nome, o vattene; e lasciami sola coi mali, che debbo sola tollerare.
Sal. Perdonatemi, signora: non posso, senza di voi, ritornare dai due re.
Cos. Puoi partire, e partirai solo: io non verrò teco. Insegnerò al mio dolore la dignità; imperocchè il dolore è dignitoso, e rende dignitoso il cuore che lo sopporta. Si radunino i re dinanzi a me, dinanzi al grave spettacolo della mia afflizione, che è sì immenso che solo la terra può sostenerne il peso (si getta per terra). Qui coi miei mali io mi assido; questo è il mio trono; di’ ai tuoi re di venire a inginocchiarsi al mio cospetto. (entrano il re Gio., il re Fil., Luigi, Bianca, Elinora, il Bastardo, l’Arc. d’Aust. e seg.)
Re Fil. È vero, figlia mia, e questo felice giorno sarà per sempre un dì di festa per la Francia. Per celebrarlo, il sole sembra rallentare il raggiante suo corso (schernendo all’alchimista), mutare la massa arida e tenebrosa della terra in splendido oro. L’anno, nel suo rivolgersi, non ricondurrà mai questo bel giorno ricondurre un giorno santo e solenne.
Cos. (alzandosi) Giorno di maledizione, e non giorno santo! Che vi è dunque di glorioso in questo giorno? Che è in esso accaduto, perchè si debba notarlo con lettere d’oro fra i dì solenni dell’anno? Ah piuttosto sia tolto questo giorno di vergogna, di oppressione e di spergiuro! o se si debbe annoverar sempre, le madri chieggano al Cielo ch’esso non rischiari mai la nascita dei loro figli, per tema che un aborto non deluda le loro dolci speranze; e i marinai non paventino i naufragi, che in questo infausto dì! Tutti i patti, che non sono stati stretti in questo giorno, non siano mai violati; ma le imprese, che questo giorno ha veduto cominciare, non abbiano che un esito funesto. Sì, la fede e la verità stessa si cambino in menzogne e in ispergiuro in questo dì!
Re Fil. Pel Cielo, signora, voi non avrete alcuna cagione per maledire questo giorno: non vi diedi io la mia parola di re?
Cos. Voi mi avete ingannata, abusando del vostro grado, che una larva era solo, che al primo baleno dileguò. Voi siete spergiuro, spergiuro! Armato qui veniste per spargere il sangue dei miei nemici: e oggi promettete il vostro per sostenerli! L’ardore del combattere e la fronte minacciosa della guerra si sono addolcite in un istante, dinanzi ad una finta amistà e aduna pace ipocrita; e noi siamo le vittime immolate alle vostre frodi. Armati, giusto Cielo! armati contro i re spergiuri! Una vedova t’implora con alti gridi: tienmi tu luogo di sposo, pietoso Cielo! Deh! non permettere che le ore di questo sacrilego dì finiscano in pace; ma, prima che tramonti il sole, la viperea discordia divida questi perfidi sovrani. Esaudisci.... oh! esaudisci la mia preghiera.
Arc. Pace, Costanza.
Cos. Guerra, guerra, non pace; la pace è per me più funesta della guerra. — Oh tu davvero, (all’Arc.) tu disonori quella spoglia sanguinosa che porti! Anima servile e senza lena, ricca soltanto in viltà, la tua forza sta nel pôrti sempre dal lato più forte! Guerriero venduto alla fortuna, che non combatti, se non quando ella ti sta al fianco e ti guarentisce la tua salvezza, tu pure sei uno spergiuro e i re aduli! Quanto fosti vile e disprezzevole giurando, e vantando che sostenuta avresti la mia causa! Schiavo dal cuore di fango, la tua voce non tuonò essa in favore dei miei diritti? Non ti giurasti tu mio cavaliere, mio difensore, dicendomi di fidarmi nei tuoi destini, nella tua fortuna, nella tua forza? E oggi tu mi abbandoni, per darti ai miei nemici! Tu porti la spoglia di un leone! In nome dell’onore, gettala lunge da te, e rivesti le tue perfide membra colla ridicola divisa degli stolti.
Arc. Oh se un uomo mi tenesse un simile linguaggio!
Fil. E rivesti le tue perfide membra colla divisa ridicola degli stolti.
Arc. Tu non oseresti dir così, scellerato, per la tua vita!
Fil. E rivesti le tue perfide membra colla divisa ridicola degli stolti.
Gio. Questo non ne piace: ora obblii te stesso. (entra il cardinal Pandolfo)
Re Fil. S’avanza il santo legato del pontefice.
Pand. Salute, o unti del cielo. — È a te, re Giovanni, che arreco il mio sacro messaggio. Io sono Pandolfo, cardinale della bella Milano, e legato di papa Innocenzo. È in nome suo e della religione ch’io qui ti chieggo, perchè ti compiaci così di odiare la Chiesa, nostra santa e comune madre: perchè togli con violenza a Stefano Langton, arcivescovo di Cantorbery, il suo seggio episcopale? in nome del Santo Padre, ti comando di rispondere.
Gio. Qual nome sulla terra può imporre alla voce sacra di un re la legge di rispondere? Cardinale, tu non puoi, per interrogarmi, farti forte di nome più vano per me, di quello del pontefice. Rendigli questa risposta per parte del re d’Inghilterra, e aggiungi, che non mai sacerdote d’Italia imporrà balzelli, o decime nei nostri Stati, e che, come noi siamo, dopo Iddio, il capo supremo, eserciteremo dopo Iddio, e in suo nome solo la suprema potenza, nei luoghi in cui regniamo, senza aiuto d’alcuna mano mortale. Reca questa risposta al pontefice, e per troncare il nodo digli ch’io non l’ho in conto di autorità.
Re Fil. Fratello d’Inghilterra, ora tu bestemmi.
Gio. Tu e tutti i re della cristianità lasciatevi reggere dal pontefice; per me nol farò, e avrò i suoi amici in conto di nemici.
Pand. Ebbene, in virtù del potere legittimo di cui sono rivestito, tu sarai maledetto e scomunicato: e benedetto sarà quegli che toglierà la sua obbedienza a un principe eretico.
Cos. Oh mi sia permesso di unire le mie maledizioni a quelle di Roma! Venerabile Pandolfo, al mio imprecare rispondi amen; perocchè chi non ha sofferto le ingiurie e i mali che io soffro, non può come me maledirlo quanto merita.
Pand. Io, signora, ho il potere di maledirlo.
Cos. Ed io pure l’ho. Allorchè la legge non può più fare giustizia, è bene ch’essa non ponga più ostacolo alla vendetta. La legge non può rendere a mio figlio il regno che gli appartiene: perocchè quegli che ha fra sue mani il regno, ne ha anche le leggi, onde, poichè tutto è ingiustizia e oppressione, perchè mi s’impedirebbe di maledirlo?
Pand. Filippo di Francia, sotto pena di scomunica, abbandona la mano di questo eretico, e opprimilo con tutto il croccio della tua nazione, s’ei rifiuta di sottomettersi alla santa Sede.
Elin. Tu impallidisci, Filippo? Non ritirar la tua mano.
Cos. Pensa ad impedirglielo, demonio, perocchè se il re di Francia si pente e gli toglie la sua amicizia, l’inferno perde un’anima.
Arc. Re Filippo, attendi alle parole del cardinale.
Fil. E rivesti le tue perfide membra colla divisa ridicola degli stolti.
Arc. Scellerato, per ora mi è forza tacere, ma...
Fil. Nessuno vi darà mai nota d’imprudenza.
Gio. Filippo, che rispondi al porporato?
Cos. Che potrebbe ei rispondere fuorchè conformarsi ai suoi detti?
Luig. Pensate, padre, che dovete scegliere fra la terribile maledizione di Roma, o la perdita lieve dell’amicizia d’Inghilterra. Determinatevi pel meglio.
Bian. Che è la scomunica di Roma.
Cos. Oh Luigi, armati di fermezza: il diavolo qui ti tenta, simulando le forme di questa sposa novella.
Bian. Costanza non parla per coscienza, ma per bisogno.
Cos. Se concedi che il mio bisogno viva solo per la morte della mia coscienza, concedi necessariamente che la mia coscienza rivivrà per la morte del mio bisogno. Oh calpesta dunque il mio bisogno, e la mia coscienza si avviverà; solleva il mio bisogno, e la mia coscienza resterà abbattuta1.
Gio. Il re è commosso, e non risponde.
Cos. Ah! dividiti da lui, e parla come si debbe!
Arc. Fàllo, re Filippo, e non versare più in dubbi.
Fil. Rivesti colla divisa degli stolti la tua goffaggine.
Re Fil. Sono perplesso, nè so che dirmi.
Pand. Le tue incertezze si accresceranno di più, se ti attiri maledizione e interdetto!
Re Fil. Degno e venerabile padre, mettetevi al mio posto, e ditemi come vi comportereste. — Quella regal mano strinse dianzi la mia, e l’unione intera delle nostre due anime, afforzata dall’alleanza di un matrimonio, vieppiù si strinse per le cerimonie della religione, e per voti solenni e santi. Le ultime parole, che le nostre bocche proferirono, furono di fede, di pace, di affezione, di sincera amicizia fra i nostri due regni e le nostre due maestà; e prima di questo trattato, così recente, non abbiamo avuto che il tempo di lavare le nostre mani per congiungerle, essendo contaminate di strage, e tinte dei colori odiosi della vendetta. Ora, queste mani, che non sono terse che da alcune ore, che da sì poco tempo si vincolarono coi nodi della benevolenza, romperan elleno, dopo sì breve, la data fede? Non sarebbe uno schernire il Cielo, e insultarlo colla nostra incostanza, se ora, come volubili fanciulli, ci separassimo l’uno dall’altro rendendoci spergiuri; se calpestando il letto nuziale in cui sorride una felice pace, ci avventassimo l’uno contro l’altro da nemici furiosi, e cangiassimo la festa di una sincera alleanza inscena di carnificina e di sangue? Oh! santo prelato, oh! reverendo padre, così non avvenga! Vedete, pensate, parlate, imponeteci leggi meno severe, e ci troveremo lieti di compiacervi purchè restiamo amici.
Pand. Ogni altra legge è vana, ogni altra condizione è inutile, se a rottura non si viene con l’Inghilterra. All’armi!!! Siate l’eroe della nostra Chiesa, o la Chiesa madre nostra proferisca la sua maledizione, la maledizione di una madre sul suo figlio ribelle. Re di Francia, vi sono minori pericoli per te tenendo un serpe pel suo pungolo, un leone furioso pel suo mortale artiglio, un tigre affamato pei denti, che il tener in pace quella mano che è unita alla tua.
Re Fil. Posso disgiunger la mia mano, ma non la mia fede.
Pand. Così tu fai la fede nemica alla fede; ed eccitando una guerra civile nel tuo petto, opponi giuramento a giuramento, parola a parola. Oh comincia dall’adempiere verso il Cielo al primo voto che hai fatto al Cielo, di essere cioè il difensore della nostra Chiesa! Tutto ciò che hai giurato dipoi, l’hai giurato contro te stesso, e ti sei dispensato dal compierlo. Allorchè si è promesso di fare il male, male non è forse lo eseguire la propria promessa? E la virtù non istà essa nel non compier ciò che non si può compiere senza delitto? Quando l’uomo si diparte dal retto, forza è ch’ei vi rientri; ed è soltanto la religione che ribadisce i giuramenti. Ma tu hai giurato contro la religione che ha ricevuto i tuoi voti, e bestemmi volendo attestare una fede che non è più in te. Vuoi tu sapere quali giuramenti ti son permessi? Attienti al mio dettato, o trema delle orribili conseguenze che l’avvenire nasconde.
Arc. Guerra, aperta guerra!
Fil. Non tacerai mai? Non mai una divisa di stolto ti chiuderà la bocca?
Luig. Padre, all’armi!
Bian. Nel giorno delle tue nozze? Contro il sangue al quale il nostro matrimonio ti unisce? S’imbandirà al banchetto del nostro imeneo la carne di uomini sgozzati? I suoni acuti delle trombe, misti al fragor dei tamburi, fragore infernale, si udiranno in questo dì di pompa? Oh mio sposo, degnate ascoltarmi!... Ah oimè quanto nuovo è il nome di sposo nella mia bocca!... Per questo dolce nome che la mia lingua ha proferito per la prima volta, ve ne scongiuro in ginocchio, non prendete le armi contro mio zio.
Cos. Ed io, prostrata sui miei ginocchi induriti pel lungo genuflettere, te ne scongiuro, virtuoso Delfino, non mutare i decreti fissati nel Cielo istesso.
Bian. Conoscerò se mi ami. Chi più potrà presso di te della tua sposa?
Cos. L’onor suo, che sostiene la grandezza del principe che t’innalza. Oh il tuo onore, Luigi, il tuo onore!
Luig. Rimango sorpreso vedendo Vostra Maestà così insensibile, allorchè motivi tanto possenti v’incalzano.
Pand. Vibrerò l’anatema sulla sua testa.
Re Fil. A tanto non ne verrete. — Inglese, la rompo con te.
Cos. Oh ritorno virtuoso e nobile di una Maestà ecclissata!
Elin. Infame tradimento di francese incostanza!
Gio. Francia, in breve te ne pentirai.
Fil. Il tempo, vecchio becchino dalla barba grigia, che governa gli orologi, è egli governato dalla volontà di costui? Ebbene, Francia, ne avrai rammarico.
Bian. Il sole si cuopre di sangue: bel giorno, addio! Da qual parte debbo io pormi? con entrambe ho vincoli; in entrambe ho una mano; nè l’una contro l’altra può combattere senza ch’io ne divenga la vittima. Mio sposo, non posso chiedere al Cielo la tua vittoria! Mio zio, sono costretta di dimandargli la tua disfatta! Mio padre, io non so alzar voti pel tuo buon successo! Avola mia, io desiderare non posso che i tuoi si compino! Qual che si sia il vincitore, il suo buon esito cagiona la mia ruina, e prima ancora della decisione della sorte, la mia sventura è infallibile.
Luig. Signora, seguitemi: la vostra fortuna è congiunta alla mia.
Bian. Oimè! La mia fortuna e la mia felicità non possono prosperare con voi che a costo della mia vita.
Gio. Cugino, ite a radunare l’esercito. — (esce Filippo) Re di Francia, il mio furore è al colmo, e una volta acceso, nulla potrà estinguerlo, nulla tranne il sangue più caro e più prezioso della Francia.
Re Fil. Il fuoco della tua rabbia non consumerà che te stesso, e sarai ridotto in cenere, prima che il nostro sangue lo estingua: attendi a te: sei sull’orlo dell’abisso.
Gio. Non più di quegli che me lo manifesta. — All’armi! (escono)
SCENA II.
La stessa. — Pianura vicino ad Angers. — Allarme ed escursioni.
Entra il Bastardo colla testa dell’Arciduca d’Austria.
Fil. Sulla mia vita; questo giorno si fa tremendo; qualche aereo demonio svolazza al disopra di noi e spande malenzi sulla terra. — Testa dell’arciduca, rimanti qui, intantochè Filippo respira. (entrano il re Giovanni, Arturo e Uberto)
Gio. Uberto, bada a questo fanciullo. — Su, Filippo; torna al combattimento. Mia madre è assalita nella nostra tenda, e presa forse, temo.
Fil. Signore, l’ho ricomprata; Sua Altezza è salva: ma proseguiamo, mio principe: perocchè con lieve sforzo coroneremo le opere di questo bel giorno. (escono)
SCENA III.
La stessa. — Allarme e scorrerie. — Batte la ritirata.
Entrano il re Giovanni, Elinora, Arturo, il Bastardo, Uberto e Lordi.
Gio. Così sarà; Vostra Grazia (ad Elin.) si rimarrà con noi sotto sicura scorta. — Cugino, (ad Art.) non ti affliggere: la tua avola ti ama, e tuo zio sarà così buono per te, come lo fu tuo padre.
Art. Oh ciò farà morire mia madre di dolore!
Gio. Cugino, (al Bast.) partite per l’Inghilterra: affrettatevi, e prima del nostro arrivo pensate a bene spremere gli scrigni dei nostri ecclesiastici: fate veder la luce al loro oro prigioniero. È tempo che i loro tesori, cresciuti colla pace, divengano pasto dei nostri guerrieri famelici. Eseguite l’ufficio con tutto il rigore.
Fil. Una campana, un libro e una candela non mi faranno recedere, allorchè lo splendore dell’oro mi inviti ad ire innanzi. — Lascio Vostra Altezza. — Madonna, (ad Elin.) se mai divengo devoto, pregherò per la vostra bella salute, e così vi bacio le mani.
Elin. Addio, gentil cugino.
Gio. Cugino, addio. (esce il Bast.)
Elin. Avvicinati, piccolo parente; ascolta una parola. (prende Arturo a parte)
Gio. Fatti in qua, Uberto. Oh mio caro Uberto, io ti debbo molto; e in questa prigione di carne si nasconde un’anima che si propone di ricompensarti con usura del tuo zelo per me. Mio amico, l’affetto che ti porto vive volontario in questo cuore che ti ama, e qui si manterrà. — Dammi la tua mano. — Avrei qualcosa a dirti... Ma aspetterò momento più propizio. Pel Cielo, Uberto, arrossisco quasi nel farti noto quanto ti stimi e ti apprezzi.
Ub. Sono molto tenuto a Vostra Maestà.
Gio. Buon amico, non hai ancora alcuna ragione per rispondere così: ma un dì l’avrai. Scorrano le ore colla lentezza che vogliono, presto o tardi condurranno per me il momento di mostrarti il gran bene che nutro per te. — Avrei una cosa a dirti. — Ma lasciamola. — Il sole risplende in mezzo al cielo, e il lucido giorno, che rischiara per tutto i piaceri del mondo, è troppo pieno di gioia perchè tu possa ascoltarmi. — Se, vibrando nella sua bocca di bronzo la sua lingua di ferro, la squilla notturna gridasse sulla razza addormentata dei mortali: è un’ora; se questo luogo fosse pieno di sepolcri, e oppresso tu vivessi da atroci dolori; se il negro umore della tristezza avesse assopito nelle tue vene il sangue, che senza di lei circola rapidamente e fa brillare negli occhi dell’uomo i segni di una gioia insensata, sfigurandone i lineamenti colle convulsioni del riso e della vana follia (passioni che io odio, passioni incompatibili coi miei disegni); ovvero, se tu potessi vedermi senza occhi, intendermi senza orecchi, rispondermi senza voce, col pensiero solo e senza far udire il suono delle parole che mi fastidiscono; allora, malgrado l’occhio raggiante e vigile del dì, confiderei al tuo seno i mei segreti pensieri... Ma, ah nol voglio!... nondimeno ti amo; e, credo in fede, che tu pure ami me.
Ub. Abbastanza, per intraprendere ogni cosa che mi comandaste. Dovesse la morte conseguire la mia azione, pel Cielo! la compirei.
Gio. So che lo faresti. — Uberto, buon Uberto, mio caro Uberto, getta gli occhi su quel fanciullo; (indicando Art.) .....ti dirò chi ei sia, mio amico. È un serpe che si oppone al mio cammino; e per tutto dove porto i miei passi lo trovo innanzi a me. Mi intendi tu? Tu ne sei il custode.
Ub. E lo custodirò in guisa, che non offenderà più mai Vostra Maestà.
Gio. Morte.
Ub. Signore?
Gio. Un sepolcro.
Ub. Ei non vivrà.
Gio. Basta. Ora sto lieto. — Uberto, io ti amo; ma non ti dirò quello che farò per te: ricordati la promessa. — Signora, ricevete i miei addii: manderò una scorta per Vostra Altezza.
Elin. La mia benedizione ti accompagni.
Gio. Andiamo in Inghilterra, cugino. Uberto vi servirà con ogni cura. — A Calais; andiamo (escono)
SCENA IV.
La tenda del re di Francia.
Entrano il re Filippo, Luigi, Pandolfo e seguito.
Re Fil. Così una tempesta subitanea, che infierisce sui flutti, disperde una flotta intera, e manda qua e là le povere navi.
Pond. Racconsolatevi, riprendete fidanza, e tutto si compirà bene.
Re Fil. Come potrebbe accader ciò, dopo giornata tanto infelice? Non siam noi battuti? Non è perduto Angers? Arturo non è prigioniero? I nostri amici non sono stati uccisi? Il terribile nostro avversario non torna, in onta della Francia, vincitore in Inghilterra?
Luig. Quello ch’egli ha conquistato lo ha già fortificato; nè vi era esempio di tanta celerità e saggezza unite insieme, di tanto ordine e misura in così subita spedizione. Chi lesse mai nella storia avvenimento simile? Chi mai ne udì parlare?
Re Fil. Tollererei che si dessero agli Inglesi tante lodi, se altri esempi vi fossero di nostra vergogna. (entra Costanza) Mirate chi viene? Un’anima addolorata, racchiusa entro una tomba, e ritenuta contro i suoi desiderii immortali nella prigione di un corpo, estenuato dalla sventura. — Ve ne scongiuro, signora, venite con me.
Cos. Vedete ora, vedete ora gli effetti della vostra pace?
Re Fil. Pazienza, buona signora! Racconsolatevi, gentil Costanza.
Cos. No, non vuo’ nè consigli nè consolazioni. Non voglio che ciò che mette fine a tutti i consigli, la sola e vera consolazione degli sfortunati, la morte, la morte. Oh morte incantevole agli occhi miei! Tu, oggetto di odio e di terrore per l’uomo felice, esci dal seno dell’eterna notte! Sorgi dall’impuro tuo letto! Vieni, ed abbraccierò il tuo scheletro orribile! Affiggerò le mie gote contro le scarne tue ossa! Mi riempirò la bocca colla tua polvere mortale e diverrò uno spettro, oggetto d’orrore simile a te! Vieni, vibra su di me i tuoi più orrendi sguardi, e crederò che tu mi sorrida, e ti darò un bacio tenero, come il bacio di una sposa! Tu, amore degli sfortunati, vieni, vieni a me!
Re Fil. Amabile infelice, cessate!
Cos. No, no, non cesserò finchè mi resterà un soffio per gridare. Oh perchè la mia voce non è essa forte come quella del tuono! Allora nel mio dolore scuoterei il mondo, e sveglierei dal suo sonno quella morte crudele, che non ode la voce di una donna, e sdegna di accudire a’ suoi voti.
Pand. Signora, quello che dite è follia, e non dolore.
Cos. Colpa è in te lo smentirmi in tal guisa. No, io non sono insensata; questi capelli che divelgo sono miei; il mio nome è Costanza; ero sposa di Gefredo; il giovine Arturo è mio figlio, e l’ho perduto. No, io non sono stolta. Ma piacesse al Cielo che lo fossi! perocchè allora io non sentirei i miei mali. Oh se obbliare potessi, di quale sventura perderei la rimembranza! Insegnami tu una filosofia, che mi renda insensata, e ne avrai l’apoteosi. Perocchè non essendo insensata, ma solo profondamente sensibile al mio dolore, la mia facoltà di ragionare mi fornisce motivi e mezzi per liberarmi da tanti guai, e mi insegna di trafiggermi o di strozzarmi. Se fossi insensata, dimenticherei mio figlio; o nella mia demenza non vedrei in lui che un fanciullo di cenci. Ah stolta non sono! e troppo bene sento le varie punture di ogni calamità.
Re Fil. Rannodate le vostre treccie: oh quanto amore si esala da quel tesoro di capelli! Se una sola goccia argentina, una lagrima sola fosse caduta su di essi, dieci mila capelli mercè lei riuniti, ristretti si sarebbero in comunanza di dolore, come fidi, inseparabili e veri amanti, che dalla sventura han tratto argomento di perpetua fedeltà.
Cos. Andiamo in Inghilterra, se v’è grato.
Re Fil. Rannodate i vostri capelli.
Cos. Sì, questo voglio; ma perchè lo voglio, lo potrò io? Io me li sono strappati, gridando: oh perchè non poss’io riscattare mio figlio, come dar posso a questi capelli la libertà! Ed ora io ne invidio lo stato, e vuo’ rimetterli in ceppi, poichè il mio povero figlio è prigioniero. — Cardinale, ti ho udito dire che rivedremo e riconosceremo i nostri amici in Cielo: se questo è vero, rivedrò mio figlio; poichè dopo la nascita di Caino, primo fanciullo, infino a quella di coloro che ora cominciano a vagire, non mai fu generata più graziosa creatura. Ma il dolore, come verme roditore, struggerà quel tenero germoglio e fugherà la nativa bellezza delle sue gote, rendendolo scarno e sparuto, come un moribondo2; se perciò anche risuscita, e mi è dato il rivederlo alla corte del Cielo, io nol riconoscerò; nè mai più, mai più rivedrò il mio vago Arturo.
Pand. Voi persistete nel vostro dolore troppo biasimevolmente.
Cos. Che dice costui, che non ebbe mai figli!
Re Fil. Voi siete così vaga del vostro dolore, come lo foste del vostro fanciullo.
Cos. Sì, il mio dolore mi tien vece di figlio; esso riempie tutti i luoghi in cui solevo vedere quel fanciullo; mi segue come lui, me lo mostra co’ suoi sguardi vezzosi, mi fa udire i suoni della tua voce, e ripetendomi le sue parole, mi ricorda tutte le grazie di cui la natura lo aveva abbellito. Ogni volta che mi si offrono i suoi vestimenti, esso me li riveste colla larva del fanciullo mio, ond’io credo vederlo ancora. Ragione ho dunque per accarezzare il mio dolore. — Addio; se aveste fatta l’istessa perdita che ho fatta io, saprei consolarvene meglio, che voi non ne consoliate me. — Non vuo’ più conservare questi ornamenti sulla mia testa (si strappa il diadema) allorchè la confusione è nella mia anima. — Oh signore, il mio figlio, il mio Arturo, il mio leggiadro figlio! La mia vita, la mia gioia, il mio cibo, il mio intero mondo! Il conforto della mia vedovanza, la sola consolazione dei miei affanni! (esce)
Re Fil. Temo qualche accesso, e vuo’ seguirla. (esce)
Luig. Nulla v’ha più nel mondo che possa piacermi e rendermi lieto. La vita è incresciosa per me, come un insipido racconto di cui s’infastidisce l’orecchio di un uomo che si addome. Il sentimento amaro della vergogna ha talmente indisposto i miei sensi contro i piaceri di questa terra, che non vi trovo più che obbrobrio e desolazione.
Pand. Prima che una malattia sia guarita, nell’istante stesso in cui la salute ritorna, è allora che la crise è più violenta, e il male che stava per abbandonarci ci si fa sentire più aspro. Che perdeste voi dunque, perdendo la battaglia?
Luig. La gloria, il piacere e la felicità di tutta la mia vita.
Pand. Sì, se guadagnata l’aveste. Ma quando la fortuna vuol colmare de’ suoi doni un mortale, essa comincia dall’atterrirlo con uno dei suoi sguardi più minaccevoli. È il re Giovanni che ha fatta una perdita immensa, mentre si crede glorioso di una ricca conquista. — Fremo pensandovi. — Siete forse dolente perchè Arturo è prigioniero?
Luig. Tanto dolente, quanto Giovanni è lieto d’averlo in poter suo.
Pand. Il vostro senno è giovine, come la vostra età. Ascoltatemi, e vi parlerò con ispirito profetico: il solo soffio della mia bocca abbatterà tutti gli ostacoli, e vi appianerà la via, che deve guidarvi a un trono. Uditemi: Giovanni si è impossessato di Arturo: finchè il sangue scorrerà per le vene di quel fanciullo, è impossibile che l’usurpatore pericolante respiri in pace. Uno scettro rapito con illegittima mano è sempre posseduto come fu acquistato, in mezzo alle commozioni e ai terrori; ed egli che si sente sopra lubrica base s’atterrà senza dubbio per mantenervisi a tutti i mezzi più vili. Ora, perchè Giovanni possa sostenersi, è necessario che Arturo cada: avvenga dunque ciò, perchè è impossibile che non avvenisse.
Luig. Ma in che mi avvantaggerò io per la caduta del giovine Arturo?
Pand. Voi potete in nome di Bianca, vostra sposa, pretendere a tutto ciò che Arturo reclamava.
Luig. E perder tutto e in un la vita, come fe’ Arturo.
Pand. Come giovine e vergine siete in mezzo a questo vecchio mondo! Giovanni s’adopera per la vostra fortuna, e i tempi vi soccorrono, e cospirano con voi. Ei vorrà assicurarsi il suo potere versando sangue legittimo, e non troverà che una sicurezza dubbia e crudele. L’odioso delitto raffredderà il cuore dei suoi sudditi e agghiaccierà il loro zelo; essi afferreranno con giubilo la prima opportunità per metter fine alla sua tirannia, nè vi saranno giorni tempestosi, naturali esalazioni per l’aere, avvenimenti comuni che mutati non vengano in segni forieri, in presagi sinistri, in voci di Cielo che annunzino chiaramente la sua prossima vendetta sul tiranno.
Luig. Può essere ch’ei non attenti alla vita di Arturo, e si stia pago nel tenerlo in carcere.
Pand. Oh, signore, allorchè saprà che voi vi avvicinate, se Arturo non è morto, morrà a tal novella, e allora Giovanni vedrà il suo popolo ribellato seguire le vostre insegna. Le sue mani tinte di sangue daranno valevoli motivi alla defezione, e parmi già assistere a quei momenti di tumulto e di terrore. Qual’altra occasione più favorevole potrebbe darsi per voi? Il bastardo Faulconbridge sta ora in Inghilterra, perseguitando la Chiesa e sprezzando i dettami della carità. Se colà fossero dodici Francesi armati, sarebbero in breve seguiti da dieci mila Inglesi, come si vede un piccolo globo di neve ingrossarsi, voltandosi, e divenire una mole enorme. — Nobile Delfino, venite con me dal re. È immenso il partito che si può trar dal malcontento di quegli isolani, oggi che i loro cuori sono infelloniti e sdegnati. Partite per l’Inghilterra: io infiammerò vostro padre.
Luig. I grandi motivi producono le grandi opere. Andiamocene dal re, che dalla vostra sentenza non dissentirà mai. (escono)