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il misogallo 127


degli uomini sforzavami a scrivere su quel ch’io vedeva, alcuno sfogo trovando il mio cuore nella dolce speranza, o lusinga, di giovare quando che fosse ai buoni, e di nuocere ai rei. Volendo io dunque, e per la mia propria sodisfazione, e per quella di alcuni pochissimi amici, dar conto a me stesso, ed a loro delle diverse impressioni da me ricevute nel periodo di queste politiche lagrimevoli vicende, gitterò qui in carta rapidissimamente, ed a caso le mie riflessioni, e ragioni su alcuni fatti appoggiate; e da esse, spero, verrà bastantemente motivata, e giustificata questa Operetta, a cui mi è sembrato doverle premettere.

Fin dalla mia più giovanile età, io sentiva in me una predominante passione fierissima per la civil libertà, più assai a me nota allora per un certo indomito istinto naturale, che non per acquistate nozioni. Con gli anni dappoi, con l’esperienza, e con l’assiduo, e lungo studio delle cose, e degli uomini, io imparava forse a conoscerla veramente, e ragionatamente apprezzarla. E dai primi anni miei parimente io mi sentiva una somma naturale avversione per i Francesi in genere, e massime per la loro lingua, pel loro contegno, frasario, e leziosi costumi. Coll’età poi, e coll’esperienza, e con brevissimo studio, io perveniva in appresso a bene appurare questa mia avversione invincibile, le cagioni indagandone, ed a rettificarla, e ragionarla, e comporne un perpetuo odio, per me preziosissimo e per l’Italia tutta, col tempo, non meno che utile, necessario.

Ma già da’ filosofi, o da quegli impassibili egoisti, che oggidì questo sacro nome si usurpano, mi sento pur dire: niuna cosa esser meno filosofica, e ragionevole, che l’odiare in genere una moltitudine d’individui fra’ quali necessariamente ve ne sono di ogni specie. Ed è una tale obiezione in in parte verissima, ma non nell’intero. Se dalle storie de’ passati popoli, dai loro usi, lingue, leggi, ed imprese, il lettore ne viene a ritrarre ammirazione in genere, ed amore per gli uni, odio, e dispregio per gli altri: come mai questo effetto stesso, ed anco più forte, non verrà in noi cagionato da una qualunque moltitudine d’uomini viventi sotto i nostri occhi, i di cui fatti, per la maggior parte fra loro concordi, sotto un tale, o un tal altro aspetto qualificandoli, necessariamente o cari, o discari, o spregevoli, o nulli ce li rendono? Il giudicare e il sentire, sono uno; nè senza affetto alcun giudizio sussiste; poichè ogni cosa qualunque, o vista, o sentita, dee cagionare nell’uomo, o piacere, o dolore, o maraviglia, o sdegno, od invidia, od altro: tal che su la ricevuta impressione si venga ad appoggiare il giudizio; e sarà retto il giudizio degli appassionati pel retto; iniquo al contrario quel dei malnati. È dunque l’odio un affetto contro alla reità non men giusto, naturale, e sublime, di quel che lo siano l’amore,