Il Buddha, Confucio e Lao-Tse/Parte Seconda/Capitolo IX
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Capitolo IX.
Il Taoismo.
§ 1. — I letterati e i filosofi della scuola confuciana chiamano tutte le dottrine non conformi alla loro, le quali si professano in Cina, col nome generico di I-tuan, che verrebbe a dire «Precetti o principii opposti alla ragione». Vi comprendono: 1° gl’insegnamenti di Lao-tse, 2° quelli di Cuang-tse, 3° la credenza negl’immortali, e 4° la fede buddhica. In sostanza però, l’eterodossia cinese si può ridurre, al Taoismo e al Buddhismo; inquantochè i primi tre insegnamenti, nominati di sopra, han contribuito tutti insieme a formare l’odierna religione del Tao. Giova non pertanto distinguere in essa i diversi elementi, che la compongono; e non attribuire a Lao-tse le molte pratiche superstiziose e stravaganti, che la deturpano. L’intero sistema taose è il resultato dell’unione di tre dottrine diverse, le quali sono:
La Filosofia e la Metafisica, che hanno per base gli scritti di Lao-tse, di Lieh-tse e di Cuang-tse.
La Magia e l’Alchimia, che ebbero principio con Chi-sung-tse, e progredirono per opera di Wei-Peh-yang, di Siu-she, di Li-shao-kün e d’altri.
La dottrina degl’incantesimi, degli scongiuri, dei sortilegi, che cominciò con Cang-Tao-ling e si continuò per via di Kheu-Khien-ce fino a oggi.
Quest’ultima è relativamente moderna, non risalendo più in là del primo secolo dell’èra nostra. L’Alchimia e la Magia hanno un’origine più antica; e a stare a quel che affermano autori indigeni, eran già praticate prima che venisse al mondo Lao-tse. Ma i seguaci del Tao, amando dare un nascimento comune a tutte le varie pratiche e le varie credenze della loro religione, e riporlo nell’antichità più remota, riconducono tutte le sètte al tempo dell’imperatore Huang-ti, che regnò or son più di quarantacinque secoli. L’espressione Huang-Lao, con la quale si vuole invocare il nome del detto sovrano e quello del filosofo Lao-tse, è oggi la formula mistica per indicare la dottrina del Tao.
Adoprandoci ora a fare una succinta istoria delle origini di questo singolar sistema religioso, ragioneremo primieramente dell’Arte magica: argomento vasto, che a trattarlo compiutamente richiederebbe un intero libro, ma che io procurerò di ridurre nel più breve spazio che mi sarà possibile.
Parlando della religione degli antichi cinesi, dicemmo di certi enti immortali, che popolano la Natura, i quali si chiamano Shên: e si possono riguardare come personificazioni delle forze della Natura stessa, e de’ diversi fenomeni che appaiono nel mondo. A questa medesima qualità dì enti appartengono anche gli uomini che sono passati di questa vita. Vengono allora detti Shên umani; ed essi e gli altri, chiamati Shên celesti e Shên terrestri, formano oggetto di culto, anzi la sostanza del culto della Cina antica. Dichiarare il valore della voce Shên, piuttosto che arduo, è impossibile. Gli stessi Cinesi dicono: «tutto ciò che la gente non può chiamare con nome preciso, chiama shên». Del resto, rimandando a ciò che avvertimmo altrove su tal soggetto,1 noi continueremo anche qui a tradur quella parola genio o spirito; non perchè questi nostri vocaboli le si adattino giustamente, ma per non usar troppo di frequente il monosillabo cinese.
Ora dunque, per capir meglio quel che diremo fra poco, è necessario di aggiungere alcuna cosa intorno agli «Spiriti d’origine umana»; ma primieramente convien rammentare, che per «spirito» non devesi mai intendere anima immortale, superstite al corpo, e avente vita propria e individuale. Il corpo umano, secondo la credenza cinese, è formato di materia (Khi-Thi) e di spirito, o forza o energia che dir si voglia (Shén-Kuei). Nella materia si distingue il Khi, sostanza prima, originale, da cui sono uscite tutte le cose esistenti, e il Thi, sostanza organizzata. La prima è resa efficace e animata da una forza detta Hun «Energia vitale»; la seconda, da altra forza appellata Pho «Energia animale». La somma de’ fenomeni che si manifestano per l’unione della «Sostanza prima» (Khi) con l’«Energia vitale» (Hun) è quel che costituisce il Shèn, «Spirito». La somma de’ fenomeni, che si manifestano per l’unione della «Sostanza organizzata» (Thi) con l’«Energia animale» (Pho) costituisce quel che si chiama Kuei «Anima». L’Uomo consiste dell’unione di queste quattro parti. Alla morte, la materia che forma l’organismo (Thi) si disfà e torna alla terra; l’«Energia vitale» (Pho) sparisce col disfacimento del corpo; e l’«Anima» (Kuei), ritornata anch’essa nel seno delle forze che vivificano il mondo organico, si trasforma in altri fenomeni. La «Sostanza prima» (Khi) si spande invece per lo spazio; s’innalza, si purifica; diventa vapore, luce, calore, profumo; e lo «Spirito» (Shén), separatosi da essa come parte più eterea, si perde e si confonde in mezzo all’energia generale della Natura. Non mancano pertanto seguaci della Dottrina del Tao, che, ad esempio de’ Buddhisti, credono in una specie di Nirvâna; e Khang-thsang-tse, scrittore taoista dell’ottavo secolo, così si esprime: «Il mio corpo è strettamente legato con l’anima mia; questa, con la materia prima; la materia prima con lo Spirito (Shên), e lo Spirito è strettamente unito al nulla».
Dovendo frattanto definire che cosa siano questi «Spiriti», secondo il concetto cinese, si può dire che tutti gli «Spiriti celesti e terrestri» rappresentano insieme l’energia della natura, suddivisa all’infinito, secondo le forze e l’infinito numero di fenomeni, co’ quali si fan manifeste; e gli «Spiriti umani» rappresentano l’energia dello stato organico della materia, riguardata astrattamente negl’individui, dopo che essi si dipartirono dal mondo. Queste energie sono eterne, come è eterna la materia che le contiene, e per le quali essa si fa sensibile in modi diversi. Ora l’idea dell’immortalità dello spirto, che anima il corpo umano, intesa nel modo che siam venuti dicendo, fece nascere ne’ Cinesi, fin da tempo immemorabile, il desiderio di rendersi consci di quello stato, capaci di godere la felicità d’esistere per tempo indefinito. Ma non potendo immaginare un totale disfacimento del corpo, senza che le energie e le forze vitali anch’esse si dissipassero al tutto: non sapendo cercare in noi nulla che avesse virtù, morto il corpo, di continuare una esistenza propria, scevra dai bisogni e dalla tirannia della materia; si posero, i Cinesi, a cercare i mezzi di rendere questo nostro corpo durevole, atto a viver lungamente, e, se fosse possibile, in eterno; e ciò per via di trasformazioni e metamorfosi, quasi per via di sublimazione della materia che forma gli organi. A questo fine si rivolsero dunque le arti magiche in Cina: trovare un beveraggio, un elisire, una panacea, un Lapis philosophorum, che avessero cosiffatta potenza. Già più di duemila anni avanti la nostra èra si trovano uomini che se ne occuparono; e furon poi, fino a venire al tempo presente, seguiti da infinita generazione d’alchimisti e di maestri di magia. Gli uomini fatti longevi o immortali in virtù di cotali pratiche vennero chiamati Sien, che in vero significa «Uomo vagante, vagabondo». Imperciocchè quelli che procacciavano di diventare invulnerabili al tempo e a’ morbi, eran gente che dapprima si ritiravano su pe’ monti; ed or cercando erbe per comporre il miracoloso liquore andavano girando di vetta in vetta; or nascosti in una grotta o in un’altra, stavan meditando l’arte di distillare i semplici trovati a stento in luoghi quasi inaccessibili, e però tenuti dì virtù portentosa. Così menavano una vita piena di mistero, lontani dal consorzio degli uomini; i quali, non sapendo più de’ fatti loro, finivano per credere, che, trovata al fine la panacea della vita, si fossero fatti immortali per essa, e sì fossero involati al mondo, E quando agli occhi de’ viandanti si mostrava, pe’ sentieri montuosi, alcuno di questi eremiti alchimisti, con la barba e capelli lunghi e canuti, e con aspetto singolare; si teneva per fermo essere egli un di que’ tali, che s’eran fatti eterni, il quale vagava su per quelle balze, chi sa da quante centinaia d’anni. Fin che siffatti esseri si mantenevano vagabondi sulla terra, chiamavansi Sien; ma quando alcun d’essi, con qualche più sottile e maraviglioso artificio aveva trovato il modo di far che il corpo suo potesse volare pe’ campi del Cielo, allora era distinto col nome di Cên-jên, cioè a dire «Uomo che è giunto al più alto grado di perfezione, Uomo spirituale». Del resto, di questi Spiriti o Genii ve ne son nove specie; le quali si enumerano qui sotto: 1. Sien-jên, Uomini vaganti; 2. Fei-sien, Uomini vaganti che possono sorvolare sulla terra; 3. Ling-jên, Uomini eterei; 4. Cên-jên, Uomini spirituali; 5. Ling-sien, Spiriti eterei; 6. Fei-thien-Cên-jên, Spiriti volanti per gli spazi celesti; 7. Thai-shang-Cêng-jên, Spiriti che si possono innalzare ad altezza sublime; 8. San-thien-Cên-jên, Spiriti che hanno il dominio delle tre regioni del Cielo; 9. Kiu-thien-Cên-jên, Spiriti che hanno il dominio di tutt’e nove le regioni celesti.2
Fin da’ tempi di Shên-nung (2740 av. C.) parlavasi d’un personaggio chiamato Chi-sung-tse, che praticava la magia, e che tale arte aveva anche insegnata al suo sovrano. Abitava costui una città incantata, altri dicono una grotta, sul monte Khuen-lun, insieme con una fata celebre detta Si-wang-mu. Aveva egli trovato il beveraggio dell’immortalità, l’aveva preso e s’era reso eterno; e la leggenda dice che tale aveva fatta anche la figliuola minore di Shên-nung, per la gran fede ch’ella aveva nella magia.
A tempo dell’imperatore Yao (2350 av. C), Heu-I, arciere famoso al servizio di lui, che aveva per costume di lanciar frecce alla Luna, quand’essa eclissavasi, credendo liberarnela; Heu-I, dico, volle diventare anch’esso immortale. Cominciò ad andar per le montagne, in cerca di qualche mago, che avesse il segreto di far l’Elisir della vita; fino che trovò la fata Si-wang-mu, la quale dettegli il liquore prezioso. Tornato a casa col suo tesoro, la moglie Cang-ngo accortasene, involatolo al marito, se ne fuggì. E per tal maniera fattasi ella immortale, si ricovrò nella Luna, e ne divenne la dea: la Diana cinese, se vuolsi. Ma, anzi che avere le forme avvenenti della caccìatrice greca, essa si mostra a’ mortali sotto figura di un rospo, che i cinesi credono vedere anc’ora chiaramente alcuna volta nelle macchie lunari. Crebbe, dopo questo avvenimento, nella Luna un albero maraviglioso, detto albero Kuei, che si suppone essere una specie di Cassia; ma una Cassia miracolosa, le cui foglie hanno virtù di dar l’immortalità a chi ne mangia. Una lepre poi è al servizio della dea Cang-ngo; e pesta in un mortaio le foglie di quella pianta, e le altre droghe per far l’Elisir della vita, il quale la dea stessa e gli altri eterni impartiscono agli uomini che se ne resero degni. La lepre, che per antica credenza campa mill’anni, e concepisce, senza aiuto di maschio, solo a guardar la Luna, è certo tra gli altri animali il più degno d’adempire, in quell’astro, l’ufficio di confettare il beveraggio portentoso, sotto la protezione degl’iddii. L’albero Kuei, la Lepre, il pestello e il mortaio, si veggono, a dir de’ Cinesi, disegnati nelle macchie della Luna; le quali, secondo i filosofi del tempo de’ Sung, che sdegnano, come ognun può credere, siffatte fole, non son che ombre o immagini di monti, dì fiumi, di boscaglie e di pianure. Cang-ngo detta anche Hêng-ngo, la Dea della Luna,3 già moglie del detto arciere, si deve dunque a ragione tenere come la patrona degli alchimisti e de’ maghi dell’Impero di Mezzo.
Così è principiata la leggenda dell’Elisir della vita; la fede nella cui efficacia andò col tempo facendosi tanto grande, che la terra cominciò a supporsi popolata d’un numero sterminato di esseri, che con quel mezzo s’eran fatti immortali. Ma questi esseri vivevano nascosti, o poco si facevano vedere agli uomini; e specialmente si credeva che abitassero tre luoghi della terra, detti le «Tre isole degli Spiriti», le quali si chiamano Phêng-lai, Fang-cung e Ying-ceu, dove anche crescono i semplici, che servono a fare la straordinaria panacea.
Per continuare ancora un poco la storia della ricerca della Pietra filosofale, diremo che un tal Sung-Wu-ki, che s’era dato interamente a perfezionare l’umana natura, da renderla eterna, operò tante maraviglie, che le storie narrano avere egli in quel tempo, che era intorno al 400 av. C., un numero grandissimo di seguaci. Fu allora che s’intraprese una spedizione per mare, affin di rintracciare quelle tali isole, abitate da’ Genii, nelle quali nasceva l’erba dell’immortalità. La leggenda non dice qual fosse precisamente il frutto del viaggio; ma viene invece a discorrere, poco appresso, d’un altro famoso ricercatore del liquore magico. Costui, che aveva nome Siu-shi o Siu-fu, espose per iscritto le sue opinioni intorno a siffatta materia all’imperatore Thsin-shi-Huang-ti, di cui abbiamo avuto occasione di parlare a lungo,4 e gli chiese licenza d’andare alla ricerca di quelle terre sconosciute. Partì infatti sur una nave, in compagnia di molti giovanetti e di molte fanciulle, alla volta delle isole incantate; ma dopo aver percorso lungo tratto di mare, sbattuto da contrarii venti, ebbe egli a tornare in patria, senza aver toccato le prode desiderate: ciò fu l’anno ventottesimo del regno del nominato monarca, che risponde all’anno 219 av. C.
Circa un secolo appresso, la storia parla di un Li-shao-Kün, il quale aveva avuta da un mago per nome Ngan-khi-shêng la ricetta per fare la pietra filosofale, per fabbricar l’oro, e per dar l’immortalità. Ngan-khi-shêng era nativo di un villaggio del Shang-tung, e usava stare in riva al mare orientale a vender medicinali. Gli uomini del suo tempo lo stimavano vecchio di mill’anni, sicchè godeva fama di grande alchimista; e lo stesso imperatore Thsin-shi-Huang-ti, mentre viaggiava in quelle parti, volle vederlo, ed ebbe con lui un colloquio, che durò tre giorni e tre notti: e fu per sua istigazione che spedì Siu-shi alla ricerca delle isole de’ Genii, come di sopra s’è detto. Ora ritornando a Li-shao-kün, essendo egli venuto in possesso del prezioso segreto, e non avendo modo, essendo povero assai, di provvedersi degl’ingredienti necessarii, si rivolse all’imperatore, che allora era Wu-ti degli Han (149-86 av. C.), e gli offerse la ricetta per fare la pietra filosofale. Il sovrano, inclinato per natura a credere a siffatti prodigi, ebbe di ciò grandissima allegrezza; e oltre ch’egli stesso si pose ad attendere alle pratiche dell’alchimia, allestita una nave, volle eziandio mandare Li-shao-kün alla ricerca del mago Ngan-khi-shêng. Ma il viaggio non sortì l’effetto; chè Li-shao-kün, dopo aver navigato per alquanto mare, incontratosi in una compagnia d’altri fanatici ricercatori del beveraggio dell’immortalità, con essi si ritornò al sovrano, al quale non spiacque riceverli; tanto che la corte in poco tempo divenne una vera officina d’alchimisti e di maghi.
Coloro che fino a qui si dettero a queste arti, non appartenevano propriamente ad alcuna setta o scuola distinta; nè prendevano a pretesto, interpretandoli a diritto o a torto, i libri canonici, nè gli scritti di Lao-tse o altri simili, che erano da poco usciti fuori. Il primo libro, col quale si tentò di confortare le strane pratiche della magia con l’autorità delle Scritture, apparve nella metà del secondo secolo dell’era nostra. Narrano a questo proposito i libri cinesi, che Wei-Peh-yang, dato al tutto alle arti magiche, si ritirò con tre suoi discepoli sur un monte a fabbricare in segreto la pietra filosofale. Compiuta che ebbe l’operazione, conoscendo che i discepoli dubitavano che fosse riuscita bene, disse loro: L’elisire filosofale è fatto, ma giova innanzi darlo a un cane, per farne esperienza: se il cane vola, anche noi potrem prendere di quest’essenza; se il cane muore, non converrà che uomo ne assaggi. Il cane appena ebbe ingoiata la droga, morì. E Peh-yang disse: Certo sembra che questa pietra filosofale non sia ben confettata, secondo le idee de’ genii e degl’immortali; e temo forte che se noi la prendessimo, non ci accadesse danno. Maestro, dissero i discepoli, che far dobbiamo dunque? Al che Peh-yang rispose: Quanto a me, che ho detto addio al mondo, e mi son ritirato in questa solitudine a studiare la Scienza, sarebbe vergogna che ritornassi fra gli uomini senza aver conseguito il fine che mi era proposto; muoia o no, io devo prendere di questo confetto. E in così dire presane una porzione, non passò un istante che cadde morto al suolo. I discepoli si guardaron l’un l’altro e si dissero: Ecco che costui ricerca il modo d’allungar la vita, e si procura invece la morte! Che è questo mai? — Quando uno di loro si fece a dire: Il nostro maestro non era uomo volgare; e se gli è avvenuto ciò, non dev’essere senza ragione; perciò anch’io voglio prendere un poco di siffatta pozione a esempio suo. Ma non l’aveva ingoiata, che subito se ne morì egli pure. Allora i due discepoli che eran rimasti si fecero fra loro a ragionare: Siccome il fine di chi ricerca la pietra filosofale è di viver lungamente; e noi ora veggiamo che pigliandola, come que’ due han fatto, di certo si muore, teniamocela con noi, e non l’usiamo come si fa de’ farmaci: se non altro staremo a questo mondo una diecina d’anni ancora. E di subito usciti dal monte, al morto maestro e al condiscepolo apprestarono una bara, perchè almeno avessero onorata sepoltura. Appena s’erano essi allontanati di là, ecco che Peh-yang si leva su come fosse resuscitato, e preso alquanto elisire lo messe in bocca e al discepolo e al cane, che giacevano senza vita; i quali prestamente rinvennero e si rizzarono in piedi. Il maestro, il discepolo e forse anche il cane, diventati spiriti immortali, lasciarono subitamente quel luogo. Poco appresso Peh-yang compose un’opera in tre libri, che ancora si conserva, intitolata Thsang-thung-khi, nella quale si dimostra il modo di fare la pietra filosofale, desumendone il concetto dalla vera interpretazione del Yi-king, di sotto al velame delle metafore; inquantochè i letterati delle età passate, non conoscendo l’arte divina dell’alchimia e della magia, errarono nell’intendere i misteri delle forze della Natura, de’ quali si ragiona in quel testo. A questo modo si esprime un libro cinese, dove si raccolgono le vite e i miracoli di questi siffatti personaggi, e donde abbiam tradotta la novella delle gesto di Peh-yang, la quale poco sopra è stata riferita.
§ 2. — Lasciamo a questo punto la storia delle origini della magia, e veniamo a parlare brevemente di quella delle origini della filosofia e della metafisica, che formano la parte principale del sistema taose. La dottrina di Confucio cercò appoggio e autorità in Yao e in Shun (2365-2255 av. C.); la dottrina del Tao pretende avere il suo cominciamento da Huang-ti (2697-2597 av. C.). Ma Confucio dichiarò schietto che quel che insegnava non era opera tutta sua, e procurò di rendere altrui persuaso che non faceva che tramandare la sapienza antica; cosicchè i nomi dei due sovrani ora detti, e di altri simili personaggi, sono ricordati ad ogni pagina. Lao-tse nel suo scritto non nomina singolarmente alcuno, nè dice dove abbia preso la sua scienza; e l’aver fatto risalir tant’alto le fonti della dottrina del Tao è opera della scuola che nacque più tardi. Secondo i Taosi adunque, Huang-ti avrebbe anche scritto un libro, che si conserva tuttora, intitolato Yin-fu-king «Libro delle corrispondenze segrete». Fu un certo Li-tsiuan, che viveva al tempo della dinastia de’ Thang, il quale, fatto un commento a un’opera che aveva quel titolo, prese a sostenere nella prefazione che era scrittura di Huang-ti; ma tutto fa credere che testo e commento non siano che opera di Li-tsiuan stesso, come tien per fermo Cu-tse, critico di grande autorità appresso i Cinesi. Il modo stesso con cui sarebbesi ritrovato quell’antico libro, induce di per sè a dubitar del fatto. Li-tsiuan, che era un caldo seguace della dottrina de’ Genii, erasi ritirato, com’è costume di tal gente, nelle montagne a meditare. E mentre era in una grotta del Sung-shan, uno dei cinque monti sacri della Cina,5 gli apparve Huang-ti e gli consegnò il detto volume, sul quale era scritto: «Kheu-khien-ci, patriarca dei Taosi, il secondo degli anni cên-kün (442 d. C), lo trasmise a tutti i luoghi famosi d’eremitaggio». Li-tsiuan, benchè si fosse posto a copiare e studiare il libro ch’egli ebbe, non riuscì a chiarirne bene il concetto; e perciò recatosi al monte Li, nella provincia di Shen-si, se lo fece spiegare a passo a passo da una vecchia fata, che là stava da moltissimi anni. Altri dicono che il detto personaggio avesse avuto da Huang-ti il detto libro insieme con altra scrittura intitolata Su-shu. Ma le più delle leggende asseriscono, che quest’ultima fosse lavoro d’un personaggio favoloso chiamato Huang-shi-kung, il quale in ricompensa di certi atti d’umiltà fatti da un celebre Taose per nome Cang-liang o Cang-tse-fang, che viveva intorno a dugent’anni av. C., glielo diede in regalo. Questa scrittura che ancora si conserva, e che è posta alcuna volta in appendice alle edizioni del libro di Lao-tse, è di qualche importanza; non ostante che il Ma-Tuan-lin la chiami uno «zibaldone senza principio nè regola, composto di passi tolti da ogni sorta di libri».6
Un altro antico monumento scritto si vantano i Taosi di possedere, contemporaneo al Tao-te-king; e questo si attribuisce a Yin-hsi, primo discepolo di Lao-kün, del quale discorremmo già a suo luogo.7 Negli antichi ricordi della dinastia degli Han si fa menzione di nove capitoli attribuiti a costui; ma nelle storie delle famiglie Sui e Thang non ve n’è fatta più menzione. Soltanto negli anni yung-kia (307-313 d. C.) si credè d’aver rinvenuto il detto libro, a capo del quale era una perfezione che portava il nome di Liu-Hsiang;8 ma lo stile del libro e della perfezione dimostrano chiaramente che l’opera è apocrifa.9
Ma venendo a scrittori, tra’ più antichi e più celebri, della scuola di Lao-tse, su l’autenticità de’ quali non può cader dubbio, sono da nominare Wên-tse,10 Cuang-tse e Lieh-tse. Il primo sembra verosimile che fosse immediato discepolo di Lao-tse stesso; e la tradizione vuole che raccogliesse in dodici capitoli le conversazioni ch’egli ebbe col maestro. Quest’opera andò spersa per alcun tempo; solamente negli anni thien-pao (742-756 d. C.) si rinvenne un libro intitolato Thung-yüan-cên-king, che portava il nome di Wên-tse: libro che poco appresso fu dato alla luce. Ma tanti furono gli errori che incorsero nella pubblicazione di questo volume, che appena si potè ricavare il concetto dell’autore. Un letterato cinese, per dare un’idea del contenuto di detta opera, cita alcune sentenze, che mi piace anche a me di riferire, come saggio de’ pensieri di Wên-tse. «— Lo spirito è abbondanza di sapienza; purità di spirito è splendor di sapere. La scienza è tesoro dell’anima; giustezza di cognizioni è pace del cuore. — Gli uomini sommi intendono con lo spirito, i mezzani con l’animo, i volgari con le orecchie. — Il potente bada solo a ciò che può signoreggiare; il facoltoso a ciò che può desiderare; il povero a ciò che può amare. — L’uomo per natura ama la felicità, ma il continuo desiderio di quella sempre più ne lo allontana».
Il più singolare ingegno della scuola Taose è indubitabilmente Cuang-tse, e meriterebbe che si dicesse ampiamente di lui e de’ suoi scritti. Ma non avendone io a mano gli originali, e non essendovi, ch’io mi sappia, traduzione europea, dovrò contentarmi di poche parole.11 Cuang Ceu-tse-hsiu, conosciuto più comunemente col nome di Cuang-tse, nacque nella città di Mêng, nell’antico territorio di Sung, che oggi è parte della provincia di Ho-nan.12 Vago di cognizioni non lasciò niente inosservato, nè mancò di studiare le diverse dottrine delle scuole del suo tempo. Gl’insegnamenti di Lao-tse ebbero presto il suo pieno aggradimento, e ne divenne il campione più vigoroso. Persuaso che gli uomini sian la sola cagione della propria infelicità e del male che è nel mondo; e ciò principalmente in virtù della dottrina confuciana, che proclamavali la più nobil parte dell’universo; assecondando il loro orgoglio, pascendo le loro vanità, moltiplicando i loro desiderii divenuti oramai insaziabili; non volle aver nulla che fare con la scuola di Confucio, Per questo tutto il creato era in potestà dell’uomo, per Cuang-tse l’uomo era poco più che nulla a fronte di tutta la creazione. Ei trovò ridicolo quest’atomo, che si crede un gigante; questo schiavo delle passioni, che si dice signore del mondo; questo vermicciuolo, a cui ogni granel di sabbia è ostacolo insormontabile, che pretende dar legge all’Universo. Gli sembrò che Lao-tse rimettesse l’uomo al suo vero posto, d’onde non avesse troppo a insuperbire; almeno che gli desse il più savio consiglio, che si possa dare a creatura, la quale, quando opera, non fa che danno a sè e agli altri: il consiglio cioè di non far mai nulla, di mantenersi costantemente nello stato d’inazione. Cuang-tse stesso praticò quanto gli fu possibile la singolare dottrina del «non-fare», che è la base del sistema di Lao-tse, come vedremo in processo; e non ostante che, per la fama d’uomo savio e sapiente che s’era acquistata, fosse ricercato a molte corti, specialmente a quella del sovrano di Thsu (330 av. C.), non volle mai nessun’ufficio, e si mantenne fino alla morte lontano da ogni pubblica faccenda. Il nostro filosofo taose scrisse un’opera che porta il titolo di Nan-hoa-cên-king, la quale è una continua satira de’ seguaci di Confucio, e un’illustrazione de’ principii del Tao. Non è da credere come la scuola de’ Letterati si levasse contro quest’irrisore delle venerate dottrine di Yao, di Shun e di Wên-wang; contro quest’uomo che cercava tutto sconvolgere l’ordinamento sociale. Uno de’ detti letterati, avendo a parlare di Cuang-tse e del suo libro, scrive fra le altre cose quello che segue: «Dopo la morte di Confucio, le sacre dottrine che erano la gloria del tempo antico, andarono ogni giorno più decadendo; e come se ciò fosse poco venne Lao-tse a scrivere un volume, dove insegnava il non-fare e la spontaneità. Ed ecco Cuang-tse, i quale divien così caldo ammiratore di quel filosofo, che si pone anch’egli a comporre un’opera così funesta, che molti savii prevaricarono e deviarono dal retto sentiero. Per essi le sante leggi che reggono lo Stato, furono minacciate di totale rovina; e non s’hanno ad aver in odio le parole di siffatti filosofi, che s’adoperano a rovesciare l’ordine naturale delle cose?».
Intorno a Lieh-tse, o Lieh Yü-khen non si hanno che scarse notizie. Liu-Hsiang13 che parla distesamente di molti autori antichi, non dice di lui altro che era nativo dello stato di Chêng,14 e che era contemporaneo del principe Muh-kung. Quest’ultima asserzione però è evidentemente erronea, inquantochè Muh-kung visse molto più d’un secolo avanti di Confucio; e alcuni fatti riportati di altri autori mettono il nostro filosofo in relazione con un personaggio, che viveva intorno a quattrocent’anni prima dell’èra nostra. Per quel che concerne le dottrine di Lieh-tse, si volle vedervi molta attenenza con le dottrine buddhiche; non ostante che in quel tempo pochi fossero i libri di Çâkyamuni penetrati nella Cina, e que’ pochi non si rinvenissero facilmente. Cu-tse, in un luogo citato dal Ma-Tuan-lin, mentre loda come bello e vigoroso lo stile di Cuang-tse, qualifica di stentato e scorretto quello di Lieh-tse. Del resto è cosa molto dubbiosa che il libro, il quale va col suo nome, sia proprio opera sua; non essendo stato pubblicato che molti secoli dopo la morte del detto filosofo.15
§ 3. — Cang-Tao-ling è capo della scuola taose, che mise in vigore gli scongiuri, gl’incantesimi e i talismani; scuola, la quale molto assomiglia alla buddhica, che pratica di Dhâranî e i Tantra.16 Ciò non vuol dire che l’alchimia e le altre arti magiche, di cui abbiamo tenuto parola poco sopra, fossero cadute in disuso; ma il fine che si proponevano i seguaci della nuova setta, poteva esser conseguito, oltre che pe’ detti artifizii, anche per via di sortilegio e d’incanto. La guarigione delle malattie, la distruzione delle influenze malefiche, il modo di fabbricar l’oro, la longevità, l’immortalità, erano le cose che tentavan procurarsi con nuove arti e più potenti, unite alle antiche. Questo celebre seguace della dottrina del Tao viveva nella prima metà del primo secolo della nostra èra. In quel tempo la magia era entrata addirittura a far parte della dottrina, che continuava a portare il nome di Lao-tse; e taose e ricercatore de’ segreti della scienza arcana erano una medesima cosa. Cang-Tao-ling dapprincipio si mise a studiare i libri classici e i canonici della scuola confuciana; ma vedendo, dice la leggenda della sua vita, che un tale studio non insegnava l’arte di allungar d’un giorno la vita umana, lasciò i King de’ letterati, e si dette all’alchimia, alla magia e all’astrologia. Si ritirò sul monte Lung-hu nella provincia di Kiang-si, dove stette per più di cent’anni, conservandosi fresco e vigoroso come un giovanetto. Lo spirito di Lao-tse lo visitava spesso; ed anzi gli consegnò varii libri di segreti, che lo aiutarono a comporre la gran pietra filosofale, che riuscì a fabbricare a perfezione; dopo di che, innalzatosi su per lo spazio, si perse nelle nuvole. Il suo figliuolo Cang-Heng fu l’erede della dottrina arcana del padre; e il monte Lung-hu diventò uno de’ luoghi più famosi, nella storia del Taoismo. La tradizione di Cang-Tao-ling si continuò a questo modo fino al quinto secolo d. C.; quando un taose per nome Kheu-Khien-ci, proclamatosi il vero discendente e successore di costui, prese il titolo di Thien-shih «Celeste maestro»; e istituì una specie di patriarcato, che doveva presiedere alla Chiesa taose. Si trovò allora che Cang-Tao-ling era discendente, in ottava generazione, di Cang-Liang autore del Su-shu, come abbiam già visto, e si cercarono anche più in antico i primi pontefici del Taoismo. Questo patriarcato proseguì senza intenzione fino al 748 d. C., anno, in cui Hsüan-tsung della dinastia de’ Thang lo riconobbe officialmente, confermò il titolo di Thien-shi, e concesse privilegi ereditarii. In appresso l’imperatore Cên-tsung de’ Sung l’anno 1016 assegnò come appannaggio di questi patriarchi, o pontefici che dir si voglia, molte terre in vicinanza del monte Lung-hu, sede dei Thien-shi, le quali, per la liberalità de’ sovrani che vennero poi, s’andaron sempre accrescendo.
Note
- ↑ Vedi Parte seconda, cap. i, pag. 274.
- ↑ Questi sono gli spiriti dei Taosi che hanno conseguito il fine, a cui tendono le pratiche della loro religione; ma se si riguardano questi enti in sè stessi, la mitologia taoista li distribuisce allora in cinque classi. 1a Kuei-sien, Spettri vaganti e irrequieti: 2a Jên-sien, Uomini che seppero affrancarsi dalle passioni e dalle malattie; 3a Ti-sien, Uomini che ottennero d’essere immortali su la Terra; 4a Shên-sien, Spiriti immortali che hanno lasciata la terra e sono andati ad abitare le tre Isole incantate; 5a Thien-sien, Spiriti celesti, che vivono perpetuamente nelle pure regioni dell’Etere.
- ↑ Essa è anche Dea pronuba, e si crede che leghi pe’ piedi, con certi nastri rossi, le coppie de’ fidanzati.
- ↑ Vedi pag. 323 e seg.
- ↑ Vedi pag. 432 in nota.
- ↑ Wên-hsien-thung-khao, lib. 211, fol. 27.
- ↑ Vedi pag. 447 e seg.
- ↑ Vedi pag. 396-397.
- ↑ La tradizione parla anche di un altro libro in quindici capitoli, intorno alla dottrina del Tao scritto da Lao-lai-tse, contemporaneo di Confucio e di Lao-tse: libro oggi perduto.
- ↑ Wên-tse di casato chiamavasi Sin, ed era anche cognominato Ki-jên: era nativo di Kuei-kiu in Ho-nan.
- ↑ Il prof. Leone de Rosny pubblicò la traduzione e il testo di un sol capitolo dell’opera di Cuang-tse, nei suoi Textes chinois anciens et modernes, Paris, 1874.
- ↑ Nella provincia di Ho-nan erano due città di questo nome, una a settentrione di Kuei-te-fu chiamata Gran Mêng, l’altra a mezzogiorno del luogo stesso detta Piccola Mêng, ed è in questa che nacque il nostro Filosofo.
- ↑ Vedi pag. 396-397.
- ↑ Oggi Chêng-ceu nel Khai-fêng-Fu, provincia di Ho-nan.
- ↑ Vedi pag. 395, n. 1.
- ↑ Vedi pag. 133.