Il Mercante di Venezia/Atto secondo
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ATTO SECONDO
SCENA I.
Belmont — Una stanza nella casa di Porzia.
Squillo di corni; entra il principe di Marocco col suo seguito; Porza, Nerissa ed altri.
Mar. Non istupite per il colore del mio volto: la è la divisa che dà il lucido sole a quanti com’io gli nacquero vicino. Fate venire dal fondo del nord il più bell’uomo, da quei climi dove Febo scioglie a stento i ghiacci sospesi ai tetti, e togliamoci un po’ di sangue in vostro onore per vedere quale di noi l’ha più rosso. Io vel dico, signora, l’aspetto che voi scorgete ha intimoriti i più prodi. Giuro per l’amor mio che le vergini più belle dei nostri paesi ne sono state vaghe; nè mi risolverei mai a mutare sembianza, a meno che non fosse per rubarvi qualcuno dei vostri pensieri, mia amabile regina.
Por. Nelle mie scelte io non mi lascio soltanto guidare dai miei occhi di fanciulla. D’altra parte la ventura che debbe fermar la mia sorte toglie alla mia volontà ogni libera risoluzione. Confesso nullameno, illustre principe, che anche senza le condizioni che mi ha imposte mio padre, costringendomi col suo testamento a divenir donna di quegli che mi otterrà coi mezzi di cui vi ho parlato, voi mi sembrate meritare la mia affezione al par d’ognuno di quelli che si sono presentati a me.
Mar. Ve ne ringrazio, e vi prego di condurmi a quegli scrigni perch’io vi esperimenti la mia fortuna. Per questa scimitarra che ha ucciso il Sofì e un principe di Persia, e che ha vinte tre battaglie contro il gran Solimano, vorrei far abbassare co’ miei sguardi l’occhio più audace, vincere in prodezze il cuore più intrepido del mondo, divellere i piccoli orsi dalle mamme delle loro madri, insultare al leone allorchè ruggisce dinnanzi alla sua preda. Ma oimè! Se Ercole e Lica giuocano a’ dadi per conoscere quale di loro è più grande, il più debole può restar vincitore: ed io del pari condotto dalla cieca fortuna posso venir meno nella scelta di quello, che ogni altro meno degno di me varrà forse a trovare; e ne morrò di dolore.
Por. Convien correr la ventura, e dovete non eleggere, o se eleggete dovete giurar prima che non parlerete per l’avvenire di matrimonio ad alcuna donna. Onde non vi affrettate, e pensateci assai innanzi.
Mar. Andiamo, ch’io vuo’ conoscere la mia sorte.
Por. Bisogna prima ire al tempio; e dopo il pranzo farete lo esperimento.
Mar. Oh destino! tu stai per rendermi il più felice, o il più sventurato degli uomini. (squillo di corni, ed escono)
SCENA II.
Una strada di Venezia.
Entra Lancilotto Gobbo.
Lan. Certo la mia coscienza mi lascierà fuggire da quel giudeo mio padrone. Il diavolo mi sta a’ gomiti, e mi tenta dicendomi: «Gobbo, Lancilotto Gobbo, buon Lancilotto, o buon Gobbo, o buon Lancilotto Gobbo, usa delle tue gambe, alza i calcagni e va». E la mia coscienza mi dice: «no, bada, onesto Lancilotto, bada, onesto Gobbo, o come dianzi, onesto Lancilotto Gobbo; non correre; disprezza il fuggire colle calcagna»: e in questa il coraggioso demone mi incita a sgombrare e ad irmene, e soggiunge: «sveglia i tuoi generosi spiriti, corri». Ma la mia coscienza aggrappandosi al mio cuore saviamente risponde: «mio onesto amico Lancilotto, tu che sei figlio di un uomo onesto..... o piuttosto di una donna onesta; perocchè mio padre ebbe certi peccati..... commise certe cose..... mio onesto Lancilotto, non muoverti». Muoviti dice il demonio; non muoverti dice la coscienza. Coscienza, dico io, voi ben mi consigliate; demonio, soggiungo, sono savii i vostri suggerimenti, e standone alla mia coscienza dovrei rimanere coll’ebreo mio padrone, che, Iddio mel perdoni! è una specie di diavolo; e correndo via da lui dovrei essere governato dal demonio, che, sia detto colla debita riverenza, è il diavolo in persona. Certo il Giudeo è un demonio incarnato; e in coscienza, la mia coscienza è una coscienza rigorosa, volendomi indurre a rimanere con lui. Il diavolo mi dà un consiglio più amichevole: fuggirò dunque, diavolo; le mie calcagna sono a’ tuoi comandi, e correrò. (entra il vecchio Gobbo con un canestro)
Gob. Messere, il mio giovine, ve ne prego, qual’è la via che guida all’ebreo?
Lan. (a parte) Oh Cielo! quest’è il vero padre che m’ha generato! e che avendo la vista corta, cortissima, non mi riconosce. — Vuo’ far certi esperimenti con lui.
Gob. Messere, quel giovine, ve ne prego, qual’è la via dell’ebreo?
Lan. Volgetevi a man ritta alla prima cantonata, e alla voltata prima di quella girate a man sinistra; poi alla voltata successiva non volgete da nessuna parte, ma andate obbliquamente fino alla casa dell’ebreo.
Gob. Per le perfezioni di Dio! sarà difficile a trovare. Potreste voi dirmi se un Lancilotto che alberga con lui, alberga con lui, o no?
Lan. Parlate voi del giovine Lancilotto? Badatemi bene ora. — (a parte) Ora suscito la tempesta. — Parlate voi del giovine signor Lancilotto?
Gob. Non è signore, signore, ma figlio d’un poveruomo. Suo padre, sebbene sia io che lo dica, è un onestissimo cencioso che potrà, Dio sia lodato, vivere anche molto.
Lan. Bene, lasciate che suo padre sia quel che vuole; noi parliamo del giovine messer Lancilotto.
Gob. Dell’amico di vossignoria, e di Lancilotto, signore.
Lan. Ma io vi prego, ergo, il mio vecchio, ergo io vi supplico di dirmi se parlate del giovine messer Lancilotto?
Gob. Di Lancilotto, così piaccia a vossignoria.
Lan. Ergo, di messer Lancilotto; non parlate di messer Lancilotto, padre; perocchè il giovine gentiluomo (secondo i fati e i destini e le bizzarre profezie delle tre sorelle e i teoremi delle scienze occulte) è interamente morto; o, come voi direste in semplici parole, è ito in Cielo.
Gob. Dio nol voglia! Quel garzone è il puntello della mia vecchiaia, è il mio bacolo.
Lan. Somiglio io a un batacchio, o a un manico di scopa, o a una colonna? Mi conoscete voi, padre?
Gob. Oimè! non vi conosco, giovine gentiluomo: ma vi prego di dirmi, se il mio garzone (Dio dia pace all’anima sua!) è vivo, o morto.
Lan. Non mi conoscete voi, padre?
Gob. Oimè! signore, io son quasi cieco, e non vi conosco.
Lan. Se anche possedeste l’intero uso degli occhi potreste forse non conoscermi: savio è quel padre che conosce i proprii figli. Bene il mio vecchio, io vi darò notizia del vostro figliuolo: impartitemi la vostra benedizione: la verità verrà in luce; l’omicidio non può restare a lungo nascosto, ma il figlio di un uomo lo può: alla fine però la verità deve mostrarsi.
Gob. Vi prego, signore, alzatevi; son sicuro che voi non siete Lancilotto, il figliuolo mio.
Lan. Ve ne prego, non celiamo altro intorno a ciò, ma datemi la vostra benedizione; sono quel Lancilotto vostro figlio che fu, vostro garzone che è, vostra prole che sarà.
Gob. Non posso credere che siate mio figlio.
Lan. Non saprei che pensare su di questo: ma io son Lancilotto, domestico dell’ebreo, e son sicuro che la Margherita vostra moglie è mia madre.
Gob. Il di lei nome infatti è Margherita, ed io giurerò, se tu sei Lancilotto, che sei mia carne e mio sangue. Dio sia adorato! Che barba hai messo! Hai più peli sul mento che non ne ha Dobbin, il mio cavallo, nella coda.
Lan. Convien dire allora che la coda di Dobbin cresca a ritroso: son sicuro ch’egli aveva più peli nella coda ch’io non ne ho nel volto, l’ultima volta che lo vidi.
Gob. Dio! come sei mutato! Come ti trovi col tuo padrone? Gli reco un presente: come ve ne state insieme?
Lan. Bene, bene; ma per me, poichè ho fatto risiedere il mio riposo nella fuga, non vuo’ riposare finchè non ho corso. Il mio padrone è un vero ebreo. Dargli un presente! Dategli una corda: io muoio di fame al suo servizio: voi potete contare ognuna delle mie dita con le mie costole. Padre, son lieto di vedervi; datemi il vostro dono per messer Bassanio che distribuisce belle livree: s’io nol servo vuo’ correre fin dove Dio ha fabbricato un palmo di terra. Oh egregia fortuna! Eccolo appunto: a lui, padre, il canestro: perocchè ch’io sia un ebreo, se coll’ebreo mi fermo più. (entrano Bassanio, Leonardo, ed altri)
Bas. Potete far così; ma affrettatevi onde la cena sia apparecchiata al più tardi alle cinque. Fate recapitare queste lettere: indossate i miei colori; e pregate Graziano di venire di nuovo da me. (esce un dom.)
Lan. A lui, padre.
Gob. Dio benedica vossignoria!
Bas. Gran mercè: vuoi da me qualcosa?
Gob. Quest’è mio figlio, signore, un povero garzone.....
Lan. Non un povero garzone, signore, ma il valletto di un ricco ebreo; che vorrebbe, signore, come mio padre vi spiegherà.....
Gob. Egli ha, signore, come si direbbe, una gran manía per servire......
Lan. Infatti, alla breve e alla lunga io servo l’ebreo, e desidererei, come mio padre sta per esplicarvi.....
Gob. Il suo padrone ed egli (col rispetto di vossignoria) sono appena cugini.....
Lan. Per esser brevi, la verità è che l’ebreo, avendomi fatto oltraggio, è cagione, come il mio genitore vorrà chiarirvi, essendo come io spero un vecchio.....
Gob. Ho qui un piatto di piccioni che darei a vossignoria; e la mia preghiera sarebbe.....
Lan. La richiesta è impertinente, come vossignoria conoscerà da questo onesto vecchio; e sebbene io lo dica, sebbene vecchio, nondimeno, il pover’uomo è mio padre.
Bas. Uno solo parli. — Che volete?
Lan. Servirvi, signore.
Gob. Ecco che cosa è.
Bas. Ti conosco, e la tua dimanda è appagata. Shylock, tuo padrone, mi parlò oggi, e ti ha fatto progredire, se un progresso è il lasciare il servizio di un ricco ebreo per divenire domestico di un povero gentiluomo.
Lan. Il vecchio proverbio è benissimo diviso fra il mio padrone Shylock e voi, signore: voi avete la grazia di Dio, ed ei ne ha la sostanza.
Bas. Ottimamente detto: va, padre, col tuo figliuolo: prendi congedo dal tuo vecchio padrone, e richiedi della mia dimora. — Dategli una livrea (ai suoi del seguito) più bella di quella de’ suoi compagni: abbiate cura di ciò.
Lan. Padre, entriamo. — Non posso prender servizio, no..... non ebbi mai lingua nella testa. — Bene (guardando la palma della sua mano); se v’è alcun uomo in Italia che abbia una più bella tavola, osi giurarlo sopra gli evangelii. — Farò fortuna; quest’è una bella linea di vita! Questa una bella seguenza di mogli. Oimè me! quindici mogli è un nonnulla; undici vedove e nove pulcelle è quanto basta ad un onest’uomo. Poi sfuggir tre volte il rischio d’annegarsi e pericolar della vita sopra un letto di piume: tutto ciò non è che felicità! Bene; se la fortuna è una donna è però una femmina buona. — Padre, venite; prenderò commiato dall’ebreo in un batter d’occhio. (esce col vecchio Gobbo)
Bas. Te ne prego, buon Leonardo, pensa a questo: comprati, e distribuiti per ordine quegli oggetti, torna tosto perchè stassera darò una festa ai miei migliori amici: affrettati, va.
Leon. Tutti i miei sforzi saranno fatti per ben secondare le vostre intenzioni. (entra Graziano)
Graz. Dov’è il vostro padrone?
Leon. Là fuori, signore, che passeggia. (esce)
Graz. Signor Bassanio.....
Bas. Graziano!
Graz. Ho una dimanda da farvi.
Bas. L’avete di già ottenuta.
Graz. Non dovete negarmela; convien ch’io venga con voi a Belmont.
Bas. Poichè ciò dev’essere, sarà: ma odimi, Graziano, tu sei troppo selvatico, troppo rozzo, e di voce troppo aspra. Codeste sono qualità che stan bene, e che ai nostri occhi non sembrano difetti; ma dapertutto ove non sei conosciuto, annunziano qualcosa di troppo libero; onde, te ne prego, abbi cura di temperare il tuo spirito petulante con un po’ di moderazione, per tema che la tua condotta poco riservata non sia in mio disavvantaggio nella casa in cui vado, e non mi faccia perdere ogni speranza.
Graz. Signor Bassanio, ascoltatemi: se non avrò il contegno più modesto, se non parlerò con rispetto, non lasciando sfuggire che qualche giuramento di tratto in tratto; se non terrò un libro d’orazioni in saccoccia, e non chinerò gli occhi verso terra; se quando si reciteranno azioni di grazia non mi mostrerò tutto contrito, e non farò eco con sospirosi amen; infine, se non sarò civile fino allo scrupolo, come l’uomo più grave può esserlo per piacere alla nonna sua, non fate mai più assegnamento sopra di me.
Bas. Bene, vedremo come adoprerete.
Graz. La sera però sta per me; voi non mi giudicherete da quello che faremo questa sera.
Bas. Oh! no, vi sarebbe troppa severità. Vi esorterò invece a dimostrare la vostra maggiore allegrezza, perocchè abbiamo amici che intendono di darsi buon tempo. Ma addio, vi lascio perchè ho alcuni negozi.
Graz. Ed io debbo andar a trovare Lorenzo e gli altri; ma ci rivedremo a cena. (escono)
SCENA III.
La stessa. — Una stanza nella casa di Shylock.
Entrano Gessica e Lancilotto.
Ges. Son dolente che tu lasci così mio padre; la nostra casa è un inferno, e tu un demone gioviale che le toglievi un po’ della sua noia. Ma Dio ti faccia prosperare; tieni, ecco un ducato per te. A cena, Lancilotto, vedrai Lorenzo che è ospite del tuo nuovo signore. Dagli questa lettera segretamente; addio, non vorrei che mio padre mi trovasse a parlar teco.
Lan. Addio! le mie lagrime parlino per me, bellissima pagana..... dolcissima giudea! Se un cristiano non si dannasse per possederti, vuo’ non esser più io se non ti volessi. Ma addio; queste sciocche lagrime annegano un poco i miei spiriti maschili; addio. (esce)
Ges. Addio, buon Lancilotto. — Oimè! di qual odioso peccato io mi rendo rea, vergognandomi di esser figlia di mio padre! Ma sebbene io sia sua figlia per sangue, non lo sono per modi. Oh! Lorenzo, se tu attieni la tua promessa, questa contesa finirà, e io diverrò cristiana, e tua tenera sposa. (esce)
SCENA IV.
La stessa. — Una strada.
Entrano Graziano, Lorenzo, Salarino e Salanio.
Lor. Sì, noi fuggiremo durante la cena; andremo a travestirci a casa mia, e ritorneremo tutti fra un’ora.
Graz. Ma a ciò non siamo ben apparecchiati.
Salar. Non abbiamo parlato ancora coi portatori delle torcie.
Sal. È una cosa inutile, ed è meglio il non pensarci.
Lor. Non son per anche le quattro: ci rimangono due ore per ammannirci. (entra Lancilotto con una lettera) Amico Lancilotto, quali novelle rechi?
Lan. Se vi piace rompere questo suggello lo saprete.
Lor. Conosco la mano: in verità è una bella mano più bianca ancora della carta che ha adoperato.
Graz. Novelle d’amore, giuro.
Lan. Con vostra licenza, signori.
Lor. Dove vai?
Lan. A dire al mio vecchio padrone ebreo, di venire a cena col mio nuovo padrone cristiano.
Lor. Ascolta; di’ alla gentil Gessica, che non le mancherò; diglielo segretamente. (Lan. esce) Signori, volete apparecchiarvi per questa mascherata notturna? Son provveduto di un portatore di torcie.
Salar. Ebbene vo’ a mettermi in ordine.
Sal. Così fo’ anch’io.
Lor. Venite a trovarci, Graziano e me, alla casa di Graziano fra alcune ore.
Salar. Sarà fatto. (esce con Sal.)
Graz. Non era quella lettera della gentil Gessica?
Lor. Convien che ti dica tutto: ella m’insegna come debbo rapirla dalla casa di suo padre; l’oro e i gioielli di cui è provvista, l’abito di paggio che tien preparato. Se mai quell’ebreo padre suo entra nel cielo, non avverrà che in contemplazione della sua amabile figlia; nè mai la sventura oserà attraversare i passi di quella giovine bellezza, fuorchè rafforzandosi del pretesto ch’ella è di schiatta ebrea. Via, vieni meco; percorri questa lettera andando; la bella Gessica sarà la mia stella. (escono)
SCENA V.
La stessa. — Dinanzi alla casa di Shylock.
Entrano Shylock e Lancilotto.
Shy. Bene, vedrai; i tuoi occhi saranno giudici; vedrai qual differenza vi sia fra il vecchio Shylock e Bassanio. — Olà, Gessica!... Tu non sazierai la tua ghiottoneria come facevi da me. — Olà, Gessica! — Nè starai sempre a dormire e a logorare i tuoi panni. — Gessica, Gessica, dico!
Lan. Gessica!
Shy. Chi ti dice di chiamare? Io non tel dissi.
Lan. Vossignoria soleva rimproverarmi perch’io non sapea mai far nulla senza che mi fosse detto. (entra Gessica)
Ges. Chiamate? Cosa volete?
Shy. Sono invitato a cena, Gessica; eccoti le mie chiavi: ma perchè v’andrei? Non è per amicizia che sono invitato; essi mi adulano: ebbene, v’anderò per odio, per pascermi sui prodighi Cristiani. — Gessica, mia fanciulla, bada alla casa: ho ripugnanza ad escire: qualche sventura mi sta sopra, perchè ho sognato stanotte sacchi di danaro.
Lan. Te ne supplico, signore, andate; il mio giovine padrone vi aspetta.
Shy. Ebbene...
Lan. E hanno cospirato insieme... ma nol voglio dire, perchè vediate una mascherata; ma se la vedete non sarà stato per nulla che il mio naso sanguinò lo scorso lunedì a sei ore della mattina.
Shy. Che cosa sono queste mascherate? Ascoltatemi, Gessica: chiudete bene le porte, e quando uderete il tamburo, e il grido discorde del piffero dal collo torto, non vi arrampicate sulle finestre per mostrar la vostra testa in pubblico sulle strade, o per guardare a’ pazzi Cristiani coi volti inverniciati. Ma turate invece con cura le orecchie della mia casa, intendo le finestre; e fate che il romore di quelle vane follie non entri in questa austera dimora. — Per la verga di Giacobbe! giuro che non ho alcun desiderio d’andare a cena fuori questa sera: ma vi andrò. — Precedetemi, malandrino, e dite che verrò.
Lan. Così farò, signore (a parte a Ges.) Donzella, ad onta di quanto egli ha detto, guardate dalla finestra, e vedrete avvicinarsi un cristiano che è ben degno degli occhi di un’ebrea. (esce)
Shy. Che ti disse quel pazzo della stirpe di Agar?
Ges. Mi disse, addio signore, e nulla più.
Shy. Colui è abbastanza gentile; ma è un gran mangiatore: una testuggine per lavorare; e che dorme più di un gatto selvatico. Le vespe non stan bene nel mio alveare, perciò mi separa da lui per cederlo ad un libertino, cui vuo’ aiuti a spendere in breve tutto il denaro che da me prese in prestito. — Animo, Gessica, rientrate; forse ritornerò fra breve. Fate come vi dissi: chiudete bene le porte, perocchè ciò che ben si lega si ritrova. Questo proverbio non deve mai dipartirsi dalla mente di un onesto massaio. (esce)
Ges. Addio: e se la mia fortuna non è tanto malvagia io ho perduto un padre, e voi una figlia. (esce)
SCENA VI.
La stessa.
Entrano Graziano e Salarino mascherati.
Graz. Codesta è la tettoia sotto di cui Lorenzo ci disse di aspettarlo.
Salar. Ma l’ora è quasi trascorsa.
Graz. Ed è meraviglia ch’ei l’abbia obbliato, perocchè gli amanti prevengono sempre l’orologio.
Salar. Oh! le colombe di Venere volano dieci volte più rapide per stringere novelli amori, ch’esse nol sogliano per far mantenere antichi impegni.
Graz. Ciò sarà sempre vero: qual convitato si alza da mensa con quel vivace appetito che sentiva allorchè vi si assise? Dov’è il cavallo che ritorni sulle noiose orme della strada che ha percorsa, col brio che aveva partendo? Per tutti i beni di questo mondo! v’è molto più ardore nel desiderio che nel godimento. Vedete come, simile a un giovine pieno di fuoco, la nave splendida de’ suoi padiglioni abbandona la baia natale, sospinta e carezzata dai venti lascivi! E vedete poscia com’ella torna squarciata, nello stato del figliuol prodigo, coi fianchi rotti, le vele sdrucite, tale da destar pietà! (entra Lorenzo)
Salar. Tiene Lorenzo: non più di ciò per ora.
Lor. Dolci amici, perdonatemi se mi feci sì a lungo attendere. Non son io, ma i miei negozi che posero alla prova la vostra pazienza. Allorchè vi verrà il talento di rubare una sposa, vi prometto di stare all’erta tanto tempo quanto voi steste per me. — Articolatevi: è qui la casa del mio padre ebreo. — Olà, olà! Di casa. (entra Gessica al disopra in abiti da paggio)
Ges. Chi siete? Nominatevi per maggiore sicurezza, sebbene potrei giurare che vi conosco alla voce.
Lor. Lorenzo, l’amor tuo.
Ges. Lorenzo certo; e l’amor mio ancora; perocchè chi amo io tanto? e qual altri che voi, Lorenzo, sa s’io son vostra?
Lor. Il Cielo e il tuo cuore son testimoni che lo sei.
Ges. Prendete questo scrigno: val il pregio dell’opera. Godo che sia notte, e che non mi vediate, perocchè arrossisco del mio travestimento; ma l’amore è cieco e gli amanti non possono vedere tutte le follie che compiono; se lo potessero, Cupido stesso sarebbe vergognoso, mirandomi così trasformata in garzone.
Lor. Discendete, perocchè voi dovete rischiararmi la via.
Ges. Che! Porre io in luce il mio errore? Oimè! esso non è che troppo palese. L’ufficio che mi addossate, mio amore, mi farà scoprire, mentre anzi converrebbe che restassi nascosta.
Lor. Voi lo siete, mia cara, sotto questo amabile travestimento. Ma venite senza indugi; perocchè l’oscura notte fugge a gran passi, e siamo aspettati alla festa di Bassanio.
Ges. Vado a chiudere le porte, e ad arricchirmi di qualche altro ducato, poscia sono con voi. (rientra)
Graz. Pel mio cappuccio! è una gentile, e non una ebrea.
Lor. Sciagura a me se non l’amo con tutto il cuore! Ella è saggia, per quanto posso giudicarne; è bella, se i miei occhi non m’ingannano; è sincera, come me lo ha provato; e per conseguenza come saggia, bella e sincera rimarrà sempre nel mio cuore costante (entra Gessica). Sei tu venuta? Miei amici, partiamo. I nostri compagni mascherati ci aspettano. (esce con Ges. e Sal.; entra Antonio)
Ant. Chi è là?
Graz. Signor Antonio!
Ant. Vergogna, vergogna, Graziano; dove son gli altri? Battono le nove; tutti i nostri amici vi aspettano. Non vi saranno mascherate questa sera. Il vento s’alza e Bassanio s’imbarcherà fra poco: ho mandato almeno venti persone a cercarvi.
Graz. Ne godo; nulla più desidero, che di partire questa notte. (escono)
SCENA VII.
Belmont. — Un appartamento nella casa di Porzia.
Squillo di corni. Entra Porzia col principe di Marocco e il seguito d’entrambi.
Por. Si sollevino le cortine e si mostrino gli scrigni a questo nobile principe. — Ora fate la vostra scelta.
Mar. Il primo è d’oro, ed ha questa scritta: chi mi sceglie, otterrà quello che molti desiderano; il secondo è d’argento, e dice, che chi lo elegge avrà quanto merita. Il terzo è di grave piombo e porta un’iscrizione degna di lui: chi mi prende convien dia ed arrischi tutto ciò che ha. Come mi comporterò io in questa mia elezione?
Por. L’uno dei tre, mio principe, contiene il mio ritratto, e se voi lo sciegliete vi appartengo insieme con lui.
Mar. Qualche nume determini la scelta mia! Vediamo. Vuo’ rileggere le iscrizioni. Che dice questo scrigno di piombo? Chi mi prende convien dia ed arrischi tutto ciò che ha. Convien dia... Perchè? Per un po’ di piombo? Arrischiar tutto per un po’ di piombo? Questo scrigno minaccia; non si arrischia tutto che per la speranza di grandi avvantaggi: una nobile mente non si lascia cattivare da sì basse mostre. Non vuo’ nè dare, nè arrischiar nulla per un vil piombo. — Che dice lo scrigno d’argento col suo virgineo colore? Chi mi elegge otterrà quanto merita. Quanto merita? Fermati, Marocco, e pesa il valor tuo con equa mano. Se tu giudichi del tuo prezzo dall’opinione che hai di te, meriti abbastanza; ma abbastanza non basta per ottenere sì vaga donzella. E inoltre sarebbe viltà il disprezzarsi. Quanto merita! In verità è appunto questa fanciulla: ed io la merito per nascita e per ricchezze; per le mie grazie e pei pregi dell’educazion mia; ma più che tutto la merito per il mio amore. Che avverrà se non vo più lungi e scelgo qui? Ma leggiamo anche una volta la scritta d’oro: chi mi sceglie otterrà ciò che molti desiderano. Questa fanciulla tutti la desiderano: dai quattro angoli della terra si accorre per baciare questa reliquia, per respirare il sant’alito di questa mortale. I deserti d’Ircania e le vaste solitudini della sterile Arabia son divenuti cammini popolosi, dacchè i monarchi di quelle regioni si affrettano per venire a contemplare la bella Porzia: i liquidi regni dell’Oceano, la di cui testa ambiziosa vomita i suoi flutti sulla faccia dei cieli, non è barriera bastevole a ritenere l’ardore di quei forestieri, tutti vengono come sopra un ruscello per vedere la vaga Porzia. Uno di questi tre scrigni contiene il suo celeste ritratto. È egli possibile che il piombo lo contenga? Dannazione a chi formasse sì basso pensiero! tal metallo è troppo rude per chiudere pure il suo lenzuolo nella notte della tomba. O crederò io ch’ella è nascosta fra l’argento e sta così dieci volte al disotto del valor suo? Colpevole pensiero! Non mai sì ricca gemma fu incastonata in metallo meno puro dell’oro. V’è in Inghilterra una moneta aurea che porta l’impronta di un angelo alla superficie: ma qui è veramente un angelo celeste. — Datemi la chiave; qui fo la mia scelta, e così sia io avventurato!
Por. Prendete principe, e se il mio ritratto si trova colà io son vostra.
Mar. (aprendo lo scrigno d’oro) Oh inferno! Che è codesto? Un cadavere che ha nel vano dell’occhio una pergamena? Leggerò lo scritto.
«Tutto quello che splende non è oro, e spesso l’avrete inteso dire. Molti uomini han venduta la loro vita solo per vedermi al di fuori; le tombe dorate racchiudono vermi; foste voi stato tanto savio quanto ardito, giovine di membra e vecchio d’intelletto, la vostra risposta non sarebbesi rinvenuta in questa pergamena. Addio; falliste lo scopo».
Così è veramente; ed ogni fatica è perduta; addio dunque, fuoco del cuore; e tu, indifferenza, risanami col tuo alito assiderato. Porzia, addio! Son troppo afflitto per poter prorompere in lamenti: i veri sventurati così si dipartono. (esce)
Por. Eccocene fuori. Chiudete di nuovo le cortine: e possano tutti gli uomini di quella tinta sceglier del pari! (escono)
SCENA VIII.
Venezia. — Una strada.
Entrano Salarino e Salario.
Salar. Ebbene, vidi salpar Bassanio; Graziano andò con lui, ma non Lorenzo, ne son sicuro.
Sal. Quell’empio giudeo svegliò colle sue grida il Doge, che venne per far ricerca del vascello di Bassanio.
Salar. Troppo tardi venne, il vascello già veleggiava: ma si è fatto credere al Doge che furon veduti insieme in una gondola Lorenzo e la sua amata Gessica: oltrechè Antonio lo accertò che non istavano nella medesima nave con Bassanio.
Sal. Non mai vidi furore più forsennato, bizzarro e violento di quello a cui si abbandonò l’ebreo per le strade. La mia figlia! — Oh i miei ducati! — Oh la mia figlia! Fuggita con un cristiano! Oh miei cristiani ducati! — Giustizia! Legge! I miei ducati, la mia figlia! Un sacco, due sacchi di ducati, di doppii ducati, rubatimi da mia figlia! Gioielli, pietre, due ricche e preziose pietre rapitemi dalla figlia mia. — Giustizia! trovatela! ella reca con sè le pietre e i ducati.
Salar. Tutte le ciurme di Venezia lo seguono gridando: le sue pietre, la sua figlia e i suoi ducati.
Sal. Antonio attenda al suo impegno, o altrimenti gli sarà duro lo scontarlo.
Salar. Con ragione lo rimembrate. Parlai ieri con un francese, che mi disse che sull’angusto stretto che separa la Francia dall’Inghilterra era perito un vascello del nostro paese, portatore d’un ricco carico. Ciò udendo pensai ad Antonio, e desiderai in segreto che non fosse de’ suoi.
Sal. Fareste meglio dicendo ad Antonio quel che sapete; ma non adoprate però modi troppo schietti, per non affliggerlo.
Salar. Non v’è uomo più gentile sulla terra. Ho veduto Bassanio ed Antonio separarsi: Bassanio gli diceva che sarebbe presto ritornato; Antonio gli rispondeva: «guardatevene bene, Bassanio, non guastate le vostre cose per cagion mia; e impiegate tutto il tempo necessario a riescire. Intorno alla polizza che sta fra le mani dell’ebreo, il vostro spirito innamorato non la curi. Siate lieto e la vostra mente non intenda che a trovare i mezzi atti a commuovere la vostra amante». A queste parole cogli occhi pregni di lagrime, e volgendo altrove il volto, gli ha stesa la mano, ed ha stretta quella dell’amico con una sensibilità ineffabile. Dopo di ciò si sono separati.
Sal. Credi, ei non ama la vita che per l’amico suo. Corriamo, a cercarlo, te ne prego, e con qualche piacere procuriamo di distoglierlo da quella malinconia, a cui tanto gli piace d’abbandonarsi.
Salar. Andiamo. (escono)
SCENA IX.
Belmont. — Una stanza nella casa di Porzia.
Entra Nerissa con un domestico.
Ner. Presto, presto, tira le cortine; il principe di Aragona ha giurato, e viene ora a fare la sua scelta. (squillo di corni. Entrano il principe d’Aragona, Porzia e il loro seguito)
Por. Mirate, ecco gli scrigni, nobile principe. Se voi eleggete quello in cui sta la mia effigie, il nostro imeneo sarà tosto celebrato. Ma se fallite, convien, signore, che esciate da questi luoghi senza altri discorsi.
Ar. Mi sono vincolato con giuramento ad osservare tre cose: prima, di non mai rivelare ad alcuno lo scrigno da me scelto: secondo, se la mia scelta non è felice, di non far più alcuna proposta di matrimonio ad alcuna donna; terzo, se la fortuna non mi protegge, di abbandonarvi e di partir tosto.
Por. Sono le condizioni che giurano di osservare tutti quelli che vengono ad avventurarsi per me.
Ar. E sottomesso mi vi sono venendovi innanzi. Fortuna, fammi trovare la speranza del mio cuore! Oro, argento e piombo. Chi mi prende, convien dia ed arrischi tutto ciò che ha. Dovresti avere una più bella apparenza, se volessi che per te mi avventurassi. E l’aureo scrigno che dice? Ch’io vegga: Chi mi sceglie, otterrà quello che molti desiderano. Ciò che desiderano! allude forse allo stolto volgo che si determina nelle scelte per le apparenze, non veggendo nulla al di là di ciò che il suo occhio allettato gli mostra; che non penetra mai fino all’interno, ma simile alla rondine intreccia il nido al di fuori del muro, esponendolo all’ingiuria dell’aria e a mille altri accidenti. Io non isceglierò quello che molti desiderano: non mi porrò nel novero degli spiriti volgari per confondermi fra la rozza moltitudine. A te io ricorro, ricco santuario d’argento. Ripetimi la tua iscrizione: Chi mi elegge otterrà quanto merita. Ben detto. Perocchè chi può cercare di schermire la fortuna e d’innalzarsi onorevolmente senza merito? Niuno presuma rivestirsi d’onori di cui è indegno... Oh! piacesse al Cielo, che i beni, le ricchezze, le dignità, carpite non fossero colla corruzione, e che il puro e splendido onore non si acquistasse mai che colle virtù di quegli che ne è rivestito! Quante persone che son nude, andrebbero coperte! Quante che comandano, sarebbero serve! Quanti grani di bassezza da separare dai veri semi dell’onore! Quanto onore si troverebbe nascosto nelle capanne e nei tuguri, a cui restituire si dovrebbe tutto il suo splendore antico. Ma scegliamo. Chi mi elegge otterrà quanto merita. Prenderò quello che merito. Datemi la chiave: ed aprirò tosto questo scrigno.
Por. Troppo tempo avete perduto per quello che rinverrete qui.
Ar. Che vi è? Il ritratto di un idiota, che con occhio stupido mi presenta un foglio! Vuo’ leggerlo. Quanto diverso tu sei da Porzia! Quanto sei lungi dalla mia speranza e dal merito mio! Chi mi elegge otterrà quanto merita. Non meritava io di meglio della testa di uno stolto! È questo il valor mio? Son questi i miei meriti?
Por. Offendere e giudicare sono uffici diversi e di opposta natura.
Ar. Che dice qui?
«Il fuoco ha messo alla prova sette volte questo metallo; e sette volte è maturo quel giudizio che con rettitudine fu dato. Sonvi persone che non abbracciano che le larve; e ad esse non tocca che l’ombra della felicità! Io so che esistono sciocchi sopra la terra vestiti d’argento com’io; sposate la donna che vorrete, la vostra testa sarà la mia sempre. Itevene ora, signore, siete libero».
Quanto più restassi in questi luoghi, tanto più mostrerei la mia follia; venni per amoreggiare con una testa di stolto, e me ne ritorno con due. Addio, signora, adempirò al mio giuramento di sopportare con pazienza la mia sventura. (esce col suo seguito)
Por. Il tarlo si è abbruciato alla luce. Oh, gli imbelli! Allorchè scelgono, ragionano tanto che sempre s’ingannano.
Ner. L’antico adagio dice il vero: appiccati o maritati, ciò dal destino dipende.
Por. Tirate le cortine, Nerissa. (entra un Domestico)
Dom. Dov’è la signora.
Por. Eccola; che vuoi?
Dom. Signora, è disceso alla vostra porta un giovine veneziano, che precede il suo padrone per annunziarne l’arrivo, e presentarvi per incarico suo i suoi saluti, insieme con doni di un alto prezzo. Non ho mai veduto più amabile messaggiere d’amore. Non mai per annunziare qual fertile estate s’avvicini si vidde risplender nella primavera giorno più bello.
Por. Basta, te ne prego; temo quasi che tu frappoco non mi dica ch’egli è tuo parente, udendoti fare tanta pompa di spirito per esaltarlo. Vieni, vieni, Nerissa, ardo dal desiderio di vedere questo messaggiere d’amore, che con tanta grazia si presenta.
Ner. Sia egli Bassanio, o Amore, se tale è il voler tuo! (escono)