Il Re Enrico VIII/Atto primo
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ATTO PRIMO
SCENA I
Un’anticamera del palazzo.
Entra il duca di Norfolk da una parte; dall'altra il duca di Buckingham e lord Abergavenny.
Buck. Buon giorno, e ben trovato. Come viveste nei giorni trascorsi dopo il nostro ultimo incontro in Francia?
Nor. Vi ringrazio, milord; sempre pieno di salute, e sempre caldo ammiratore di quello ch’io là vidi.
Buck. Una sciagurata febbre ben intempestiva mi tenne prigioniero nella mia stanza il giorno che quei due soli di gloria, quei due luminari del mondo s’incontrarono nella valle di Ardres1.
Nor. Fra Guines e Ardres; io ero presente: e li vidi salutarsi da cavallo; poscia scenderne, e abbracciarsi strettamente come fratelli, talchè si sarebbe detto che i due re si fossero in un solo convertiti; e se ciò fosse stato vero, quali sarebbero le quattro teste coronate che, riunite in una, avessero potuto controbilanciare un tal monarca?
Buck. Io durante quel tempo dovevo starmene in letto!
Nor. Con ciò perdeste lo spettacolo più glorioso di questo mondo. Si può ben dire che la pompa dei secoli trascorsi doppiasse nel colloquio di quei due sovrani. Quel giorno riassunse tutte le glorie del passato, ed era ora il Francese che brillava, coperto d’oro come gli Dei pagani, ora l’Inglese che poneva in mostra tutte le ricchezze dell’India. Ogni uomo era fulgido e abbagliante come un nume; i paggi lucevano quali cherubini; le delicate donne piegavano sotto il peso delle gemme, e per fatica incolorivansi di un roseo celeste. La mascherata, che vi faceva mandar un grido d’ammirazione e dire è incomparabile, un istante dopo veniva ricordata con compatimento. I due re si emulavano e si sorpassavano ad ogni istante; quando l’uno appariva, l’altro era dimenticato. Il presente coglieva sempre tutti gli elogi, e quando entrambi facevano mostra di sè, sembrava non se ne vedesse che uno; il più sagace conoscitore ridotto al silenzio non avrebbe osato dare ad alcuno la preferenza. Dacchè quei due soli (perocchè è così che vengono appellati) ebbero fatto aprire dai loro araldi la via dei tornei ai cuori amanti della gloria, avvennero prodigi che soverchiano tutti gli sforzi del pensiero, talchè quella storia: favolosa, che i secoli passati tramandarono del Sassone Bevis, parve allora possibile, e fu da molti creduta.
Buck. Oh! voi andate troppo lungi.
Nor. No, come è vero che mi è caro l’onore, e che fo professione d’essere schietto e leale. Il più abile oratore che fosse stata testimonio di quella festa non potrebbe descriverla. Essa perderebbe nel suo racconto il colore e la vita che l’animava. Tutto vi era regale. Niuna confusione, niun disordine ne turbò l’armonia; la calma regnava dapertutto, e faceva vedere ogni oggetto nel suo vero punto di luce: tutte le parti furono ammirabilmente distribuite, e perfettamente compiute.
Buck. Sapreste dirmi chi ordinò quella bella festa?
Nor. Un uomo che non è certo novizio di tali cose.
Buck. Chi dunque, ve ne prego, milord?
Nor. Tutto fu apparecchiato dal reverendo cardinale di York.
Buck. Il demonio se lo porti! Non v’è opera in cui egli non insinui le sue dita ambiziose. Che ha egli a fare in queste mondane vanità? Stupisco che il suo adipe materiale sia giunto a intercettare i raggi del sole benefico, e a privarne la terra.
Nor. Nondimeno, milord, il cardinale ha in sè quanto occorre per attender bene alle bisogne del suo ufficio. Non è sopra gli avoli ch’ei s’appoggia per innalzarsi, il di cui nome apre il cammino delle grandezze ai discendenti: non si narrano di lui grandi servigi! resi alla corona; ei non è alleato ai nostri potenti del regno; no; ma come l’insetto che fila sui nostri muri, e trae dal suo seno la tela che ordisce, egli ne mostra che ci avanza e che non s’innalza che col merito suo. É un dono particolare del Cielo che gli ha fruttato la prima carica presso il re.
Aber. Non so quali doni il Cielo ha potuto fargli; lasciò ad occhi meglio penetranti dei miei l’onore d’intravederli; ma quello ch’io posso osservare è che il suo orgoglio balena da tutte le parti, e si mostra in tutta la sua persona. Or da che gli deriva esso, se non dall’inferno? il demonio ne è avaro, o ne è stato troppo prodigo, e l’ha ceduto tutto da gran tempo, talchè il cardinale è stato costretto a ricreare un nuovo inferno entro di sè.
Buck. E perchè in quel colloquio coi Francesi s’è egli assunto, senza neppur consultare il re, di nominar quelli che dovevano accompagnare Sua Maestà? Solo egli ha fatta la elezione di tutta la nobiltà a ciò deputata, e questo coll’intento di vessarne la maggior parte, imponendo per un lieve onore un peso ruinoso; nè, da lui chiamato, vi è modo di sottrarsi ai suoi ordini.
Aber. Fra i miei parenti ne conosco almeno tre, i cui negozi tendono a manifesta mina per le spese a cui li ha obbligati questa festa, e che mai più torneranno alla loro prima agiatezza.
Buck. Oh! ve n’è una folla che più non si rialzeranno per esserci imposti sul dorso tutti i loro dominii, onde mostrarsi in quella circostanza con onore. E a che ci è valso quella stoltissima vanità, se non a procacciarci un abboccamento, di cui ben misero è il frutto?
Nor. Per me credo, e questa idea mi addolora, che la pace conchiusa fra la Francia e noi non valga le spese che ci ha causate.
Buck. Perciò ognuno, dopo la tempesta spaventosa che seguì quel dì fatale, si sentì ispirato d’entusiasmo profetico, e tutte le bocche, aperte come per forza soprannaturale, predissero che quella tempesta era un presagio di vicina guerra.
Nor. Il vaticinio sta per compiersi; avvegnachè la Francia ha già fatto breccia al trattato, arrestando tutti i nostri vascelli mercantili a Bordò.
Aber. È egli per ciò che l’ambasciator francese non può ottenere udienza?
Nor. Si, senza dubbio.
Aber. Bella pace in vero! E a qual prezzo l’abbiamo noi comprata!
Buck. Ecco nondimeno l’opera del nostro gran cardinale.
Nor. Col beneplacito di Vostra Grazia, ho a dirvi che vien notata in corte l’avversione che regna fra noi e Sua Eminenza. Vi do un consigiio, e vi prego di accettarlo come procedente da un cuore a cui l’onor vostro e la vostra sicurezza sono infinitamente cari: è di ben pesare la malvagità e il potere di quel porporato, e di pensar poscia che ciò che il suo profondo odio vorrà eseguire, non difetterà di ministri per compierlo. Voi conoscete il suo carattere quanto è vendicativo; ed io so che la sua spada è ben aguzza, e che arriva lungi, e che anche dove non arriva ei la scaglia. Fate tesoro di questo mio precetto, e lo troverete salutare. — Ma ecco, ecco lo scoglio da cui vi ammonisco di star lontano.
(entra il cardinal Wolsey: una borsa è recata dinanzi a lui; alcune guardie e due segretari con un fascio di carte lo ac- compagnano. Passando egli ferma l’occhio su Buckingham, e Buckingham sopra di lui, entrambi con molto sdegno) |
Wol. L’intendente del daca di Baddngham? Ah! dov'è la deposizione?
1° Segr. Eccola, milord.
Wol. È egli pronto a sostenerla in persona?
1° Segr. Sì, così piaccia a Vostra Grazia.
Wol. Bene, ne sapremo di più, e Buckingham diverrà più umile ne’ suoi sguardi. (esce col suo seguito)
Buck. Quel beccaio2 ha i denti avvelenati, ed io non potrei abbatterlo: meglio è quindi nol destare. I libri e la vile scienza di un cherico son anteposti al sangue dei nobili.
Nor. Voi siete sdegnato? Pregate il Cielo che vi infonda moderazione; è il solo farmaco al vostro male.
Buck. Ho letto ne’ suoi occhi i suoi neri divisamenti; il suo sguardo cadde sopra di me, come sopra l’oggetto più degno del suo disprezzo: ora forse le frodi sue mi avrentano qualche perfido colpo. È andato dal re, vo’ seguirlo, e confondere la sua audacia colla mia presenza.
Nor. Aspettate, milord, aspettate che la collera permetta alla vostra ragione di pensare a quello che state per fare. Per giungere alla cima di una montagna giova salir dolcemente. La collera somiglia a un corsiero ardente che, se si lascia alla sua foga, rimane in breve spossato. Non v’è in tutta Inghilterra uomo che possa dare migliori consigli di voi: siate dunque ora per voi stesse quello che sareste per un vostro amico.
Buck. Vo’ andare a trovare il re, e dichiarargli da lord tutta l’insolenza di quel plebeo d’Ipswick; o pubblicar dapertutto che non si fa più alcuna distinzione fra il grado degli uomini.
Nor. Lasciatevi guidare da me. Non correte ad accendere pel vostro nemico una fornace, che finirà per abbruciarvi. Un eccesso di sollecitudine può trasportarci al di là dell’intento e farci fallire la meta. Non sapete che il fuoco che pone in ebullizione il liquore di un vaso, sebbene sembri aumentarne il volume, lo spande e lo consuma? Seguite il mio consiglio, ve lo ripeto; non v’è uomo in Inghilterra più atto a ben condursi di voi, se volete permettere alla vostra ragione d’estinguere, o almeno di calmare il fuoco della passione.
Buck. Vi ringrazio, e aderirò al vostro suggerimento; ma quell’uomo tronfio d’orgoglio (e non è il fele dell’odio che me lo fa accusare, ma lo sdegno della virtù), da prove chiare come lo sono le fonti del mese di luglio, allorchè discemer puossi in fondo ad esse ogni grano di sabbia, è, lo so, un traditore.
Nor. Non dite traditore.
Buck. Lo dirò anche al re, e lo sosterrò fermo come una rupe. Ascoltatemi: quell’astuta volpe ammantata di religione, o se meglio volete quel lupo, o tutti due insieme avvegnachè egli è feroce al par che subdolo, inchinato al male come esperto a farlo; e il suo cuore e il suo ufficio si corrompono l’uno coll’altro), non ha voluto che dispiegare il suo fasto e la sua vanità agli occhi della Francia, come li dispiega qui in questo regno, suggerendo al re nostro signore, per stringere quest’ultimo trattato tanto dispendioso e fragile, l’idea di quel colloquio che ci è costato tanti tesori.
Nor. Oh! lo confesso, è ciò che è accaduto.
Buck. Permettete, ve ne prego; degnatevi di ascoltarmi. Quell’artifidoso cardinale ha dettato gli articoli del trattato come gli son piaciuti, e ratificati sono stati tosto ch’egli ha detto: sia così. Ora quel trattato giova allo Stato come una gruccia a un morto. Ma è il nostro conte cardinale che l’ha fatto, e tutto va a dovere; è l’opera del gran Wolsey, che mai non può errare! — Ecco ora le conseguenze ch’io reputo infallibili del tradimento: l’imperatore Carlo, ch’è giunto qui sotto sembiante di visitare la regina sua zia, è venuto infatti per abboccarsi con Wolsey, pavido come egli era che quella convenzione fra la Francia e l’Inghilterra non istabilisse fra queste due potenze un’amicizia che avrebbe potuto essergli nociva. Negoziando segretamente col nostro cardinale, e pagandolo a larga mano, egli ha indotto il re col suo mezzo a rompere la pace. Mestieri è che il re sappia, come lo saprà dalla mia bocca, che è così che il cardinale vende e compra il suo onore secondo gli giova.
Nor. Son dolente di udire tali cose, e desidererei che fosse un po’ fallace l’opinione che nutrite di Wolsey.
Buck. No, non m’inganno, ve ne assicuro, e che tale sia quale lo dipingo, la prova lo mostrerà. (entra Brandon preceduto da un sergente con due o tre guardie)
Bran. Sergente, fate il vostro dovere.
Ser. In nome del re nostro sovrano vi arresto, milord duca di Buckingham, conte di Hereford, di Stafford e di Northampton, per delitto di alto tradimento.
Buck. Voi lo vedete, milord, eccomi avviluppato nelle sue reti; morirò vittima de’ suoi intrighi e delle sue odiose frodi.
Bran. Mi contrista il veder togliervi la libertà; ma è volere di Sua Altezza e convien che andiate alla Torre.
Buck. A nulla mi varrà il voler difendere la mia innocenza annerite saranno state fino le mie azioni più pure. La volontà del Cielo sia fatta in tutto! Obbedisco... oh! mio caro lord d’Abergavenny, addio.
'Bran. No, ei deve venir con voi. È volere del re che voi pure andiate alla Torre (ad Aber.) e là restiate finchè note vi siano le sue intenzioni.
Aber. Come il duca disse, la volontà del Cielo sia fatta; così io mi sottometto a quella di Sua Maestà.
Bran. Ecco un ordine del re per arrestare anche lord Montagute, il confessore del duca Giovanni della Corte, Gilberto Fede, suo cancelliere...
Buck. Basta, basta; questi saranno i membri della trama; nè altri ve ne saranno, spero.
Bran. V’è anche un certosino.
Buck. Ah! forse Nicola Hopkins?
Bran. Appunto.
Buck. Il mio intendente è un traditore; il cardinale lo avrà corrotto; la mia vita è finita di già; io sono l’ombra del povero Buckingham, di cui una nube tenebrosa viene ad eclissare i raggi. — Milord, addio. {{A destra|(escono)
SCENA II.
Sala del Consiglio.
Squillo di corni; entrano il re Enrico, il cardinal Wolsey, i lórdi del Consiglio, sir Tommaso Lovell, ufflziali e seguito. Il re s’avanza appoggiandosi all’omero del cardinale.
Enr. Da voi riconosco la vita, e vi ringrazio di tanto servigio: io stava per essere vittima di una cospirazione che prevenuta voi avete. Sia chiamato innanzi a noi quel gentiluomo del duca di Buckingham; voglio udirlo confermare le sue dichiarazioni, e ripetere con tutti i suoi particolari il tradimento del suo signore. (Il re va ad assidersi sul trono. I lôrdi del Consiglio prendono i loro varii posti. Il cardinale si colloca a’ piedi del re dal lato destro. Rumore al di dentro, e grida di: largo alla regina. Entra Caterina preceduta dai duchi di Norfolk e di Suffolk, e genuflette. Il re sorge, la solleva, l'abbraccia e la fa sedere accanto a lui)
Cat. No, mio sovrano; convien ch’io resti più a lungo ai vostri piedi: sono una supplicante.
Enr. Alzatevi e state accanto a noi; non ci chiedete grazie, perocchè avete di già la metà del nostro potere, e l’altra metà vi è concessa prima che la dimandiate. Dichiarate qual è il vostro volere, ed esso avrà effetto.
Cat. Ne sono riconoscente a Vostra Maestà. La mia preghiera è che vi degniate di amarvi, e non poniate in oblio l’onor vostro e la dignità del vostro trono.
Enr. Del mio trono, signora!... Continuate.
Cat. Mi fu detto, e non da una o due persone, ma da molte, e della più cospicua nobiltà, che i vostri sudditi sono eccessiramente oppressi; che furono mandati loro dalla Corte certi ordini che han resi dubbii i loro sentimenti di fedeltà; e sebbene nel loro cruccio, mio degno lord cardinale, sia contro di voi che si son diffusi e con invettive amare, siccome verso l’autore di quelle sevizie, nondimeno il re nostro augusto signore (di cui il Cielo mantenga il nome immacolato!) il re medesimo non isfugge alle lagnanze irriverenti dello sdegno loro, che forte è tanto da indurli quasi a manifesta rivolta.
Nor. Rivolta è anzi. Perocchè schiacciati da quelle taglie tutti i fabbricanti, trovandosi inetti a mantenere gli operai de’ loro telonii, gli han rimandati, nè potendo questi guadagnarsi altrimenti il pane, spinti dalla fame e dalla disperazione si sono ribellati; e il pericolo s’è posto al servizio dei malcontenti.
Enr. Taglie! quali taglie? Milord cardinale, voi che dividete con noi i loro sdegni, sapete di quali taglie si parli?
Wol. Risponderò a Vostra Maestà che non le conosco che per la parte ch’io ho ne’ negozìi dello Stato: non sono che il primo nella riga de’ miei colleghi, e tutto il consiglio vi partecipa al pari di me.
Cat. No, milord, voi non ne sapete più degli altri, ma siete voi il primo motore di quelle idee che agli altri vengono poscia esposte. Or tali idee non sono benefiche. Le taglie di cui il mio sovrano vorrebb’essere istrutto fanno fremere, e addossandosene il peso intero l’uomo soccomberebbe. Il popolo dice che furono immaginate e proposte da voi: e se ciò non è, convien credere che siate ben aspramente osteggiato.
Enr. Ma quali sono queste taglie? Ditecelo alla fine.
Cat. Io vo incontro forse ad irritare la vostra pazienza: ma la promessa del vostro perdono m’incoraggisce a ciò. Il cruccio del popolo procede da certa imposizione che gli toglie il sesto delle sue sostanze, e che si vuole esatta tosto, adducendone a pretesto le guerre di Francia. Tale balzello infiamma tutti di collera e fa dimenticare ogni rispetto e sommissione. Mille maledizioni escono da bocche che non solevano profferire che voti e preghiere; e quelli che sono ancora fedeli trascinati vengono a forza dallo sdegno altrui. Vorrei che Vostra Maestà concedesse a ciò tutta la sua attenzione, perocchè non tì sono negozii di Stato più urgenti.
Enr. Sulla vita miai questo è contro il piacer nostro.
Wol. Per me non vi ho avuta altra parte che di dare il mio voto come tutti lo diedero; e tale imposizione fu sancita da quanti membri ha il consiglio. S’io sono offeso da lingue ignoranti che, senza conoscere nè l’estensione de’ miei poteri, nè il mio carattere, la mia persona, si erigono a giudici delle opere mie; mi sia concesso di osservare che questo è il destino della mia carica, e che tali vili e ignobili ostacoli non debbono arrestare la virtà. Noi non possiamo distoglierci dal nostro dovere per tema delle censure de’ malvagi, che sempre, come pesce divoratore, seguono i solchi del vascello, e non ne traggono altro bene che di aver desiderato invano il suo naufragio. Spesso le nostre migliori azioni cessano d’appartenerci, e ci son rapite ora dalla malignità, ora dall’ignoranza; e più spesso ancora le opere meno buone, trovandosi più soggette allo stolido volgo, vengono altamente esaltate come sublimi cose. Che se noi ce ne restiamo oziosi per tema degli scherni o delle censure altrui, riputati saremo vani simulacri di Stato, senza vita e senza movimento.
Enr. Tutto ciò ch’è fatto pel bene, con discrezione e prudenza ci sottrae ad ogni timore; ma le innovazioni che non hanno esempi precedenti son sempre da paventarsi negli effetti. Avete qualche esempio anteriore d’una tal tassa? Credo di no. Noi non dobbiam dunque rompere i vincoli delle leggi che legano a noi i nostri soggetti per rannodarli poscia a senno nostro. Il sesto del reddito? È un balzello da far tremare! Noi prendiamo da ogni albero i rami, la scorza e una parte della cima, e sebbene lo lasciamo colla radice, l’aria verrà a suggerne tutto l’umore. Mandate in ogni contea, dove questa tassa è stata imposta, lettere che accordino per parte nostra un perdono assoluto a chiunque non ha voluto assoggettarvisi. Vi prego di pensarci; vi commetto espressamente tale opera.
Wol. Una parola con voi (al suo segretario). Scrivete lettere a tutte le provincie, annunzianti la grazia e il perdono del re. Le comuni nutrono sospetti sul conto mio: fate correr voce che è a mia intercessione che fu revocata la taglia e bandito il perdono. Vi darò fra poco altre istruzioni.(il segr. esce)
(entra l’Intendente del duca di Buckingham)
Cat. Mi duole che il nobile duca sia incorso nella vostra disgrazia.
Enr. Molti altri ne sono afflitti. Era un nomo d’una rara eloquenza. Niuno deve alla natura più di lui, e fornito fu di una educazione così estesa e così ricca ch’ei potrebbe istruire i più dotti maestri, senza abbisognar mai del soccorso di lumi stranieri! Mirate nondimeno che allorchè simili doni non si trovano uniti a un cuore onesto e l’anima è corrotta, mirate come si trasformano in vizii molte volte più orrendi, che belli prima essi medesimi non fossero. Quel mortale così aggraziato che si riputava un prodigio della specie umana, e che noi ascoltavamo lietissimi, pensando che un suo discorso d’un’ora non fosse durato che un minuto; quell’uomo ha volto al peggio le grazie sue naturali, ed è divenuto più nero e spaventoso, che se apparso fosse al mondo tinto dei colori dell’inferno. — Assidetevi accanto a noi, e udirete costui, intimo suo, che vi narrerà cose da farvi gemere e inorridire. — Ordinategli di ripetere l’odioso racconto che già ne ha fatto; non potremmo mai troppo intenderlo, e indurirci di troppo contro la pietà.
Wol. Avanzatevi (all’Inten.) e raccontate liberamente e da suddito coraggioso e fedele tuttociò che voi sapete intorno ai disegni del duca di Buckingham.
Enr. Parlate liberamente.
Int. Anzitutto ei soleva dire ogni giorno: che se il re fosse morto senza posterità egli avrebbe tanto fatto che si sarebbe appropriato lo scettro. L’ho udito pronunciar spesso queste parole al suo genero lord Abergavenny, a cui affermava con sacramento e minaccie che vendicato si sarebbe del cardinale.
Wol. Supplico Vostra Maestà di esaminare questa parte del suo funesto divisamento. Non essendo egli in favore appo voi quanto desidera, contro di voi nutre il suo massimo odio che poscia distende anche sui vostrì amici.
Cat. Dotto cardinale, siate pio nelle vostre interpretazioni.
Enr. Parla: e sopra che appoggiava egli i suoi titoli alla corona nell’evento di nostra morte? Su di ciò l’hai mai udito parlare?
Int. A questi pensieri era stato indotto da una vana profezia di Niccola Hopkins.
Enr. Chi è Hopkins?
Int. Un frate certosino suo confessore, sire, che infiammava ad ogni momento la sua anima con isperanze di regno.
Enr. Come sai ciò?
Int. Qualche tempo prima che Vostra Altezza partisse per la Francia, il duca, sendo alla Rosa, nella parrocchia di san Lorenzo, Poultney mi dimandò quel che dicevano gli abitanti di Londra intorno a quel viaggio. Gli risposi che si temeva che i Francesi non tradissero il troppo fidevole nostro re. Tosto il duca soggiunse che egli pure avea paura che l’avvenimento non consuonasse con certo discorso pronunziato da un santo religioso che, mi diss’egli, ha spesso mandato a pregarmi di permettere a Giovanni della Corte, mio cappellano, di scegliere un’ora dicevole per andarlo ad ascoltare sopra un soggetto importante, e quindi gli aveva fatto giurare, col suggello della confessione, di non mai rivelare quello che aveva detto ad alcuno, tranne a lui, il qual detto restringevasi a ciò, che nè il re nè i suoi eredi avrebbero mai prosperato, e che il duca governato avrebbe l’Inghilterra.
Cat. S’io ben vi conosco, voi eravate l’intendente del duca, e perduto avete il vostro ufficio per le lagnanze de’ suoi vassalli. Guardate di non accusare per odio un nobile personaggio, e di non porvi a rischio di perdere la vostr’anima immortale, più nobile ancora: guardatevi da ciò, ve ne scongiuro.
Enr. Lasciatelo parlare: continuate.
Int. Sull’anima mia! non dirò che il vero. Io dunque feci notare allora al duca che il monaco poteva essere ingannato dalle illusioni del demonio: e che pericoloso era per lui il fermarsi a meditare su quel soggetto; che l’abito di intrattenersi di quelle idee lo guiderebbe insensibilmente a concepire qualche disegno funesto, che poi vorrebbe porre ad esecuzione. Non me ne può venire alcun male, egli mi rispondeva, e se il re muore, le teste del cardinale e di Lovell verran staccate dai busti.
Enr. Oh! tanto perverso? sapete altro di lui?
Int. Sì, milord.
Enr. Dite.
Int. Essendo a Greenwich allorchè Vostra Maestà garrì il duca a cagione di sir Guglielmo Bloomer.....
Enr. Rammento quel tempo. Era un uomo che voleva servirmi, e che il duca ritenne per sè. — Ma va oltre; che avvenne?
Int. Se, diss’egli, fossi stato arrestato per ciò, e mandato alla Torre, credo che avrei compita la parte che mio padre intendeva di porre ad effetto contro l’usurpatore Riccardo. Mio padre essendo a Salisbury gli fece chiedere il permesso di andarsi a presentare a lui; se Riccardo l’avesse accordato, prima che parole d’intercessione si sarebbe sentito immergere un pugnale nel cuore.
Enr. Vil traditore!
Wol. Ora, signora, può Sua Altezza viver sicura se quell’uomo sta in libertà?
Cat. Dio ci protegga tutti!
Enr. Parvemi volesse dire qualch’altra cosa?
Int. Dopo quelle parole ei pose una mano sull’elsa e l’altra contro il cuore, e sollevando gli occhi profferì un orribile giuramento, di cui il tenore era: che se lo si bistrattava egli avrebbe superato suo padre tanto quanto l’esecuzione supera un disegno non riempito.
Enr. Sì, val dire, che il suo divisamente era di assassinarci con un colpo di stile. Egli è reo: si faccia tosto il suo processo. Se può trovar grazia davanti alla legge, sia; ma se no, non ne aspetti alcuna da noi. Pel giorno e la notte! è un solenne traditore.(escono)
SCENA III.
Una stanza nel palazzo.
Entrano il lord Ciambellano, e lord Sands.
Ciam. È possibile che i prestigi di Francia avviluppino tanto i nostri viaggiatori da rimandarceli trasformati in sì bizzarri personaggi?
Sands. Le mode nuove, toccassero al colmo del ridicolo, e fossero le più indegne dell’uomo, sono sempre seguite.
Ciam. Per quanto posso vedere, tutto il bene che i nostri Inglesi hanno ottenuto dalla loro ultima corsa si riduce a trasfigurarsi imitando gli abitanti del bel reame.
Sands. Essi han tutti gambe di forme nuove, e zoppicano: qualcuno che non li avesse mai visti camminar prima, crederebbe che la gotta li avesse tutti assaliti.
Ciam. Per la morte! milord, i loro abiti ancora son di foggia affatto strana: non ha più vestigio di cristianità, (entra sir Tommaso Lovell) Ebbene? quali nuove, sir Tommaso?
Lov. In fede, milord, non so altro che il nuovo editto che è stato affisso alle porte del palazzo.
Ciam. A che intende?
Lov. Alla riforma de’ nostri leggiadri viaggiatori che riempion la Corte di querele, di gerghi strani e di pazze mode.
Ciam. Oh! ne son lieto, e vorrei ora pregare i nostri Monsieurs di degnarsi di credere che un cortigiano inglese può avere spirito e senno anche senza aver mai mirato il Louvre di Parigi.
Lov. Convien si decidano (perocchè tali sono le disposizioni dell’editto) o ad abbandonare que’ residui di pazzia, quei pennacchi che hanno acquistati in Francia, con tante altre bizzarre invenzioni, inezie eguali ai loro combattimenti, ai loro fuochi di artifizio, e a tutta la loro bella scienza straniera, di cui fanno pompa dinanzi ad uomini che valgon meglio di loro, e abiurino la fede che mostrano a tutte quelle frasche, per tornare a comportarsi da valenti e onesti giovani, o che facciano le bagaglie, e vadano a raggiungere i loro antichi compagni di gioia, coi quali potranno per privilegio terminare gli ultimi avanzi della loro follia e del loro libertinaggio, facendosi beffare a loro voglia.
Sands. È tempo di amministrare il rimedio, perocchè la malattia è divenuta contagiosa.
Ciam. Qual perdita faranno le nostre dame in mode e vanità!
Lov. Sì, certamente sarà un gran guaio per loro: quegli astuti libertini hanno imaginato un eccellente spediente per trionfare più presto delle nostre belle; una canzone francese, e un violino! non v’è nulla di eguale.
Sands. All’inferno le loro canzoni e i loro violini! Son ben lieto che sloggino; perocchè certo non v’è più alcuna speranza di convertirli. Alla fine un onesto lord di campagna, come sono io, che da lungo tempo non è più in scena, potrà avventurarsi a farsi udire un’ora, e per la Santa Vergine! la musica sua saprà passare per musica di moda.
Ciam. A meraviglia, lord Sands; voi non avete ancora perduto il vostro dente della giovinezza.
Sands. No, milord, no, me ne rimane ancora una radice.
Ciam. Sir Tommaso, dove andavate?
Lov. Dal cardinale: voi pure, milord, siete invitato.
Ciam. Oh! sì, ei dà una gran cena questa sera a molte signore: vi saranno le più belle donne d’Inghilterra; potete esserne certo.
Lov. Quel prelato, e’ vuol pur dirsi, ha una grand’anima; la sua mano è liberale come la terra che ci alimenta: la rugiada delle sue grazie si spande dapertutto.
Ciam. È vero, nobilissimo egli è: chiunque sostenesse il contrario mentirebbe.
Sands. Egli può ben esserlo, milord, e ha tutto quello che occorre per ciò: l’avarizia sarebbe in lui più scandalosa di una dottrina erronea: uomini ricchi come lui debbono essere generosi: stanno in alto appunto per darne il buon esempio.
Ciam. Dite il vero; ma vi son pochi nondimeno in questi tempi che si facciano notare per tanta grandezza. — La mia barca mi aspetta: volete accompagnarmi, milord? Venite, degno Lovell, altrimenti giungeremo troppo tardi, e non vorrei incorrer tal rimprovero, perocchè son io e il cavaliere Enrico Guildford «he avemmo comando di presiedere agli ordinamenti della festa.
Sands. Seguo Vossignoria.(escono)
SCENA IV.
Una sala nel palazzo di York.
Squillo di corni. Si vede una piccola tavola sotto un baldacchino per il cardinale e una più grande per gli ospiti; entrano da una porta Anna Bolena e diversi lórdi, lady e gentildonne, come convitati; da un’altra sir Enrico Guildford.
Guild. Signore, vi do a tutte il ben venuto per commissione di Sua Grazia: ei consacra questa sera al diletto, e spera che non vi sia alcuna in questa bella assemblea, che non abbia lasciato alla porta del suo palazzo ogni pensiero molesto, ogni nojosa cura: suo desiderio è di vedervi piene della gaiezza che ispirar debbono una eletta compagnia, vini squisiti e il grazioso accoglimento dell’ospite. — (entrano il lord Ciambellano, lord Sands e sir Tommaso Lovell) Oh! milord, indugiaste assai: il pensiero solo di questa leggiadra ragunata mi diede le ali.
Ciam. Voi siete giovine, sir Enrico Guildford.
Sands. Sir Tommaso Lovell, se il cardinale avesse soltanto la metà del mio amor laico, alcune di queste belle dame sarebbero festeggiate in altro modo, prima di assopirsi nel sonno, e credo con loro maggior diletto. Sulla mia vita! è una bella società.
Lov. Oh! se Vossignoria fosse soltanto per ora confessore di una o due di esse!
Sands. Lo bramerei, onde trovassero una mite penitenza.
Lov. Mite?
Sands. Tanto quanto può darla un letto di piume.
Ciam. Amabili signore, volete assidervi? Sir Enrico, ponetevi da questa parte, io dall’altra. Sua Grazia sta per entrare. — Mestieri è che vi riscaldiate: il freddo s’insinua sempre fra donne poste vicine l’una all’altra. Milord Sands, voi le terrete deste: vi prego, sedete fra queste dame.
Sands. Sull’onor mio! ve ne ringrazio. — Con vostra licenza, amabili lady; (si mette a sedere fra Anna Bolena e un’altra signora) e se per avventura mi esce qualche parola di troppo, vogliate perdonarmela: è un difetto che ebbi da mio padre.
Ann. Egli era dunque ben vivo, signore?
Sands. Oh! eccessivamente vivo, eccessivamente vlvo, e sopratutto in amore: ma ei non faceva male ad alcuno, e solo come io adopero adesso, avrebbe baciate in un baleno venti signore. (bacia Anna)
Ciam. A meraviglia, milord. — Voi siete ben posto. — Cavalieri, sarà vostra colpa se queste dame se ne ritornano di cattivo umore.
Sands. Per parte mia, lasciatemi fare. (squillo di corni; entra il cardinal Wolsey con seguito, e va al suo posto)
Wol. Voi siete i ben venuti, miei amabili convitati: ogni signora gentiluomo che non sia allegro non è mio amico. A gaggio della buona accoglienza vuoto questa tazza alla vostra salute. (beve)
Sands. Vostra Grazia è assai nobile: mi si arrechi una coppa abbastanza grande per contenere tutti i miei ringraziamenti; saranno tante parole risparmiate.
Wol. Milord Sands, vi so buon grado della vostra cortesia; fate stare allegri i vostri vicini. — Signore, vi veggo poco di buona voglia. Gentiluomini, di chi ne è la colpa?
Sands. Convien prima, milord, che il vino rosso colorisca le loro guancie, e allora le udremo parlar tanto da ridurci ai silenzio.
Ann. Voi siete un gaio convitato, milord Sands.
Sands. Sì, io compio bene la mia parte. A voi, signora, e secondatemi se vi piace, perocchè io bevo.....
Ann. Ad un oggetto che non vi sta dinanzi.
Sands. Dissi a Vostra Grazia che esse comincierebbero in breve a parlare. (s’odono al di dentro tamburi e trombe, e alcune scariche di cannone)
Wol. Che è ciò?
Ciam. Qualcuno di voi vada a vedere. (esce un domestico)
Wol. Quali voci guerriere son queste, ed a che intendono? Non temete, signore, per tutte le leggi di guerra voi siete privilegiate. (rientra il domestico)
Ciam. Ebbene? chi è?
Dom. Una brigata d’illustri forestieri, che tali sembrano, han lasciata la loro barca, e son discesi a terra: essi s’avanzano verso questo palazzo come ambasciatori di principi lontani.
Wol. Buon lord Ciambellano, andate a riceverli voi che sapete parlar francese, e accoglieteli con ogni onore: conduceteli poscia qui in sala, dove questo firmamento seminato di stelle li abbaglierà col suo fulgore. Alcuni radano seco. (Esce il Ciam. con varii altri. Tutti s’alzano, e le tavole vengono portate via) Ecco interrotto il banchetto: ma noi ve ne risarciremo. Buona digestione a tutti e mille saluti. (squillo di cornamuse; entrano il Re e dodici altre persone in maschera, vestiti da pastori e preceduti dal lord Ciambellano con alcuni domestici che portano torcie. Essi passano dinanzi al Cardinaie e graziosamente lo salutano)
Wol. Siate i ben giunti. Qual nobile compagnia! Che cosa desiderate.
Ciam. Ignari della lingua inglese, mi hanno pregato di dire a Vostra Grazia che avendo saputo per fama, quale illustre e scelta brigata dovesse questa sera qui radunarsi, non han potato astenersi, pel rispetto profondo che nutrono per la bellezza, di abbandonare i loro armenti, e di chiedere col permesso vostro di vedere queste signore, onde passare un’ora di diletto.
Wol. Dite loro, lord Ciambellano, che essi hanno fatto molto onore alla mia povera casa; che io di cuore li ringrazio e li prego ad acconciarvisi con ogni libertà. (i mascherati scelgono ognuno una signora per danzare, il re prende Anna Bolena)
Enr. La più cara mano ch’io mai toccassi! Oh beltà! io non ti avevo conosciuta prima d’oggi. (musica e danza)
Wol. Milord
Ciam. Signore?
Wol. Vi prego di dir loro per parte mia che v’è qualcuno fra essi più degno di me di occupare questo mio seggio, e che s’io lo conoscessi gliene cederei tosto, offrendogli l’omaggio della mia affezione e del mio rispetto.
Ciam. Così farò, milord. (va verso le maschere, poi ritorna)
Wol. Che dicono essi?
Ciam. Han consentito che v’è infatti fra di loro una persona quale voi l’avete descritta; ma vorrebbero che Vostra Grazia la discernesse da sè, ond’ella allora venisse al vostro posto.
Wol. Vediamo se riesco. (avvicinandosi alle maschere) Col vostro permesso, signori; io fermo su di questo (accennando uno dei pastori) la mia real scelta.
Enr. Vi siete apposto, Cardinale. (smascherandosi) Voi avete una bella brigata, e ve ne lodo, milord. Siete un ecclesiastico, e senza di ciò potrei formar di voi un sinistro concetto.
Wol. Son lieto che Vostra Grazia sia di così buon umore.
Enr. Milord Ciambellano, accostatevi: chi è quella bella dama?
Ciam. Così piaccia a Vostra Grazia, è la figlia di sir Tommaso Bolena, visconte di Rocheford, e dama della regina.
Enr. Pel Cielo! è una vaga creatura. — Amabile donzella, (ad Anna) io sarei ben rozzo se vi avessi presa per danzare senza pur darvi un bacio. — Animo, cavalieri, imitate il mio esempio.
Wol. Sir Tommaso Lovell, è ammannito il banchetto nell’altra stanza?
Lov. Sì, milord.
Wol. Temo che Vostra Altezza per la troppa danza sia un po’ riscaldata.
Enr. Io pure grandemente lo temo.
Wol. L’aria è più fresca, milord, nell’altra camera.
Enr. Ognuno vi conduca la sua signora. — Mia amabile compagna, (ad Anna) io vi lascierò per adesso. — Stiamo allegri. — Mio buon Cardinale, ho una mezza dozzina di brindisi da fare a queste belle signore e una novella danza per rallegrarle. Poscia andremo a coricarci sognando i favorì ottenuti. Ricominci la musica(escono al suono delle trombe)