Il Misogallo (Alfieri, 1903)/Prosa seconda. Ragione dell'opera
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PROSA SECONDA.
24 gennaio 1793.
Ragione dell’opera.
V. Et hortaris me, ut historias scribam? Ut colligam tanta eorum scelera, a quibus etiam nunc obsidemur? Ut narrem quomodo, sublato Rege, foeda servorum Tyrannides incubuerit? |
Cicero, ad Atticum, Lib. 14, ep. 16. |
E tu mi esorti a scrivere storie? A raccogliere le scelleratezze, pur tante, di costoro, che tuttavia assediati ci tengono? A narrare in qual modo, tolto via il Re, la sozza tirannide degli schiavi sovra noi tutti piombasse? |
Io non scriverò, certo, Storie, sì perchè niuna delle cose che io vedo, merita storia, sì perchè non sento in me quel carattere disappassionato, che necessario si reputa per veridicamente narrare,1 ancorchè io sia convinto appieno in me stesso, che l’uomo disappassionato non possa far cosa alcuna perfettamente. Voglio nondimeno supporre, che lo amore della verità divenendo la passione animatrice dello Storico, aggiuntavi la passione della gloria, lo venga a render perfetto nell’arte sua. Lascierò dunque ad altri l’impresa di storicamente narrare varî avvenimenti, di cui sono stato testimonio oculare in Francia, poichè non ho avuta io l’impossibilità di mirarli con occhio indifferente, benchè o nulla, o pochissimo, a toccarmi venissero, e ciò soltanto nel pecuniario interesse, al qual motivo (son certo) niuno di quanti mi avranno conosciuto, attribuirà l’indegnazione non vile, che questi miei scritti respirano.2 La sola passione del vero bene degli uomini sforzavami a scrivere su quel ch’io vedeva, alcuno sfogo trovando il mio cuore nella dolce speranza, o lusinga, di giovare quando che fosse ai buoni, e di nuocere ai rei. Volendo io dunque, e per la mia propria sodisfazione, e per quella di alcuni pochissimi amici, dar conto a me stesso, ed a loro delle diverse impressioni da me ricevute nel periodo di queste politiche lagrimevoli vicende, gitterò qui in carta rapidissimamente, ed a caso le mie riflessioni, e ragioni su alcuni fatti appoggiate; e da esse, spero, verrà bastantemente motivata, e giustificata questa Operetta, a cui mi è sembrato doverle premettere.
Fin dalla mia più giovanile età, io sentiva in me una predominante passione fierissima per la civil libertà, più assai a me nota allora per un certo indomito istinto naturale, che non per acquistate nozioni. Con gli anni dappoi, con l’esperienza, e con l’assiduo, e lungo studio delle cose, e degli uomini, io imparava forse a conoscerla veramente, e ragionatamente apprezzarla. E dai primi anni miei parimente io mi sentiva una somma naturale avversione per i Francesi in genere, e massime per la loro lingua, pel loro contegno, frasario, e leziosi costumi. Coll’età poi, e coll’esperienza, e con brevissimo studio, io perveniva in appresso a bene appurare questa mia avversione invincibile, le cagioni indagandone, ed a rettificarla, e ragionarla, e comporne un perpetuo odio, per me preziosissimo e per l’Italia tutta, col tempo, non meno che utile, necessario.
Ma già da’ filosofi, o da quegli impassibili egoisti, che oggidì questo sacro nome si usurpano, mi sento pur dire: niuna cosa esser meno filosofica, e ragionevole, che l’odiare in genere una moltitudine d’individui fra’ quali necessariamente ve ne sono di ogni specie. Ed è una tale obiezione in in parte verissima, ma non nell’intero. Se dalle storie de’ passati popoli, dai loro usi, lingue, leggi, ed imprese, il lettore ne viene a ritrarre ammirazione in genere, ed amore per gli uni, odio, e dispregio per gli altri: come mai questo effetto stesso, ed anco più forte, non verrà in noi cagionato da una qualunque moltitudine d’uomini viventi sotto i nostri occhi, i di cui fatti, per la maggior parte fra loro concordi, sotto un tale, o un tal altro aspetto qualificandoli, necessariamente o cari, o discari, o spregevoli, o nulli ce li rendono? Il giudicare e il sentire, sono uno; nè senza affetto alcun giudizio sussiste; poichè ogni cosa qualunque, o vista, o sentita, dee cagionare nell’uomo, o piacere, o dolore, o maraviglia, o sdegno, od invidia, od altro: tal che su la ricevuta impressione si venga ad appoggiare il giudizio; e sarà retto il giudizio degli appassionati pel retto; iniquo al contrario quel dei malnati. È dunque l’odio un affetto contro alla reità non men giusto, naturale, e sublime, di quel che lo siano l’amore, e la stima per la virtù. Il professarsi incapace d’odio, equivale all’essere incapace d’amore: o equivale al dire stolidamente, che le qualità da amarsi faranno impressione viva, e profonda in quello stesso animo, in cui le qualità da odiarsi non ne faranno nessuna, o leggiera.
Eccomi dunque ad accennare di volo le cagioni, che mi faceano per sempre amar con trasporto la civile libertà, e con trasporto non minore aborrire i Francesi. Nella vera civile libertà, la storia di quei pochissimi popoli che la possedevano, mi facea chiaramente vedere compresa la massima possibilità per l’uomo di ottenere una più utile, e più durevole gloria; di più ampiamente sviluppare le proprie intellettuali facoltà; di vedersi tuttora intorno degli uomini veri, e più felici, e più arditi, e migliori; di avere degli emuli in tutte le virtù. Nè mai finirei, se qui ad uno ad uno annoverare volessi i beni moltissimi, che dalla libertà ne ridondano, bene intendendo il significato di essa, e qual dovrebb’essere intesa da tutti, se il di lei sacrosanto nome contaminato mai non venisse dalla impura bocca dei corrotti inverecondi liberti: che a ben parlare di libertà, fa d’uopo essere liberi di animo, e puri, e giusti, e magnanimi; altrimenti ella si scambia coll’invidia, con la licenza, e con la servile vendetta.
Ma le ragioni or si espongono, per le quali io altrettanto disprezzo, ed aborro i Francesi, quanto amo, ed incenso la libertà. Negli uomini in generale, principalmente amiam noi il forte sentire, che è il fonte verace d’ogni bene buono, come altresì d’ogni male buono; che io avrò pur la temerità di dar questo epiteto al male, allorchè egli, da passioni ardenti ed altissime procreato, si fa di altissimi effetti cagione. Amiamo inoltre negli uomini, aggiunta al saper la modestia, al valore l’umanità, alla bellezza il pudore, e altri simili accoppiamenti, che caratterizzano il vero merito, e manifestano tosto la differenza tra i mediocri, e gli ottimi: differenza più assai importante, e più difficile a ravvisarsi, che quella tra i mediocri, e i da nulla. Benissimo so, che i da me soprannominati Enti, son rari; che nessuna nazione ne ha molti, e che per lo più i soli popoli liberi si sono mostrati tali, e per breve tempo: ma non sarà però meno vero, che quella nazione, i di cui individui su la totalità si rivestono più espressamente delle qualità diametralmente opposte alle sopra indicate, quella nazione riuscirà la meno amata, e stimata, e la meno amabile, e stimabile. Ora a tutti gli altri Europei sempre i Francesi son sembrati, ed il sono, soverchiatori, millantatori, dispregiatori, ed eccessivamente pregiudicati sul proprio merito; il che manifestamente lo esclude. Ma le altre nazioni (siccome anche fa il tempo) giudicandoli dai fatti, e non dai detti loro, li hanno tenuti uguali in alcune arti ad alcune di esse, inferiori in molte altre, e superiori in nessuna, fuorchè nell’arte della pettinatura, ballo, cucina, ed effeminatezza. Del rimanente, nella guerra inferiori ai Tedeschi, agli Svizzeri, e Spagnuoli ogni qual volta le circostanze erano pari; così nella nautica, e commercio inferiori agl’Inglesi, ed ai Batavi; nelle scienze, nella poesia, e nelle belle arti agl’Italiani; nell’interna politica a tutti; ed in somma, di numero sì, ma in nessun’altra cosa maggiori di niuno de’ popoli dell’Europa; nè inventori veramente, se non se di un sol genere; ma in questo poi, da niun’altra nazione, nè imitati mai, nè imitabili; cioè della difficile arte di operare con ampissimi mezzi picciolissime cose. Del resto non si vede quasi mai un Francese serbare il contegno del proprio stato, nè andar d’accordo coi propri mezzi, nè conoscere sè stesso e le cose. Se il ballerino parla del ballo, egli vi adopra frasi, quali appena un Pompeo avrebbe adoprate nel parlare della Repubblica. Ma se all’incontro i Francesi legislatori della loro infantile Repubblica parlano; il ballerino, e l’arricciatore, e l’istrione vi trapelano, e misti (ch’è il peggio) allo schiavo, e al carnefice. Le più gonfie, e le più (non dirò calde) ma riscaldate espressioni, vengono adoprate con profusione da essi per le loro più triviali cose; onde, se a caso nascessero poi mai le sublimi, non rimarrebbero più parole, nè modi per degnamente lodarle. Queste gelide, e perpetue esagerazioni, da altro non nascono se non dal pochissimo loro sentire di cuore, e dal fittizio sentire di capo. Da questo procede la stomachevole affettazione de’ gesti, passi, contegno, e parole delle loro donne; da questo pur anche quel loro ingegno imparato, e ridotto a parte studiata, e continua recita; quel giudicar d’ogni cosa, e non saperne nessuna; quell’intraprenderle, e pretendere in tutte, e non mai farle intere; e quei tanti, e tant’altri incessanti, e manifestissimi gallici aborti.
Che tali siano costoro in generale, non credo che negare si possa giudicandoli dai fatti. Ma, che cotali uomini aborrire si debbano, forse ciò non parrebbe, poichè il deriderli, e il dispregiarli, è bastante. Eppure, ove costoro sian molti; ove ad ogni passo ciascun Europeo se li debba trovare fra i piedi; ove, o direttamente, o indirettamente, influiscano su tutti i popoli dell’Europa, perchè disgraziatamente per essa il bel mezzo ne ingombrano; ove le dimezzate loro nozioni delle cose, con somma altrui sventura da essi propagate, guastino, trasfigurino, e danneggino il vero; egli è allora ben forza di accoppiare alla derisione, e al disprezzo quell’odio intenso, e sublime, che debbesi al vizio; quell’odio, che agguagliare si dee (e superarlo fors’anche) al danno che se ne viene a ricevere; quell’odio in somma, che ragionatamente instillato negli altri popoli può in gran parte al comun loro danno ovviare.
Ed ecco in qual guisa io mi fo a credere, che anche ragionando, e disappassionandosi (per quanto il possa chi vivissimamente ama il vero) ogni retto, e libero animo e possa, e debba giustamente aborrire una sì fatta nazione, i di cui tristi costumi hanno da cento e più anni in qua indubitabilmente sparsa la corruzione di ogni genere fra tutte le altre; ed ora, sotto diversa maschera, se ne va seminando la mostruosa, e funesta anarchia, innestata sulla propria natìa putrefazione; e le più inaudite crudeltà, e scelleraggini; e ad un tempo il più obbrobrioso servaggio; la dipendenza, cioè, dei possidenti, e dei buoni, dai nulla tenenti, e dai rei.
La libertà dunque, e i Francesi, due cose nelle quali io, sì per istinto naturale, che per matura riflessione, e lunga esperienza dappoi, collocava il mio amore, e il mio odio, si trovano oggi (agli occhi però degli stupidi soli) in apparenza riunite. Io quindi mi vedo costretto (non già per appagare gli stupidi, ma per impor silenzio ai maligni, o confonderli) a dimostrare con alcuni fatti, che amare non si può la libertà, nè conoscerla, senza aborrire i Francesi; appunto perchè questi due opposti nomi, e materie non si son mai raccozzati, nè raccozzar mai si possono. Che forse, ove io nelle presenti circostanze mi fossi taciuto, potea venire il dì, che un qualche schiavuccio travestito da uomo, di me supponesse, o fingesse di credere, che io la libertà in parole soltanto lodata, in fatti odiassi; ovvero che io la libertà dai Francesi contaminata approvassi; o che io finalmente non conoscessi nè questi, nè quella.
AVVENIMENTI.
Qualora un popolo, che geme oppresso sotto un’ingiusta, e non meritata tirannide, perviene ribellandosi a distruggere con la viva, e generosa forza la forza opprimente, egli è questo per certo un popolo appassionato, valente, apprezzabile, e meritevole di libertà. Ma nel dire io un popolo, non intendo la feccia oziosa, e necessitosa di una immensa Città; intendo bensì, una moltitudine, e quasi totalità di onesti abitanti sì delle Città, che del contado, promiscuamente composta di tutti i ceti; la quale, non istigata, non prezzolata, ma per naturale sublime impeto, dalle ricevute ingiurie commossa a sdegno, e furore agisce all’improvviso con entusiasmo, energia e schietto coraggio. Premessa questa definizione di un popolo ribellantesi, e de’ suoi lodevoli sforzi, ormai scenderò ai francesi tumulti. Benchè di moltissimi io sia stato per circa quattr’anni testimonio oculare, potrò non di meno brevissimamente affastellarli, senza più menomarli.
Già fin dall’anno 1786, io stava a dimora in Parigi, oltre parecchi altri viaggi fattivi nella mia prima gioventù fin dall’anno 1767. Pare dunque, che io per esperienza avrei dovuto conoscere bastantemente il Gallume. E dirò, pel vero, che io fra i popoli dell’Europa, quasi tutti da me visitati in cinque anni di giovenili peregrinazioni, non ne avea visto alcuno (eccettuandone forse i soli Moscoviti) che sopportasse l’autorità assoluta, e la servitù che n’è figlia, con maggior disinvoltura de’ Francesi. Le incessanti prepotenze de’ grandi, non che tollerate sempre, ma invocate spessissimo, e non mai vendicate, ne fanno ampia prova. Ed a volersi convincere quanto fosse o ignoto, o spento ogni seme di libertà nei cuori francesi, bastava il dare una rapida occhiata alle affollate anticamere dei ministri, sottoministri, e meretrici de’ ministri, in Versaglia; dove un’intera nazione d’indefessi, e pieghevolissimi postulanti perpetuamente scorgevasi. Le mode stesse, ed il gergo di tutti i loro ceti, le iscrizioni perfino delle loro più vili taverne, dove la parola Reale in spaventevoli letteroni campeggiava pur sempre; e le tant’altre loro frasi di gratuita vigliacca cortigianeria, in bocca della più fetida plebe; questi usi tutti, largamente dimostrano, che i Francesi erano senza dubbio, non solamente schiavi, ma schiavi contenti, e degnissimi. Contuttociò ne voglio allegare in prova un sol fatto, ma di massimo peso; come quello che risguardando tutte le classi, verrà così a definirle; e precede immediatamente le novità del 1789.
Nell’aprile del 1788, volle il ministro regnante Lomenie arcivescovo di Sens sovvertire in ogni parte il governo. A ciò lo spingeva la totale mancanza del denaro pubblico, e l’impossibilità di raccoglierne coi mezzi ordinarî. I diversi Parlamenti del Regno, pigliando tutti norma da quel di Parigi, resistevano giustamente in ciascuna provincia all’accrescimento delle ormai insopportabili gravezze. Ma si era sopratutti distinto quello di Parigi, che tornato pur dianzi dall’esilio di Troyes, non aveva punto ceduto all’arbitrio dell’accennato ministro. Alcuni dei più accreditati individui di esso si comportavano, ed in fatti, ed in parole, come uomini che quasi meritato sarebbersi di esser liberi veramente; e quali ch’elle pur fossero le nascoste cagioni, o i privati fini, che li movessero, certo è che un Parlamento di legittimi rappresentanti, liberamente eletti da un vero popolo, non avrebbe potuto mai con più calore, dignità, e libertà difenderne i diritti, nè porre un più giusto, e forte limite alle regie oppressioni. Qual fu dunque l’esito di questa moderata, e lodevole resistenza? Di pien mezzogiorno il dì 4 maggio 1788 nel bel centro di Parigi, il palazzo della Giustizia, e il Parlamento adunatovi, sono investiti dagli armati satelliti regî chiamati Guardie Francesi, e Guardie Svizzere; di pien mezzogiorno, nel dì susseguente ne vengono estratti a viva forza, ed in toga, tre de’ più eloquenti, ed arditi Parlamentarî, e al cospetto di tutto Parigi vengono strascinati fuor di Città, e inviati nel punto prigionieri in diverse lontane fortezze. Certo, se alcun atto mai assoluto, ingiurioso, e sfacciato veniva commesso in alcuna Monarchia, egli era ben questo. E se mai violenza alcuna tirannica dovea far muovere un popolo, che fosse stato di magnanima, e risentita natura, ell’era certamente ben questa. Io stesso, scrittore, costante e implacabil nemico d’ogni qualunque tirannide, fremendo allora d’indegnazione, e di rabbia, più volte dattorno a quell’investito palazzo mi andai aggirando, e attentissimamente osservai ed i volti, e gli atti, e il contegno di quel popolo. Ed io asserisco, che allora, o coloro erano perfettissimi, e ben incalliti schiavi, o ch’io era in quel punto, e tuttavia sono, uno stupido. Quella naturale insofferenza del giogo; quel fremere sublime della oltraggiata, ed oppressa ragione; quel silenzio che parla, od accenna; quel tacito sogguardarsi l’un l’altro, che tradisce il cor pregno di torbidi affetti, e feroci; quella mal repressa bollente febbre dell’animo, il di cui impeto non mai pienamente domabile, se non iscoppia, minaccia; nulla quivi di sì fatte cose vidi io, per quanto in altrui le cercassi, per quanto io le sentissi in me stesso fierissime. Quell’arcivescovaccio re, un mezzo cadavere con cinque fanticoli, facea pur tremar tutta Francia egli solo: che così sempre avviene in quel regno; chi ha la cassa e il bastone, ancorchè quella sia vuota, e questo sia rotto, purch’egli nol dica e l’adopri, è sempre obbedito, e temuto. E tanto ardiva codesto arcivescovo, che in quell’anno stesso, pochi mesi dopo dichiarò un fallimento parziale ai creditori dello Stato. Toccati allora nella borsa, cioè nella vera, e sola anima dei popoli vili, e corrotti, un qualche sdegnuzzo si destò nei Francesi, ma non mai nella moltitudine, benchè la stessa infima plebe (per una incredibile scostumatezza dei governanti, e dei governati, anch’essa vitaliziata) venisse così a perdere gran parte del suo scarso vitto, somministratole come frutti dai pubblici fondi. Questa plebe con tuttociò non dava alcun segno di vita, se le borse maggiori non incominciavano a comprare da essa il di lei sdegno, con ricompense, e promesse cercando di triplicarglielo; ed a comprare dai regi satelliti la impunità dei tumulti di quella plebe pungolata, e sedotta. Due, o tre individui della classe chiamata dei grandi, trovandosi potenti assai di denaro, e disgustati allora con la Corte, cominciarono a stipendiar la plebaglia, perch’ella osasse pur fare, e stipendiare la soldataglia, perch’ella lasciasse pur fare. Ma chi volesse una giusta misura del quanto poco osassero da principio costoro, e del quanto poco spontaneo, e terribile fosse allora il furore venale di quella plebe vilissima, la ricavi dalla umile, e sola vendetta eseguita allora contro al sopraccennato Arcivescovo fallitore Ministro. Già erano passati otto giorni dalla pubblicazione di quel fallimento parziale, quando il Re, dal mormorarne che se ne facea grandissimo, intimoritosi, indotto si era di togliergli il Ministero. Codesto Arcivescovo se ne rimaneva dunque avvilito, e privato, in una sua villa situata tra Parigi, e Versaglia, sotto gli occhi, e sotto la mano del Pubblico. Era incorso costui nell’odio dei buoni da prima con le violenze usate alle leggi, ed ai loro generosi difensori e Ministri. Era incorso dappoi nell’odio di tutti, con quel suo disleal fallimento. Qual vendetta ne fu dunque presa da quel popolo, che ora sì ferocemente e spoglia, ed uccide ogni giorno chiunque non pensa come i di lui pagatori? Il nostro solenne Arcivescovo, con le usate stolide plebee derisioni, in sulla piazza di Greves fu arso, ma in un fantoccio di paglia, non attentandosi alcuno di cercare, ed estrarre dalla sua prossima villa il vero fantoccio di ossa, e di arderlo effettivamente. Allora dunque, o umanissimo era quel popolo, o codardissimo. Umano non era, poichè in appresso lo ha dimostrato, e va tuttavia dimostrandolo, con tante crudeltà volontarie inaudite ed inutili. Era dunque allora quel popolo e schiavo, e muto, e crudele, e codardo: o tale almeno con sì fatta maestria fingevasi, che ci si sarebbe ingannato ciascuno.
Ma vediamo oramai quali fossero i primi vagiti della francese licenza. Nell’aprile del 1789, una sollevazione del sobborgo di S. Antonio mandò a fuoco, e a sacco la casa, e manifattura di un Reveillon, cartaio di parati, assai ricco, ed in credito. La sanguinosa disparità delle opinioni non aveva ancora divisa la città: quell’uomo era conosciuto per onesto da tutti, e da’ suoi lavoratori amatissimo; non era sospetto al Governo, nè ai nemici di esso, non contrario in nulla a nessuno; non potente, non raggiratore; nessuna in somma delle cose era in lui, che vagliono a muover l’ira, o l’odio, o la vendetta di un pubblico. Quel tumulto contro un tal uomo, era dunque manifestamente un’esperienza di ribellione, comandata, e pagata da quei faziosi che disponevansi, dopo la imminente apertura degli Stati Generali, ad eseguire delle ben altre violenze. Motore e pagatore di questa atrocità vile si era il Duca di Orleans, per mezzo degli infami raggiratori, che per lui, o sotto il di lui nome, operavano. Fu eseguita questa esperienza, per assaggiar l’obedienza, e la fedeltà de’ soldati regi; e già da quel giorno si conobbe manifestamente, che le Guardie Francesi erano vendibili, e compre: ma le Guardie Svizzere, no. Codesto Duca di Orleans, si era mostrato sino a quel punto un mediocrissimo uomo in tutti gli aspetti; nè in appresso Egli è uscito mai dal mediocre, eccettuatane la trivialità di animo; nel quale pregio ha ecceduto, ed eccede la misura di Francese e di Principe.
Nel maggio consecutivo, mi è toccato poi veder co’ miei occhi nel pubblico giardino del Palazzo Reale di Orleans dar la caccia ad un uomo, come darebbesi ad una fiera in un bosco. Il pretesto di sì nobile espedizione fu, che colui era tacciato d’essere spia del Governo, e si noti che ve n’erano in Parigi di tali a migliaia. Codesto misero, non si sa come, improvvisamente preso ad inseguire da molti, correndo e ricorrendo per ogni lato del giardino, preso, rilasciato, straziato, battuto, attuffato più volte nella gran vasca dell’acqua, dopo mille sanguinosissimi scherzi fattigli da quello stuolo di schiavi scatenati, durata tal festa più di quattr’ore, fu finalmente trafugato da qualche pietoso, ma in quella notte morì. Fu questa la prima impresa campale del Popolo di Parigi, abbandonato a sè stesso, nell’interregno di quasi due mesi, che corsero tra la caduta invisibile ma effettiva, e la caduta manifesta della regia podestà. E questo annullamento indugiò a manifestarsi fino al 14 luglio dello stesso anno; giorno in cui visibilmente sulle rovine dell’antica inalzossi un’autorità nuova; mentre da più di sei, o otto settimane inoperosa giacevasi l’altra. Ed a provare il suddetto interregno, bastimi il dire, che di così atroce strazio, e omicidio seguito in un pubblico giardino in pieno giorno, nessuna autorità ne fece giustizia, e debolissime ne furon fatte, ed inutili, e tremando le perquisizioni. Lo stesso avvenne alcuni giorni dopo, circa la frattura delle carceri dette della Badia, dalle quali vennero estratti a viva forza di plebe vari soldati delle Guardie Francesi imprigionati per insubordinazioni, ammutinamenti, e altri delitti militari, tutti forieri della prossima total defezione di esse.
Ma eransi frattanto congregati in Versaglia gli Stati Generali. Quella più che regia Adunanza, dopo aver con aperta violenza sforzato i due Ordini, Ecclesiastico e Nobile, ad incorporarsi passivamente con essa, sotto il nuovo titolo di Assemblea Nazionale, usurpavasi la intera assoluta sovranità. Ed in vece di eseguire le positive, e concordi istruzioni de’ suoi legittimi elettori, espressamente le andava violando ogni giorno, a nome del popolo, con le minacce, ed aiuto della plebe, operando per l’appunto l’opposto di quanto le era stato intimato di fare dal popolo vero, cioè da tutti i possidenti del Regno. Tenevasi in codesta adunanza la pubblica scuola dell’ignoranza, dell’immoralità sociale, e della licenza. Gli spettatori, o fanatici, o stupidi, o stipendiati, o scellerati, facevano un indecentissimo eco all’insania, e impudenza di quei facinorosi strioni. Più volte, con mio sommo fastidio, ed indegnazione udiva io stesso ora spaventar con minacce, ora svillaneggiare con servili improperj, quei deputati, che dissentivano dai sediziosi. In tal guisa veniva loro, o vietato, o troncato il discorso; così che in quella funesta Assemblea, più che in nessuna Corte, ad ogni onesto, e libero avviso era impedita ogni via; e il non far coro coi dominanti ribaldi, a capital delitto ascriveasi. Da un sì fatto scandaloso consesso assoluto, dovea dunque nascere, e trionfare il disordine pubblico.
Ed in fatti la famosa giornata del dì 14 luglio 1789 fu quella che diè la corona all’iniquità vincitrice. Rapidamente la narrerò.
Il dì 12 luglio mattina, in domenica, si era saputo da tutto Parigi, che nella sera del sabato il ministro Necker era stato dimesso d’ogni carica, esiliato dal Regno, e partito nella notte medesima. Era codesto Necker l’assoluto ministro del Re, che sottentrato all’Arcivescovo di Sens aveva con la sua insistenza fatto risolvere il Re alla convocazione degli Stati Generali colla preponderante rappresentazione del Terzo Stato, così detto l’ordine popolare. Quindi i deputati di questo ceto, eletti eguali in numero ai Deputati di entrambi gli altri Ordini, Ecclesiastico e Nobile, cessavano immediatamente di essere il Terzo Stato, e da prima divenuti erano la metà degli Stati, e in poche settimane se ne fecero essi stessi il tutto, avendo sedotti alcuni dei due altri Ordini, coi quali ottenuta la maggiorità de’ suffragi, rimase annichilato, ed inutile ogni ostacolo al loro assoluto volere. Codesto Necker, Tedesco d’origine, Ginevrino di nascita, Banchiere di professione, arricchitosi in Parigi, era già stato Ministro delle Finanze cinque, o sei anni innanzi, e le avea rette assai bene, con intelligenza ed integrità: onde il pubblico, che sopra ogni cosa temeva il fallimento, molto confidava in quest’uomo, considerandolo come un impedimento, o una remora al fallimento. Il di lui esilio, inaspettato, fu dunque la tromba della sollevazione. La sera del dì 12 luglio, verso l’un’ora della notte cominciarono ad adunarsi da 1500 circa persone armate, nel solito giardino del Palazzo d’Orleans: i più erano feccia di plebe; ubriachi moltissimi; disordinati e stolidi tutti: tali insomma, che un corpo di vere truppe forte di soli 600 soldati fedeli gli avrebbe tutti presi, e frustati, che altro gastigo non meritavano. A notte inoltrata usciva un sì fatto esercito, preceduto da molte fiaccole, cercando per le diverse vie di Parigi i soldati del Re, che oramai più non v’erano; essendosi quasichè tutti ritirati sul far della notte nel vicino Bosco di Boulogne, dove già prima accampavansi. Sole alcune poche compagnie del Reggimento Real Tedesco, cavalleria, erano rimaste qua e là spicciolate a’ varî capi di strade nel circondario delle Tuileries, e del palazzo d’Orleans, e dei Baloardi. Invitati dunque gl’insurgenti dalla debolezza dei nemici, secondati dalla notte, e dalle Guardie Francesi, che in buon numero, e con artiglierie si andavano unendo a loro; con poche schioppettate qua e là, e con moltissimi urli, e schiamazzi, riuscirono facilmente a scacciare del tutto di Parigi quei pochissimi, e mal collocati custodi, sì stoltamente stati lasciati alla guardia di una sì immensa città.
Il giorno seguente, lunedì 13 luglio, correvano armati per le vie di Parigi, padroni assoluti di esso, quei mascalzoni armati di picche, di falci, di spiedi, e d’altre sì fatte armi. Allora ciascun possidente incominciò a tremare, vedendosi in preda a cotai difensori. La Municipalità, che espressamente li avea lasciati o fatti trascorrere per la città, affinchè ne risultasse la necessità di un armamento più sistemato, e potente, deliberò nella sera del dì 13, che l’indomani si armerebbero regolatamente dodici mila cittadini, per rimettere, e mantenere il buon ordine. Quindi il martedì mattina si estrassero a viva forza dalla copiosissima armeria posta nel quartier degl’Invalidi, quante armi vi si trovarono. Più di 40 mila schioppi furono distribuiti a chi tumultuariamente ne domandava. Vi furono presi altresì tutti i cannoni, che v’erano in buon numero, e rimasero a disposizione delle Guardie Francesi, che sin dalla domenica erano manifestamente ribellate al Re. In tal modo armatasi la città tutta contro un Re, che disarmato da sè stesso si era, non le riuscì nè dubbia nè difficile la vittoria. Verso le due, o le tre di quell’istesso giorno 14 luglio, si assaltò e si prese la Bastiglia in nome della Municipalità; nè quella fortezza fece punto difesa, nè avrebbe avuto dei viveri da sostenersi. E fu questo finalmente il momento, in cui il Governo regio, da più e più giorni già morto, venne chiarito cadavere dalla totale impunità, e riuscita degli accennati tumulti popolari: ma era stato necessario il vivamente tastarlo per accertarsene.
Ma io qui, con mia somma vergogna, sono costretto di confessare candidamente che in quel giorno della presa della Bastiglia, credendo piuttosto quello che avrei desiderato, che non quel che era, io stesso stoltamente m’indussi a sperare un buon esito da sì fatto tumulto. Io, mal avveduto, credei, che un Re a cui sfuggiva di mano un’autorità illimitata, avrebbe potuto poi, rivestito di un’autorità più legittima, e misurata, con utile di tutti esercitarla, senza pericolo, nè per sè, nè per gli altri. E questo credei, affidandomi nella quasi universal volontà di quel regno, manifestatasi legittimamente per via delle istruzioni date ai Rappresentanti. Il tempo giudicherà poi, se nel creder tal cosa io abbia errato come inesperto conoscitore degli uomini, o come inesperto conoscitor de’ Francesi; delle quali due inesperienze, mi riuscirebbe vergognosa la prima, ed onorevole la seconda. Io dunque, checchè ne fosse, credei avviato, e facile a compirsi ogni buon ordine, dal punto in cui tutta una Nazione che pareva e volerlo, e conoscerlo, non si trovava nessunissimo impedimento all’eseguirlo. Nè mai potei credere allora, che una intera Nazione avrebbe ricevuto la legge dai propri suoi eletti emissari, che in men di tre mesi se ne fecero gli assoluti tiranni. Non mi intendendo io dunque affatto di schiavi, stupidamente andai credendo così l’impossibile; ed al vero negando fede, disonorai allora la mia penna, scrivendo una Ode sopra l’impresa della Bastiglia, ch’io reputai base di futura libertà per la Francia. Ma in ciò mi portai da sincero amatore della libertà, non meno che da generoso nemico dei Francesi, i quali pur sempre abborriva; poichè augurai loro il sommo dei beni, e li stimai capaci di possederlo: non in tal guisa però che io il mi credessi del tutto; ed in prova appiccicai a quella stessa mia Ode una Favoluccia, che può assolvermi in parte dalla taccia di credulo stupido.
Da quel giorno memorabile del 14 luglio 1789, in appresso, sempre più costoro colla violazione d’ogni proprietà, d’ogni giustizia, e d’ogni legge umana, e divina, sono andati mostrando all’Europa, ch’essi non erano già degli uomini tornati liberi, ma de’ veri schiavi licenziosi e insolenti, finchè il cessar della verga li lascerebbe pur essere.
Ma tediato oramai di un tal tema, io accennerò di volo, nominandole appena, le moltissime altr’epoche, che rapidamente hanno disingannato tutti quei veri amatori di libertà, i quali aveano dapprima creduto in costoro.
Dì 6 ottobre 1789. Prima cattura del Re, condotto a viva forza di Versaglia in Parigi.
Dì 18 aprile 1791. Insulti di fatti alla persona del Re, vietandogli con la forza di andare per tre giorni alla sua Villa di S. Cloud, benchè egli vi andasse custodito dai soliti suoi carcerieri armati, e non si proponesse altro scopo in quel breve mutamento di carcere, se non se di pigliarvi tranquillamente la Pasqua da’ Preti della propria di lui religione, la quale era ancor quella di quasi tutti gli abitanti della Francia, che n’avessero una.
Dì 24 giugno, stess’anno. Fuga del Re, e sua seconda cattura, ricondotto in Parigi fra i massimi obbrobrî.
Dì 1 ottobre, stess’anno. Seconda Assemblea sotto il titolo di legislativa, più stupidamente ignorante, e più pazza assai della prima, essendo composta di individui macchiati quasi che tutti, facinorosi, e pezzenti.
Dì 1 maggio 1792. La Guardia del Re, un mese prima legalmente assegnatagli dalla stessa Assemblea, arbitrariamente e violentemente soppressa in una notte dall’Assemblea.
Dì 20 giugno, stess’anno. Il palazzo del Re invaso, e trascorso da una immensa folla di plebe, con l’ultimo e totale avvilimento della di lui persona, imberrettata per forza in quel giorno della purpurea mitra di libero galeotto, quale la portavano quegli assassini.
Dì 10 agosto, stess’anno. Battaglia murale della Reggia espugnata da una ciurma di dugentomila schiavi, assassini a ciò spinti con minacce, e danaro; e malamente difesa da circa 1500 soldati, che i più Svizzeri, i quali quasi tutti vi perirono.
Dì 2 settembre, stess’anno. Strage vigliacca della Principessa di Lamballe, amica, e parente della Regina, assassinata nelle carceri, e così moltissimi altri illustri innocenti, tra’ quali nella sola chiesa del Carmine, alcune centinaia di venerabili sacerdoti e prelati, ed infiniti altri onorati ed integri uomini, che in tutte le carceri stavano affastellati; e tutti vi rimasero trucidati in quel funestissimo ed obbrobriosissimo giorno.
Dì 21 settembre, stess’anno. Il nascimento dell’abortiva Repubblica, sotto sì fatti liberi auspicî: e finalmente il dì non so quale, nè di qual mese, nè di qual anno (poichè io sto rammentando queste epoche il dì 24 gennaio 1793, in Firenze, dove poco so, e pochissimo m’importa il sapere quel che seguirà nella cloaca parigina) il giorno dico futuro, ma certamente non lontano dell’assassinio del Re, seguito poi da una intera dispersione, e macello de’ suoi, e seguito poi, non molto dopo, dal macello dei regi carnefici, e perpetuamente seguito da altre incessanti stragi, sino all’estinzione, ed esequie della nata-morta Repubblica. Queste epoche tutte, e passate e future, che altra storia non meritano se non se il noioso periodo di un solo fiato, che il tempo ne accenni, e il fetore; quest’epoche (stomachevoli tutte a chi la libertà conosce, e desidera) sono, e saranno la viva prova perenne, che codesto popolo non l’ha nè sentita, nè conosciuta, nè desiderata, nè ottenutane neppure mai l’apparenza.
EPILOGO.
Qualunque cosa sia dunque per accadere in Europa, dove la funesta imbecillità dei Principi tutti, l’ignoranza, o l’infedeltà di chi li governa, la torpidezza e la codarda inopportuna benignità del Principato, la insolenza, e non curanza dei grandi, la bollente vile invidia dei piccoli, la pusillanimità dei possidenti, la scontentezza e l’audacia de’ poveri, ed insomma la eccessiva corruzione di tutti, vanno pur procacciando assai partigiani a codesti impudenti liberti, e massimamente nella infinita classe dei loro simili; io per tutto ciò non mi rimuoverò pur giammai dalla mia antica opinione circa i Francesi, concepita su i modi, e costumi loro da prima, e confermata poi sì ampiamente dal loro procedere in ogni cosa. Che a tutto restringere in breve, costoro insomma, nel corto periodo di quattro anni, e mesi hanno indubitabilmente saputo accumulare, ed accrescere i mali tutti e gli orrori della sanguinosa licenza, e tirannide mostruosamente accoppiate, senza pur mai rattemprarli con un solo de’ menomi beni della libertà.
Io quindi, per semplice sfogo di addolorato, e libero animo, e colla speranza di esser forse quando che sia di alcun giovamento o sollievo ai pochi liberi, e retti individui che mi leggeranno, sono andato qui inserendo molte diverse composizioncelle, dalla indignazione dettatemi, e dall’amore del vero, del retto, e degli uomini: Sonetti, Prose, Epigrammi, Dialoghi, ogni cosa frammista; nè altrimenti ordinata, se non se come venivano fatti, e scritti, ora in mezzano, ora in sollevato stile, od in umile e talora anche in bassissimo, per meglio adattarne al soggetto lo stile. Ai più de’ componimenti sono andato apponendo le date dei mesi, e degli anni, in cui erano scritti, perchè rimanessero schiariti dal riscontro dei fatti coincidenti. E dove bisognerà, vi apporrò anche od il titolo, o brevissime note, per la massima chiarezza di quei lettori, che saranno anche mediocrissimamente informati di quanto accadeva.
Ma tempo è di dar fine a questo pur troppo già soverchio preambulo. Onde finisco col dire che se la Fortuna (cieca ella sempre, ed ingiusta spessissimo) volesse pur concedere alle armi dei Francesi prosperità, ed estensione a quelle opinioni, che dei Francesi non sono quanto al retto, ed all’utile ch’esse hanno per base, ma son bensì dei soli Francesi quanto al guasto, sconvolto e servile metodo di adoperarle; non riuscirà per tutto ciò meno vero, che i Francesi non saranno mai stati per l’addietro, nè sono al presente, nè mai potranno essere liberi: come vero altresì, che nessun popolo potrà essere, o farsi libero mai, nè per mezzo de’ Francesi, nè seguitando il loro operare, nè somigliandoli in cosa nessuna. E quanto a me poi, ne vengo ad un tempo stesso a conchiudere, che serbarmi carissimi sempre e voglio, e debbo nel cuore, que’ due miei preziosi affetti primitivi; amore e adorazione della libertà vera; profondo e ragionato abborrimento per un popolo, che, colle ribalde e servili sue opere, ha intrapresa, e compiuta pur troppo, presso ai maligni e idioti, la ignominiosa satira del sacrosanto nome di Libertà.
Note
- ↑ E volendo alle due addotte ragioni aggiungere una terza, direi: perchè, avvezzo da molti anni a dipingere gli uomini in poesia, quali potrebbero e dovrebbero essere, troppo mi farebbe ora stomaco il dipingerli quali sono, o quali erano almeno, pur troppo, i miei contemporanei.
- ↑ Vedasi in fine di questa prosa la nota con i brevissimi documenti spettanti i miei privati interessi in Francia. E ad essa si aggiunga per sopra più, che la principal ragione, per cui non ho voluto pubblicare in vita questa Operuccia, fu per l’appunto affinchè non venisse intitolata la vendetta d’una persona spogliata; e quindi una tal supposta passione nell’Autore, non venisse a togliere, ed a menomare la fede dovuta al libro, ed al vero. Che se pure a me lo dettò la vendetta, vendetta fu solo della contaminata, e tradita libertà.