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l'amico Molesin uscendo dal caffè voltò verso Santa Sofia.

— Per di qua? — esclamai. — Mi rispose, senza scusarsi affatto, che doveva passare un momento da casa sua per avvertire di ritardare il pranzo. Erano le tre e mezzo e sua moglie mi aveva detto che pranzavano alle sei. — Cane, cane, — gli dissi ancora nel mio cuore, sentendo che lo riafferravo; e mi preparai al colpo ch’egli tenterebbe per sguisciarmi di mano.

Avrei voluto salir le sue scale con lui ma non seppi trovar un pretesto plausibile e mi fermai sulla porta chiedendomi se il furfante non approfitterebbe di qualche maledetto scalino rotto per ammaccarsi una gamba o due e mettersi a letto. Dopo cinque minuti, non sentendo venir nessuno, salii. Non ero ancora a mezzo quando udii Molesin discendere brontolando: che fatalità, che fatalità!

— Siamo sfortunati, — diss’egli vedendomi. — Ho trovato sul mio tavolino una lettera del signor Zonca che rinuncia all’affare. Per cui... Per cui lo tenevo per il collo. — Va bene, — dissi. — Adesso avrei a dirle due parole.