Idillii spezzati/L'Orologio di Lisa
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L’Orologio di Lisa
Io ero creditore, nel 1877, di circa trentamila lire verso la nobile famiglia Vicarelli di Battaglia, che da un’antica floridezza veniva cadendo, per eccessive spese e per mala amministrazione, in rovina. Da due anni non toccavo un soldo d’interessi. Pazientai, pregai, sollecitai; finalmente, spintovi dalle strettezze del mio modesto bilancio, ricorsi alle vie giudiziarie e ottenni un sequestro. Battaglia è così lontana dalla mia residenza abituale e io sono tanto occupato che per ogni trattativa con i fratelli Vicarelli e per la scelta del sequestratario dovetti interamente affidarmi al mio egregio avvocato di Monselice, al quale comunicavo tutti gli scritti che mi pervenivano circa questa malaugurata faccenda. Purtroppo non potevo fargli la girata anche delle noiose visite onde mi onorava di quando in quando un vecchio signore di Padova, che si faceva annunciare «dottor Molesin» e che soleva pure mandare dei letteroni interminabili, sottoscritti Angelo D. Molesin, consulente legale. Questo Molesin mi veniva sempre innanzi con informazioni, proposte o consigli, ora a nome dei Vicarelli, ora a nome di altri loro creditori, ora a nome del sequestratario, ora nel proprio nome suo e quasi per un’amorevole sollecitudine degl’interessi miei, per un desiderio virtuoso della giustizia e del bene; perchè in fatto egli non aveva alcun interesse personale diretto nella vertenza cui aveva cominciato a mescolarsi come consigliere di una vecchia merciaia di Padova, creditrice dei Vicarelli. A me non domandò mai danaro, ma seppi che i Vicarelli si lagnarono una volta o due delle spese incontrate per i consulti, i viaggi e le epistole del dottor Molesin. Col sequestratario egli parve guastarsi presto. Me lo denunciò come un furfante di tre cotte e me ne descrisse le imprese con quella sua spaventosa prolissità che riempiva fogli e fogli di prosa curialesca, brodosa, tutta seminata dì spropositucci. L’altro non mancò alla sua volta di dipingermi l’avvocato Molesin come un vampiro. Quanto a me m’andavo persuadendo che fossero due valentuomini eiusdem farinae. Il giallognolo dottor Angelo era di una farina per lo meno assai mal cotta, benché impastata da oltre cinquant’anni. Aveva il cranio pelato; pochi cernecchi grigi dietro gli orecchi lustri e sudici; nella faccia scarna, terrea, e negli occhi profondi una espressione fissa di malumore bilioso; le mani ossute e nere. Portava sempre lo stesso soprabito color marrone, lo stesso fazzoletto rosso e giallo al collo, gli stessi calzoni bigi, e si poteva sospettare che portasse anche sempre la stessa camicia. Pareva una rispettabile, odiosa figura di onesto professore pedante, nemico della gioventù, dell’amore, del riso, della luce e dell’acqua. Non aveva modi ossequiosi; sorrisi e complimenti non erano affar suo; qualche volta pareva durar fatica a levarsi il cappello anche nel mio studio. Compreso della propria sapienza, quando degnava largirmi qualche consiglio prendeva un sensibile accento di stima per sè stesso e di compatimento per me. Insomma il nome Molesin, che in veneto vuol dire morbido, non andava certo bene alla corteccia del dottor Angelo. Egli non era nè morbido, nè untuoso. Tuttavia aveva ragione il mio domestico se, considerando le sue visite eterne, lo chiamava «dolor tacaizzò» dottore attaccaticcio. Malgrado la sua ruvidezza esteriore, aveva certo una gran facilità di appiccicarsi alla gente. Per non dire dei ricci di castagna, vi hanno seccumi ruvidi d’erba, frutti aridi e maligni di prati montani, che si attaccano alle vesti così. Si era fatto avanti in questo affare capitanando la merciaia e aveva finito con appiccicarsi a tutti, creditori e debitori. Evidentemente le sue pratiche officiose non miravano ad altro che a tirar le cose in lungo, appunto cole molesine come diciamo noi veneti, per dar tempo al Molesin di viaggiare ancora fra Padova, Monselice e la mia residenza, di conferire con Tizio e con Caio e di procreare le sue mostruose epistole con quei caratteri compassati e sottili che solo a vederli mi opprimevano lo stomaco. Il mio egregio avvocato di Monselice, ben ferrato contro le arti molesine, spinse le cose al punto che, in contradditorio dei fratelli Vicarelli fu stabilito dal tribunale il 10 ottobre 1877 per la vendita all’asta pubblica dei beni ipotecati. Agli ultimi di settembre eccoti una delle solite vaste sopraccarte arancione, ecco i caratteri stomachevoli dell’amico Molesin.
Egli si doleva, in tre pagine, del mio precipitoso avvocato, e mi pregava, in tre altre pagine, di far rinviare Pasta al 10 novembre, perchè nel frattempo, molto probabilmente, si sarebbero accomodate le cose all’amichevole. Qui il facondo uomo mi spiegava in sei pagine come i Vicarelli stessero negoziando un mutuo di diciottomila lire con la Banca Popolare di Treviso e la vendita di una casa col signor Zonca negoziante di legname a Padova fuori Porta Codalunga. Se le trattative affidate a lui, Molesin, approdassero, il mio credito verrebbe saldato senz’altro, capitale, interessi e spese. Mandai la lettera al mio avvocato il quale mi consigliò di pigliare informazioni presso la Banca Popolare e presso il signor Zonca. Risolsi di recarmi io stesso a Treviso e a Padova. Diffidavo dell’onorevole Molesin, ma non lo avrei creduto, fino a quel giorno, l’audace briccone che allora scopersi. Alla Banca Popolare di Treviso non avevano mai udito parlar di lui nè dei Vicarelli, e nè fuori di Porta Godalunga nè in alcuna altra via o sobborgo dì Padova esisteva alcuna ditta Zonca.
Il furfante aveva giuocato una carta arrischiata per mungere ancora un poco le sue vittime, specialmente quei disgraziati Vicarelli cui sarebbero anche toccate le spese per la rinnovazione del bando. Ma il giuoco essendo mal riuscito mi disposi a far sì che l’ottimo dottor Angelo pagasse. Andai a Santa Sofia dove sapevo che abitava, e trovai presto, sotto un portichetto oscuro, a fianco d’una porticina verde, il riverito nome «Angelo D. Molesin — secondo piano». Egli era uscito, ma la sua signora, che venne in persona ad aprirmi, udito il mio nome, mi assicurò che l’avvocato avrebbe rincasato assai presto, e mi fece passare in un salottino dove sua figlia, una giovinetta sui tredici anni, stava ricamando. V’era nell’aspetto pulito e triste della stanzetta, nella dignitosa simmetria dei pochi arredi e persino nelle vesti scure delle signore la espressione, modesta e tuttavia alquanto contegnosa di una vecchia civiltà in piccola fortuna. La signora Molesin, sbiadita figurina ascetica dagli occhi di pecorella, aveva evidentemente nella faccia esangue quarantacinque anni di mansuetudine costante, le spalle curvate da altrettanta soggezione, una voce schiacciata e vôta d’anima, la più misera insipidezza di parola. La signorina, invece, piuttosto alta e sottile, aveva un viso singolare, ardito, già illuminato d’intelligenza e di volontà, non senza certa fierezza nascente negli occhi.
— Si accomodi, — fece la signora pecora ascetica, ponendosi alla sua volta a sedere in silenzio, con le mani giunte sulle ginocchia, con l’abito spiegato a campana sul canapè e il busto irrigidito. Io guardavo la parete e lei guardava la finestra. Questo bel divertimento durava da tre o quattro minuti, quando la signora, senza dipartirsi dalla sua solenne attitudine, belò alla figliuola:
— Lisa, ti ha detto niente papà quando è andato via? La ragazza, che aveva già lanciato a sua madre più di un'occhiata malcontenta, certo perchè non mi mandava a spasso, si strinse nelle spalle, scotendo il capo, e non rispose nè levò gli occhi dal suo ricamo.
— Ha premura di lavorare, vede, signore — disse la mamma per medicare un poco le mie impressioni. — È giusto un dono per il suo papà, un’immagine dell’Angelo Custode, perchè presto viene il suo santo. Faglielo vedere, Lisa, a questo signore, il tuo ricamo.
L’Elisa diventò rossa come una vampa, fece un cipiglio nero e cavò l’orologio, una cipolletta di argento, tanto per fingere di aver qualche faccenda e andarsene in fretta dalla stanza. Ma io, seccato di tutto questo, mi alzai prima di lei, dissi che sarei ritornato più tardi e chiesi alla signora dove, a ogni modo, avrei potuto cercare di suo marito.
— Non saprei, — rispose. — Che ore sono. Lisa?
— Due, — rispose la Lisa, brusca.
— Potrebbe provare in tribunale. — Alle sei si pranza, del resto... Alle parole di sua madre potrebbe provare in Tribunale, la ragazza mi piantò pronta gli occhi in viso come se avesse voluto leggermi nel pensiero. Non capii affatto uno sguardo simile e me n’andai senza l’onore di aver salutato lei.
Al Tribunale un usciere cui domandai di Molesin mi guardò in un modo poco lusinghiero; un altro che udì, sorrise. Un po’ alla volta mi fecero sapere che in Tribunale, da un pezzo, per ordine superiore, il signor Molesin non ci poteva bazzicare. Una volta ci veniva per affari ufficiosi o per aste. Non era nè avvocato, nè dottore, nè niente; nemmanco aveva veduto la porta dell’Università. Per trovarlo bastava andare al caffè Socrate verso le tre. Sospettai allora di aver capito lo sguardo della signorina Lisa e la ragione per cui il sottile amico si sottoscriveva D. Molesin e non dottor Molesin. Andai al caffé Socrate; sarei andato fino a Ponte di Brenta per ghermirlo.
Il cranio pelato, il fazzoletto rosso e giallo, il soprabito marrone eran li dentro, in un mucchio presso l’entrata. Prima di prendere il caffé, pronto davanti a lui, Molesin stava considerando e misurando attentamente due baicoli per vedere quale fosse il più lungo e da scegliere. Me gli avvicinai.
— Dottor Molesin?
Il cranio pelato scattò su e vidi passar sopra la solita faccia biliosa e austera un’ombra di angustia, che sparì subito.
— Servo suo, — disse Molesin piegando all’indietro la persona e posando le mani sul tavolo senza lasciare i baicoli. — Servo suo. Ha avuto la mia lettera? Risposi ch’ero venuto appunto per intendermi con lui circa la dilazione dell’asta; che vi accondiscendevo qualora nulla fosse mutato dalla sua lettera in poi. Prima di smascherare il briccone volevo chiudergli ogni porta di fuga. Egli mi rispose che nulla era mutato. Allora trassi la sua lettera e lo pregai di leggermene un brano dove non avevo potuto decifrar bene ogni parola. Era quello relativo al compratore della casa e Molesin me lo lesse esattamente: Zonca, fuori porta Codalunga.
— Senta, — gli dissi allora ex abrupto — mi conduca fuori Porta Codalunga da questo signor Zonca. Vorrei convincermi ch’è un compratore serio. — Seriissimo, signor mio, — fece Molesin, intingendo un baicolo nel caffè. — Domanda se è serio! — soggiunse con un ghigno sarcastico, parlando, per un momento, al suo baicolo, — Benedetto, dico, — riprese voltandosi a me, — vuole che gli parli di un compratore da burla? Cosa si sogna?
— Ah cane! — mi dissi nel cuore; e replicai forte:
— Sarà un’ubbia, ma Lei deve condurmi fuori Porta Codalunga dal signor Zonca. Molesin si rabbonì subito, disse ch’erano passi inutili, che però, se si trattava solamente di questo, m’avrebbe accontentato e volentieri. Pagò con tutta flemma il suo caffè e si alzò.
— Andiamo, — diss’egli. — Dopo tutto ho piacere che Lei parli col signor Zonca.
Guardò l’orologio e soggiunse: — Adesso lo troviamo di certo.
~ Diavolo! pensai. Sta a vedere che c’è davvero questo Zonca! Che bestia sarei stato! — Ma l'amico Molesin uscendo dal caffè voltò verso Santa Sofia.
— Per di qua? — esclamai. — Mi rispose, senza scusarsi affatto, che doveva passare un momento da casa sua per avvertire di ritardare il pranzo. Erano le tre e mezzo e sua moglie mi aveva detto che pranzavano alle sei. — Cane, cane, — gli dissi ancora nel mio cuore, sentendo che lo riafferravo; e mi preparai al colpo ch’egli tenterebbe per sguisciarmi di mano.
Avrei voluto salir le sue scale con lui ma non seppi trovar un pretesto plausibile e mi fermai sulla porta chiedendomi se il furfante non approfitterebbe di qualche maledetto scalino rotto per ammaccarsi una gamba o due e mettersi a letto. Dopo cinque minuti, non sentendo venir nessuno, salii. Non ero ancora a mezzo quando udii Molesin discendere brontolando: che fatalità, che fatalità!
— Siamo sfortunati, — diss’egli vedendomi. — Ho trovato sul mio tavolino una lettera del signor Zonca che rinuncia all’affare. Per cui... Per cui lo tenevo per il collo. — Va bene, — dissi. — Adesso avrei a dirle due parole. Rispose asciutto: si accomodi, — e mi fece passare nel suo studio per il salottino che conoscevo. Il telaio della signorina v’era ancora, ma lei no.
Molesin mi accennò di sedere, prese un venerabile berretto nero ricamato in oro e fece atto d’insediarsi egli stesso nel suo trono, un seggiolone solenne da magistrato, fra la biblioteca e la scrivania coperta di codici in fila, di scartafacci legati, di note, di buste, di calcaterre, di calamai, di penne d’oca, tutto in bell’ordine.
— Senta, — cominciai. — Ella scriverà adesso ai Vicarelli che l’asta deve seguire il giorno fissato.
— Perchè? — rispose Molesin. — Se manca la vendita resta il mutuo. È sempre una somma rispettabile che passerebbe nelle Sue tasche.
— Scriva, — insistetti, — che l’asta deve seguire al giorno fissato. Io La pregherò pure di scrivere che lei desidera di ritirarsi affatto, per motivi suoi personali, da questa vertenza.
Molesin mi guardò, stupefatto.
— Non capisco, — diss’egli.
— Scriva, — replicai. — Le detterò.
— L’avvocato Molesin, viscere mie, — mi rispose, — non scrive sotto la dettatura di nessuno.
— Se non scrive Lei, scriverò io.
Il tôno delle mie parole fu tale che Molesin si alzò in piedi fissandomi con due occhi torbidi di mala coscienza; parve l’assassino che sospetta nel suo interlocutore un agente di pubblica sicurezza.
— Scriverò io, — continuai, — che il signor Angelo Molesin si ritira perchè non c’è mutuo, perchè non c’è vendita, perchè non c’è compratore, non c’è niente!
Molesin chiuse gli occhi sotto il colpo e tacque. Li riaperse, non più torbidi; il buono schermidore sapeva finalmente da che parte veniva la botta, e in un lampo, a occhi chiusi, aveva disposto la parata.
— Si calmi, — diss’egli, con la solita odiosa espressione di compatimento. — Ella è stato a Treviso?
— Sì, signore.
— Già. Eh, ho capito. L’ho capito subito, quando la vidi al caffè. E lei ha cercato qui a Padova la Ditta Zonca?
— Sì, signore.
— Già. Oh già, già. L’ho capito subito. E Lei si figura di aver colto un galantuomo in fallo. Bravo, caro. Ella è fino, molto fino... Stese e alzò la mano spiegata per chiedere di non venire interrotto. Poi sorrise, scosse il capo, e riprese a voce bassa, lenta, solenne:
— E Lei non ha pensato che per combinare mutuo e vendita, nelle condizioni dei Vicarelli, fosse necessarissimo il segreto; che se i Vicarelli mi richiedevano, come m’hanno richiesto, di non palesare i nomi veri neppure a Lei, anzi di fuorviare le Sue ricerche, io dovevo farlo nel Suo stesso interesse, perchè un creditore spaventato come Lei, ficcando il naso qua e là, avrebbe mandato all’aria tutto, senza volerlo. Il mutuo c’è, il compratore c’è. Sicuramente, era inutile andare a Treviso e in cerca del negoziante Zonca. Certamente, io ho simulato poco fa una lettera di questo Zonca, ma era per la buona riuscita dell’affare; e poi, cosa ha fatto Lei oggi con me? Non ha simulato fino a questo momento?
— Oh, — scoppiai, — per chi mi prende? Anche in tribunale sono stato e so con chi ho da fare, so che avvocato è, so in che affari ficca il naso Lei! Egli parve annientato; non seppe che balbettar qualche parola incomprensibile. Intanto l’uscio dello studio, che si apriva all’infuori, a fianco della scrivania, fu spalancato bruscamente ma senza rumore. Molesin non se ne accorse, non potè vedere sua figlia, ferma con la maniglia in pugno, con gli occhi fissi in lui che balbettava, livida come una morta, come suo padre. Vide bensì il movimento ch’io feci, gli occhi miei volti all’uscio e guardò egli pure.
Non seppe ricomporsi del tutto; sorrise però e disse:
— Avanti, cara: cosa vuoi? E finito. — Scusi, no! — interruppi. — La ragazza lasciò andar l’uscio che, piano piano, si chiuse.
— Non è finito, — ripresi a bassa voce. — Lei....
— La mia creatura! — fremette Molesin, alzando le braccia. — La mia creatura!
Avrei scommesso ch’era uomo da venderla, la sua creatura; ma non v’era bisogno di mimica per farmi rispettare in essa un sentimento sacro,
— Lei scriva ai Vicarelli, — dissi. — Lei si ritiri. Io non parlerò. Vede che non potrei avere riguardi maggiori. La riverisco.
Uscii. Nel salottino non c’era nessuno. Entrando nel corridoio che metteva alla scala udii in una stanza attigua, a sinistra, la voce della Molesin e udii, a destra, la signorina Lisa che tentava inutilmente di aprire una porta chiusa e la scuoteva convulsa. Ella guizzò, fuggendomi, all’uscio della scala ch’era aperto. Qualcuno passava sul pianerottolo per salire al terzo piano, onde la ragazza si gittò alla discesa e scomparve. La seguitai. Di fianco all’ultimo braccio di scala v’era un andito scuro, ingombro di tavole. Lisa si era nascosta lì; la scopersi accoccolata in un angolo col viso fitto fra le due pareti, scossa le spalle da singhiozzi muti, da un palpitar d’uccellino moribondo. Non ebbi cuore di lasciarla così, sapendo che l’avevo ferita io. Me le avvicinai, la chiamai dolcemente; non diè segno d’avermi udito. La toccai con la punta dell’indice; trasalì, tremò tutta, si strinse in sè come tocca da un serpente. Allora le domandai scusa, sottovoce, del dolore che le avevo recato, dissi qualche cosa per incolpar me e scagionar suo padre; ma dovetti tacere perchè al suono della mia voce ella si dibatteva gemendo.
Dio, che fare? Allontanarmi da lei, anzi tutto, come in fatto mi allontanai. A un tratto odo la signora Molesin che chiama: — Lisa! Lisa! — La ragazza si voltò di schianto, stravolta, ascoltando con gli occhi. Erano rossi ma senza lagrime.
— Lisa! Lisa! — chiamò ancora sua madre discendendo le scale. Lisa stette un momento immobile; quindi con la subitanea rapidità del fulmine, si strappò dal seno il piccolo orologio d’argento, lo sbattè a terra, lo raccolse insieme ai frantumi di vetro.
Allora solo s’incamminò lenta con questa misera cosa rotta nel cavo delle mani, mi passò davanti come un’ombra, salì le scale incontro a sua madre, singhiozzando amaramente.