I promessi sposi (Ferrario)/Capitolo XI

Capitolo XI

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CAPITOLO XI.


Come un branco di segugi, dopo d’aver tracciata indarno una lepre, tornano sbaldanziti verso il padrone, coi musi bassi e colle code spenzolate, così in quella scompigliata notte tornavano i bravi al palazzotto di don Rodrigo. Egli passeggiava innanzi e indietro al buio per una stanzaccia disabitata del piano superiore, che guardava sulla spianata. Tratto tratto si fermava a tender l’orecchio, a traguardare per le fessure delle imposte sdrucite; pieno d’impazienza e non scevro d’inquietudine, non solo per l’incertezza della riuscita, ma anche per le conseguenze possibili; perchè ell’era la più grossa e la più arrischiata a cui il valentuomo avesse ancor mosso mano. Si andava però rassicurando col pensiero delle precauzioni prese perchè non rimanesse alcun indizio del fatto suo. — Quanto ai sospetti, me ne rido. Vorrei un po’ sapere chi sarà [p. 321 modifica]quell’appetitoso che voglia venir qua su a chiarirsi se c’è o non c’è una giovane. Venga, venga quel tanghero, che sarà ben ricevuto. Venga il frate, venga. La vecchia? vada a Bergamo la vecchia. La giustizia? Poh la giustizia! Il podestà non è mica un ragazzo nè un matto. E a Milano? Chi si cura di costoro a Milano? Chi darebbe lor retta? Chi sa che ci sieno? Sono come gente perduta sulla terra, non hanno nè anche un padrone: gente di nessuno. Via, via, niente paura. Come rimarrà Attilio, domattina! Vedrà, vedrà s’io son uomo da ciarla e da vanti. E poi..... se mai nascesse qualche imbroglio..... che so io? qualche nimico che volesse cogliere questa occasione.... anche Attilio saprà consigliarmi: c’è impegnato l’onore di tutto il parentado. Ma il pensiero sul quale si fermava di più, perchè in esso trovava insieme un acquietamento dei dubbii e un pascolo alla passione principale, era il pensiero delle lusinghe, delle promesse ch’egli adoprerebbe ad imbonire Lucia. — Avrà tanta paura di trovarsi qui sola, in mezzo a costoro, a queste facce, che...... il viso più umano qui son io, per bacco.... che dovrà ricorrere a me, piegarsi ella a pregare; e se prega....

Mentre fa questi bei conti, ode un calpestìo, [p. 322 modifica]va alla finestra, apre un pochetto, fa capolino; son dessi. — E la lettiga? Diavolo! dove è la lettiga? Tre, cinque, otto; ci son tutti; c’è anche il Griso; la lettiga non c’è: diavolo! diavolo! il Griso me ne renderà conto.—

Entrati che furono, il Griso depose in un angolo d’una stanza terrena il suo bordone, depose il cappellaccio e il sanrocchino, e come portava la sua carica, che in quel momento nessuno gl’invidiava, salì a render quel conto a don Rodrigo. Questi l’aspettava in capo della scala; e vistolo apparire con quella goffa e sguaiata presenza del birbone deluso, “ebbene”, gli disse, o gli gridò: “signor spaccone, signor capitano, signor lasci-fare-a-me?”.

“L’è dura,” rispose il Griso, restando con un piede sul primo scalino, “l’è dura di riscuoter dei rimproveri, dopo aver lavorato fedelmente, e cercato di fare il proprio dovere, e arrischiata anche la pelle.”

“Com’è andata? Sentiremo, sentiremo,” disse don Rodrigo; e s’avviò verso la sua stanza, dove il Griso lo seguì, e tosto fece la sua relazione di ciò ch’egli aveva disposto, fatto, veduto e non veduto, inteso, temuto, riparato; e la fece con quell’ordine e con quella confusione, con quella dubbiezza e con quello [p. 323 modifica]stordimento che dovevano per forza regnare insieme nelle sue idee.

“Tu non hai torto, e ti sei portato bene,” disse don Rodrigo: “hai fatto quello che si poteva; ma... ma, che sotto queste tegole ci fosse una spia! Se c’è, se lo arrivo a scoprire, e lo scopriremo se c’è, te lo aggiusto io: ti so dir io, Griso, che lo concio pel dì delle feste.”

“Anche a me, signore,” disse questi, “è corso per la mente un tale sospetto: e se fosse vero, se si venisse a scoprire un birbone di questa sorte, il signor padrone l’ha da mettere nelle mie mani. Uno che si fosse preso il divertimento di farmi passare una notte come questa! toccherebbe a me di pagarlo. Però, dal tutto insieme m’è paruto di poter rilevare che ci debb’essere qualche altro garbuglio, che per ora non si può capire. Domani, signore, domani se ne vedrà l’acqua chiara.”

“Non siete stati riconosciuti almeno?”

Il Griso rispose che egli sperava di no, e la conchiusione del colloquio fu che don Rodrigo gli ordinò pel domani tre cose che colui avrebbe sapute ben pensare anche da sè. Spedire al mattino per tempissimo due uomini a fare al console quella tale intimazione, [p. 324 modifica]che fu fatta come abbiamo veduto; due altri al casolare per ronzarvi d’attorno onde tenerne lontano ogni ozioso che quivi capitasse, e sottrarre ad ogni sguardo la lettiga fino alla notte prossima, in cui sarebbe mandata a prendere, giacchè per allora non conveniva fare altri movimenti da dar sospetto; andar poi egli alla scoperta, e mandare anche altri dei più disinvolti e di buona testa, per saper qualche cosa delle cagioni e della riuscita del guazzabuglio di quella notte. Dati tali ordini, don Rodrigo se ne andò a dormire, e vi lasciò andare anche il Griso, congedandolo con molte lodi dalle quali traspariva evidentemente l’intenzione di ristorarlo, e in certo modo di fargli scusa degl’improperii precipitati coi quali lo aveva accolto.

Va dormi, povero Griso, che tu dei averne bisogno. Povero Griso! In faccende tutto il giorno, in faccende mezza la notte, senza contare il pericolo di cader nell’unghie dei villani, o di acquistarti una taglia per rapto di donna honesta, in aggiunta di quelle che già hai addosso; e poi esser ricevuto a quel modo! Ma! così pagano gli uomini sovente. Tu hai però potuto vedere in questa occasione che qualche volta si fa ragione secondo il merito e i conti si aggiustano, anche in questo [p. 325 modifica]mondo. Va dormi per ora: che un giorno tu avrai forse a somministrarcene un’altra prova, e più notabile di questa.

Al mattino vegnente, il Griso era attorno di nuovo in faccende, quando don Rodrigo si alzò. Cercò tosto del conte Attilio il quale, vedendolo spuntare, fece un viso e un atto da beffa, e gli gridò incontro: “San Martino!”

“Non so che dire”, rispose don Rodrigo, giugnendogli a canto: “pagherò la scommessa: ma non è questo che più mi scotta. Non vi aveva detto nulla, perchè, lo confesso, io mi pensava di farvi stordire stamattina. Ma.... basta, ora vi dirò tutto.”

“C’è una mano di quel frate in questo negozio,” disse il cugino, dopo aver tutto ascoltato con sospensione, con maraviglia, e con più di serietà che non si sarebbe aspettato da un cervello così balzano. “Quel frate,” continuò egli, “con quel suo fare di gatta morta, con quel suo parlare a sproposito, io l’ho per un brigante e per un dritto. E voi non vi siete fidato di me, non mi avete mai detto bene schiettamente che cosa sia venuto qui a impastocchiarvi l’altro giorno.” Don Rodrigo riferì il colloquio. E voi avete sofferto tanto?” sclamò il conte Attilio: “E lo avete lasciato partire come era venuto?” [p. 326 modifica]

“Che volevate, ch’io mi tirassi addosso tutti i cappuccini d’Italia?”

“Non so,” disse il conte Attilio, “se in quel momento mi sarei ricordato che vi fosse al mondo altri cappuccini che quel temerario birbante; ma via, pure nelle regole della prudenza, manca il modo di prendersi soddisfazioni anche d’un cappuccino? Bisogna saper raddoppiare a tempo le gentilezze a tutto il corpo, e allora si può impunemente dare una mano di bastonate ad un membro. Basta; ha scansata la punizione che gli stava più bene; ma lo piglio io sotto la mia protezione, e voglio aver io la consolazione d’insegnargli come si parla ai pari nostri.”

“Non mi fate peggio.”

“Fidatevi una volta, che vi servirò da parente e da amico.”

“Che cosa pensate di fare?”

“Non lo so ancora; ma lo servirò io di sicuro il frate. Ci penserò, e.... il signor conte zio del consiglio-segreto è quegli che mi ha da fare il servigio. Caro signor conte zio! Quanto mi diverto ogni volta che lo posso far lavorare per me, un politicone di quel calibro! Posdomani sarò a Milano; e in un modo o in un altro, il frate sarà servito.” [p. 327 modifica]

Venne intanto la colezione, la quale non interruppe il discorso d’un affare di quella importanza. Il conte Attilio ne parlava a cuor libero, e sebbene vi prendesse quella parte che richiedevano la sua amicizia pel cugino e l’onore del nome comune, secondo le idee ch’egli aveva di amicizia e di onore, pure tratto tratto non poteva tenersi di trovare un po’ da ridere nella mala ventura dell’amico parente. Ma don Rodrigo che era in causa propria e che, pensandosi di far chetamente un gran colpo, l’aveva fallito con istrepito, era agitato da passioni più gravi, e distratto da pensieri più noiosi. “Di bei chiacchieramenti,” diceva egli, “faranno questi mascalzoni in tutto il contorno. Ma che m’importa? Quanto alla giustizia, me ne rido: prove non ce n’è; quando ce ne fosse, me ne riderei egualmente: a buon conto ho fatto stamattina avvertire il console che si guardi bene di far deposizione dell’avvenuto. Non ne seguirebbe nulla; ma le chiacchiere quando vanno in lungo mi seccano. Basta bene ch’io sia stato burlato così barbaramente.”

“Avete fatto benissimo,” rispondeva il conte Attilio. “Codesto vostro podestà..... gran caparbio, gran testa busa, gran seccatore d’un podestà.... è poi un [p. 328 modifica]galantuomo, un uomo che sa il suo dovere, e appunto quando s’ha che fare con persone tali, bisogna aver più cura di non le mettere in impicci. Se un paltoniere di console fa una deposizione, il podestà, per quanto sia ben intenzionato, bisogna pure che...

“Ma voi,” interruppe con un po’ di stizza don Rodrigo, “voi guastate le mie faccende con quel vostro contraddirgli in tutto, e dargli sulla voce, e canzonarlo anche all’occorrenza. Che diavolo, che un podestà non possa esser bestia e ostinato, quando nel rimanente è un galantuomo!”

“Sapete, cugino,” disse guardandolo con un occhio di maraviglia beffarda il conte Attilio, “sapete voi, ch’io comincio a credere che abbiate un po’ di paura? Mi pigliate sul serio anche il podestà....

“Via via, non avete detto voi stesso che bisogna tener conto....?

“L’ho detto: e quando si tratta d’un affare serio, vi farò vedere che non sono un ragazzo. Sapete che cosa mi basta l’animo di fare per voi? Son uomo da andare in persona a far visita al signor podestà. Ah, sarà egli contento dell’onore? E son uomo da lasciarlo parlare per mezz’ora del conte duca, e del nostro signor castellano [p. 329 modifica]spagnuolo, da dargli ragione in tutto, anche quando ne dirà di quelle così sterminate. Getterò poi io qualche parolina sul conte zio del consiglio-segreto: e voi sapete che effetto fanno quelle paroline nell’orecchio del signor podestà. Alla fine delle fini, ha più bisogno egli della nostra protezione, che voi della sua condiscendenza. Farò di buono, e vi andrò, e ve lo lascerò meglio disposto che mai.”

Dopo queste e qualche altre simili parole, il conte Attilio uscì a cacciare, e don Rodrigo stette con ansietà aspettando il ritorno del Griso. Venne costui finalmente sull’ora del pranzo, a fare la sua relazione.

Il garbuglio di quella notte era stato tanto clamoroso, la sparizione di tre persone da un paesello era un così gran fatto, che le ricerche, e per interessamento e per curiosità, dovevano naturalmente esser molte e calde e insistenti; e dall’altra parte gl’informati di qualche cosa erano troppi per andar tutti d’ accordo a tutto tacere. Perpetua non poteva mettere il capo all’uscio che non fosse tempestata da colui e da colei, perchè dicesse chi era stato a far quella gran paura al suo padrone: e Perpetua, riandando e raccozzando tutte le circostanze del fatto, e comprendendo come [p. 330 modifica]era stata infinocchiata da Agnese, sentiva tanta stizza di quella perfidia, che aveva proprio bisogno d’un po’ di sfogo. Non già ch’ella si andasse lamentando col terzo e col quarto del modo tenuto per infinocchiar lei: su di ciò ella non fiatava; ma il tiro fatto al suo povero padrone non lo poteva passare onninamente sotto silenzio; e sopra tutto che un tiro tale fosse stato concertato e tentato da quella quietina, da quel giovane dabbene, da quella buona vedova. Don Abbondio poteva bene comandarle risolutamente, e pregarla cordialmente che tacesse; ella poteva bene ripetergli che non faceva mestieri d’inculcarle una cosa tanto chiara e tanto naturale; certo è che un tanto segreto stava nel cuore della povera donna, come in una botte vecchia e mal cerchiata un vino cavato molto giovane, che grilla e gorgoglia e ribolle, e se non manda il cocchiume per aria, vi si travaglia tanto all’intorno, che ne esce in ischiuma, e trapela tra doga e doga, e gocciola di qua e di là, tanto che uno può berne, e dire a un di presso che vino è. Gervaso a cui non pareva vero d’essere una volta più informato degli altri, a cui non pareva piccola gloria l’avere avuta una grossa paura, a cui, per aver tenuto mano ad una cosa che sapeva di criminale, pareva d’esser [p. 331 modifica]diventato un uomo come gli altri, crepava di voglia di vantarsene. E quantunque Tonio, che pensava seriamente alle inquisizioni e ai processi possibili, e al conto da rendere, gli facesse, colle pugna sul muso, di gran precetti, pure non ci fu verso di soffocargli in bocca ogni parola. Del resto Tonio anch’egli, dopo essere stato quella notte assente di casa in ora insolita, tornando a casa con un passo e con un sembiante insolito, e con una agitazione d’animo che lo disponeva alla sincerità, non potè dissimulare il fatto a sua moglie, la quale non era muta. Chi parlò meno, fu Menico; perchè appena ebbe egli raccontato ai parenti la storia e l’oggetto della sua spedizione, parve a questi così terribil cosa che un loro figliuolo fosse stato dentro a guastare una faccenda di don Rodrigo, che quasi quasi non lasciarono finire al ragazzo la sua narrazione. Gli fecero poi tosto i più forti e minacciosi comandamenti, che si guardasse bene di dar pure un cenno di nulla: e al mattino vegnente, non parendo loro di essersi abbastanza assicurati, risolvettero di tenerlo chiuso in casa per quel giorno, e per qualche altro ancora. Ma che? eglino stessi poi, novellando con la gente del paese, e senza voler mostrare di saperne più che altri, quando si veniva a quel punto oscuro [p. 332 modifica]della fuga dei nostri tre poveretti, e del come, e del perchè, e del dove, aggiungevano, quasi una cosa nota, che a Pescarenico s’erano rifuggiti. Così anche questa circostanza entrò nel discorso comune.

Con tutti questi brani di notizie, messi poi insieme e uniti come si suole, e con la frangia che vi si appicca naturalmente nel cucire, v’era da fare una storia d’una certezza e di una chiarezza più che comunale, e da esserne pago ogni intelletto più critico. Ma quella invasione dei bravi, accidente troppo grave e troppo romoroso per esserne lasciato fuori, e del quale nessuno aveva una conoscenza un po’ positiva, quell’accidente era ciò che più rendeva la storia scura e ingarbugliata. Si mormorava il nome di don Rodrigo: in questo tutti andavan d’accordo; nel resto tutto era oscurità e dissenso. Si parlava molto dei due bravacci ch’erano stati veduti nella via sul far della sera, e dell’altro che stava sulla porta dell’ osteria; ma che lume si poteva egli ricavare da questo fatto così asciutto? Si domandava bene all’oste chi era stato da lui la sera antecedente; ma l’oste non si ricordava pure se avesse veduto gente quella sera; e conchiudeva sempre che l’osteria è un porto di mare. Sopra tutto confondeva le teste e [p. 333 modifica]disordinava le congetture quel pellegrino veduto da Stefano e da Carlandrea, quel pellegrino che i malandrini volevano ammazzare, e che era partito con loro, o che eglino avevan portato via. Che era egli venuto a fare? Era un’anima buona comparsa per aiutare le donne; era un’anima cattiva d’un pellegrino birbante e impostore che veniva sempre di notte ad unirsi con chi facesse di quelle che egli aveva fatte vivendo; era un pellegrino vivo e vero che coloro avevano voluto ammazzare perchè si disponeva a svegliare il paese; era (vedete un po’ che si va a pensare!) uno di quegli stessi malandrini travestito da pellegrino; era questo, era quello, era tante cose che tutta la sagacità e l’esperienza del Griso non sarebbe bastata a scoprire chi egli fosse, se il Griso avesse dovuto rilevare questa parte della storia dai discorsi altrui Ma, come il lettor sa, ciò che la rendeva imbrogliata agli altri, era appunto il più chiaro per lui: servendosene di chiave per interpretare le altre notizie raccolte da lui immediatamente e col mezzo degli esploratori subordinati, potè di tutto comporne per don Rodrigo una relazione bastantemente distinta. Si chiuse tosto con lui e gli disse del colpo tentato dai poveri sposi il che spiegava [p. 334 modifica]naturalmente la casa trovata vota e il sonare a martello, senza che facesse mestieri di supporre traditori (come dicevano quei due galantuomini) in casa. Disse della fuga; e anche di questa era facile trovare più d’una cagione: il timore degli sposi sorpresi in colpa, o qualche avviso della invasione, dato loro quando ella era scoperta, e il paese tutto levato. Disse finalmente che s’erano riparati a Pescarenico; più in là non andava la sua scienza. Piacque a don Rodrigo l’esser certo che nessuno l’aveva tradito e il vedere che non rimanevano tracce del suo fatto; ma fu quella una rapida e leggiera compiacenza. “Fuggiti insieme!” gridò egli: “insieme! E quel frate birbante! Quel frate!” la parola usciva arrantolata dalla strozza e smozzicata fra i denti che mordevano il dito: il suo aspetto era brutto come le sue passioni. “Quel frate me la pagherà. Griso! non son chi sono..... voglio sapere, voglio trovare.... questa. sera, voglio sapere dove sono. Non ho pace. A Pescarenico, subito, a sapere, a vedere, a trovare.... Quattro scudi subito, e la mia protezione per sempre. Questa sera lo voglio sapere. E quel birbone....! E quel frate...!”

Il Griso di nuovo in campo; e la sera di quel giorno medesimo, egli potè riportare al [p. 335 modifica]suo degno padrone la notizia desiderati: ed ecco per qual modo.

Una delle più grandi consolazioni di questa vita è l’amicizia, e una delle consolazioni dell’amicizia è quell’avere a cui confidare un segreto. Ora, gli amici non son divisi per coppie come i coniugi; ognuno, generalmente parlando, ne ha più d’uno: il che forma una catena, di cui nessuno potrebbe trovare il capo. Quando adunque un amico si procura quella consolazione di deporre un segreto nel seno d’un altro, dà a costui la voglia di procurarsi la stessa consolazione alla sua volta. Lo prega, è vero, di non dir nulla a nessuna; e una tal condizione, chi la prendesse nel senso rigoroso delle parole, troncherebbe immediatamente il corso delle consolazioni. Ma la pratica generale ha voluto ch’ella obblighi soltanto a non confidare il segreto che ad un amico egualmente fidato, e imponendogli la condizione medesima. Così d’amico fidato in amico fidato, il segreto gira e gira per quella immensa catena, tanto che giunge all’orecchio di colui o di coloro a cui il primo che ha parlato intendeva appunto di non lasciarlo giunger mai. Avrebbe però ordinariamente a stare un gran pezzo in via, se ognuno non avesse che due amici: quello che gli dice e [p. 336 modifica]quello a cui ridice la cosa da tacersi. Ma v’ha degli uomini privilegiati che li contano a centinaia; e quando il segreto è venuto ad uno di questi uomini, i giri divengono sì rapidi e sì moltiplici, che non è più possibile di tener loro dietro. Il nostro autore non ha potuto accertarsi per quante bocche fosse corso il segreto che il Griso aveva ordine di scovare: fatto sta che il buon uomo da cui erano state scortate le donne a Monza, tornando col suo baroccio a Pescarenico sull’ora del vespero, s’abbattè, prima di toccar la soglia di casa, in un amico fidato, al quale raccontò in gran credenza la buona opera che aveva compiuta, e il seguito; e fatto sta che il Griso potè due ore dopo correre al palazzotto a riferire a don Rodrigo che Lucia e sua madre s’erano ricoverate in un convento di Monza, e che Renzo aveva seguitata la sua strada fino a Milano.

Don Rodrigo provò una scelerata allegrezza di quella separazione, e sentì rinascere un po’ di quella scelerata speranza di giungere ai suoi fini. Pensò al modo gran parte della notte, e si alzò di buon mattino con due disegni l’uno fermato, l’altro abbozzato. Il primo era di spedir tosto il Griso a Monza, per aver più chiara contezza di Lucia, e sapere [p. 337 modifica]se e qual cosa si potesse tentare. Fece dunque chiamar tosto quel suo fedele, gli pose in mano i quattro scudi, lo rilodò della abilità con che gli aveva guadagnati, e gli diede ordine che aveva premeditato.

“Signore....” disse tentennando il Griso.

“Che? non ho io parlato chiaro?”

“S’ella potesse mandare qualche altro...”

“Come?”

“Signore illustrissimo, io son pronto a dar la pelle pel mio padrone: e gli è il mio dovere; ma so anche ch’ella non vuole arrischiar troppo la vita dei suoi sudditi.”

“Ebbene?”

“Vossignoria illustrissima sa bene di quelle poche taglie ch’io ho addosso: e.... Qui sono sotto la protezione di Vossignoria; siamo una brigata; il signor podestà è amico di casa; i birri mi portano rispetto; e anch’io..... è cosa che fa poco onore, ma pel quieto vivere.... li tratto da amici. In Milano la livrea di vossignoria è conosciuta; ma in Monza..... vi sono conosciuto io invece. E sa vossignoria che, non dico per vantarmi, chi mi potesse consegnare alla giustizia, o presentar la mia testa, farebbe a un bel colpo? Cento scudi l’uno sull’altro, e la facoltà di liberar due banditi.” [p. 338 modifica]

“Che diavolo?” disse don Rodrigo: “tu mi riesci ora un can da pagliaio che ha cuore appena d’avventarsi alle gambe di chi passa su la porta, guardandosi indietro se quei di casa lo spalleggiano, e non s’assicura di allontanarsi quattro passi!”

“Credo, signor padrone, di aver dato prove.....

“Dunque!”

“Dunque” ripigliò francamente il Griso, messo così al punto, “dunque vossignoria faccia conto ch’io non abbia parlato: cuor di leone, gamba di lepre, e son pronto a partire.”

“E io non ho detto che tu vada solo. Piglia con te un paio dei migliori.... lo Sfregiato, e il Tira-dritto, e va di buon animo, e sii il Griso. Che diavolo! Tre facce come le vostre, e che passano tranquillamente, chi vuoi che non sia contento di lasciarle passare? Bisognerebbe che ai birri di Monza la vita fosse ben venuta a noia, per metterla su contra cento scudi a un giuoco così rischioso. E poi e poi, non credo di essere così sconosciuto colà, che la qualità di mio servitore non vi si conti per nulla.”

Fatto al Griso questo po’ di vergogna, gli diede poi più ampie e particolari istruzioni. [p. 339 modifica]Il Griso tolse i due compagni e partì con una cera allegra e baldanzosa, ma bestemmiando nel segreto del cuore Monza e le taglie e le donne e le fantasie dei padroni; e cammininava come il lupo, che spinto dal digiuno, colla ventraia raggrinzata, e i solchi del costolame impressi nel bigio vello, cala dai suoi monti dove tutto è neve, procede sospettosamente nel piano, s’arresta tratto tratto con una zampa sospesa, dimenando la coda spelazzata,

Leva il muso, odorando il vento infido,

se mai gli porti sentore d’uomo o di ferro, drizza gli orecchi acuti, e gira due occhi sanguigni da cui traluce insieme l’ardore della preda e il terrore della caccia. Del rimanente, quel bel verso, chi volesse saper donde venga, è tratto da una diavoleria inedita di crociati e di lombardi, che presto non sarà più inedita, e farà un bel romore; e io l’ho pigliato perchè mi veniva a taglio, e donde l’ho tolto, lo dico per non farmi bello dell’altrui: che non pensasse taluno ch’ella sia una mia arte per far sapere che l’autore di quella diavoleria ed io siamo come fratelli, e ch’io frugo a mia voglia ne’ suoi manoscritti.

L’altro macchinamento di don Rodrigo era sul modo di far che Renzo, staccato che s’era [p. 340 modifica]da Lucia, non le tornasse più vicino, nè mettesse più piede in paese. Divisava di fare spargere voci di minacce e d’insidie, che giungendo a colui per mezzo di qualche amico, gli togliessero la volontà di tornare da quelle bande. Pensava però che la più sicura sarebbe se si trovasse modo di farlo sfrattare dallo stato: e per riuscire in questo sentiva che più assai che la forza gli avrebbe potuto servir la giustizia. Si poteva, per esempio, dare un po’ di colore al tentativo fatto nella casa parrocchiale, dipingerlo come una aggressione, un atto sedizioso, e per mezzo del dottore fare intendere al podestà ch’egli era il caso di spiccare contra Renzo una buona cattura. Ma il deliberante sentì tosto che non conveniva a lui di rimescolare quello sporco negozio; e senza stare altro a beccarsi il cervello, deliberò di aprirsi col dottore Azzecca-garbugli, quanto era necessario per finii comprendere il suo desiderio. — Le gride son tante! pensava don Rodrigo: e il dottore non è un’oca: qualche cosa che faccia al mio caso saprà trovare, qualche garbuglio da azzeccare a quel galuppo birbone: altrimenti gli muto il nome. — Ma, (come vanno alle volte le faccende di questo mondo!) intanto che colui pensava al dottore come all’uomo più abile [p. 341 modifica]a servirlo in questo, un altr’uomo, l’uomo che nessuno s’immaginerebbe, Renzo medesimo, per dirla, lavorava di cuore a servirlo in un modo ben più certo e più speditivo di tutti quelli che il dottore avrebbe mai saputi divisare.

Ho veduto più volte un caro fanciullo, vispo a dir vero più del bisogno ma che a tutti segnali mostra di voler riuscire un galantuomo, l’ho, dico, veduto più volte affaccendato sulla sera a cacciare al coperto un suo gregge di porcellini d’India che aveva lasciati spaziare il giorno in un giardinetto. Avrebb’egli voluto fargli andar tutti di brigata al covile; ma l’era fatica indarno: uno si sbandava a destra, e mentre il picciolo pastore correva per cacciarlo in ischiera, un altro, due, tre ne uscivano a sinistra, da ogni parte. Di modo che, dopo essersi un po’ impazientito, s’adattava al modo loro, spingeva prima dentro quei che eran più presso all’uscio, poi andava a pigliar gli altri a uno a due, a tre, come gli veniva fatto. Un giuoco simile ci è forza di fare coi nostri personaggi: ricoverata Lucia, siam corsi a don Rodrigo; ed ora lo dobbiamo abbandonare, per dar ricapito a Renzo che ci si para dinanzi.

Dopo la separazione dolorosa che abbiamo [p. 342 modifica]raccontata, egli camminava da Monza verso Milano, con quell’animo che ognuno può figurarsi di leggieri. Allontanarsi dalla casa, e quel che è più dal paese, e quel che è più ancora da Lucia, trovarsi sur una strada senza saper dove si andrebbe a posare il capo, e tutto per causa di quel birbone! Quando quella immagine si presentava alla fantasia di Renzo, egli s’ingolfava tutto nella rabbia, e nel desiderio della vendetta; ma gli tornava poi alla mente quella preghiera che egli pure aveva proferita col suo buon frate nella chiesa di Pescarenico; e si ravvedeva: tornava a venir su la stizza; ma veggendo una immagine sul muro, egli si traeva il cappello, e si fermava un momento a pregar di nuovo: tanto che in quel viaggio egli ebbe ammazzato in cuor suo don Rodrigo e risuscitatolo, almeno venti volte. La via era tutta sepolta allora tra due alte rive, fangosa, sassosa, solcata da rotaie profonde che dopo una pioggia divenivano rigagnoli; e dove quelle non erano letto bastante alle acque, inondata tutta e ridotta a pozzanghera, e presso che impraticabile. A quei passi; un sentieruolo erto a guisa di scaglione su la riva indicava che altri passeggieri s’eran fatta una via nei campi. Renzo salito per uno di quei valichi sul terreno più elevato, guardò dinanzi [p. 343 modifica]a sè, vide quella gran macchina del duomo sola sul piano, come se non di mezzo ad una città, ma sorgesse in un deserto, e ristette dimentico di tutti i suoi guai, a contemplare anche da lontano quell’ottava maraviglia, di cui aveva tanto inteso parlare fino dall’infanzia. Ma dopo qualche momento volgendosi indietro, vide all’orizzonte quella giogaia frastagliata di montagne, vide distinto ed alto fra quelli il suo Resegone, si sentì tutto rimescolare il sangue, stette alquanto a guardar tristamente da quella parte, poi tristamente si rivolse, e seguitò il suo cammino. A poco a poco cominciò poi a scoprir campanili e torri e cupole e tetti; scese allora nella via, camminò ancora qualche tempo, e quando si accorse d’esser ben presso alla città, s’accostò ad un viandante, e inchinatolo con tutto quel garbo che seppe, gli disse: “in cortesia, quel signore.”

“Che volete, bravo giovane?”

“Saprebbe ella insegnarmi la strada più corta per andare al convento dei cappuccini dove sta il padre Bonaventura?”

L’uomo a cui Renzo si addirizzava, era un agiato abitante del contorno, che andato quella mattina a Milano per le sue, se ne tornava senza aver fatto nulla, in gran fretta, [p. 344 modifica]che non vedeva l’ora di trovarsi a casa, e avrebbe fatto volentieri di meno di quella fermata. Con tutto ciò, senza dar segno d’impazienza, rispose molto piacevolmente: “figliuol caro, de’ conventi ce n’è più d’uno: bisognerebbe che mi sapeste dir più chiaro quale è quello che voi cercate.” Renzo allora si trasse di seno la lettera del padre Cristoforo, e la mostrò a quel signore, il quale lettovi: porta orientale, gliela rendette dicendo: “siete fortunato, bravo giovane; il convento che cercate è poco lontano di qui. Prendete questo viottolo a mancina: è una a scorciatoia; dopo non molto vi troverete ad un canto d’una fabbrica lunga e bassa: è il Lazzeretto; costeggiate il fossato che lo circonda, e riuscirete alla porta orientale. Entrate, e dopo tre o quattrocento passi, vedrete aprirsi una piazzetta con de’ begli olmi; ivi è il convento, che uno non lo può fallare, Dio vi assista, bravo giovane.” E accompagnando le ultime parole con un gesto grazioso della mano; se ne andò. Renzo rimase stupefatto ed edificato della buona maniera dei cittadini verso i foresi; e non sapeva ch’egli era un giorno fuori dell’ordinario, un giorno in cui le cappe s’umiliavano dinanzi ai farsetti. Fece la via che gli era stata segnata, e si trovò alla porta [p. 345 modifica]orientale. Non bisogna però che a questo nome il lettore si lasci correre alla fantasia le immagini che ora vi sono associate: quell'ampia e dritta, strada fiancheggiata di pioppi, al di fuori; quel varco spazioso tra due fabbriche cominciate, se non altro, con pretensione; nel primo ingresso quelle due salite laterali allo spalto dei bastioni, inclinate regolarmente, spianate, orlate d’alberi; quel giardino da una parte, più in là quei palazzi a destra e a sinistra della gran via del borgo. Quando Renzo entrò per quella porta, la via al di fuori andava diritta per tutta la lunghezza del Lazzaretto, che per quel tratto non poteva far di meno; poi scorreva, sghemba e stretta fra due siepi. La porta consisteva in due pilastri con sopra una tettoia per riparare le imposte, e dall’un lato una casipola pei gabellieri. Le imboccature dei bastioni scendevano in pendìo irregolare, e lo spazzo era una superficie aspra e ineguale di rottami e di cocci gittati a caso. La via del borgo che si apriva dinanzi a chi entrava per quella porta, non si assomiglierebbe male a quella che ora s’affaccia a chi entri per la porta Tosa. Un fossatello le scorreva nel mezzo fino a pochi passi dalla porta, e la partiva così in due stradette tortuose, coperte di polvere o di [p. 346 modifica]fanghiglia, secondo la stagione. Al punto dov’era, e dov’è tuttora quella contraduzza chiamata di Borghetto, il fossatello si gittava in una chiavicaccia, e per di là nell’altro fossato che lambe le mura. Quivi era una colonna con sopra una croce, detta di san Dionigi: a destra e a sinistra erano orti cinti di siepe, e ad intervalli casucce, abitate per lo più da lavandai: Renzo entra, passa; nessuno de’ gabellieri gli fa motto: il che gli parve un gran fatto, giacchè da quei pochi del suo paese che potevano vantarsi d’essere stati a Milano aveva inteso raccontar mirabilia dei frugamenti e delle interrogazioni a cui veniva quivi sottoposto chi giugnesse da fuori. La via era deserta, tal che s’egli non avesse inteso un ronzìo lontano che indicava un gran movimento, gli sarebbe paruto d’entrare in una città abbandonata. Andando innanzi, senza saper quello che si dovesse pensare, vide sullo spazzo certe strisce bianche, come di neve; ma neve non poteva essere, ch’ella non viene a strisce, nè per l’ordinario in quella stagione. Si fece sopra una di quelle, guardò, toccò, e fu chiarito ch’ella era farina. — Grande abbondanza, diss’egli tra sè, debb’essere in Milano, se ci si strazia a questo modo la grazia di Dio. Ci davano poi ed intendere che la carestia è [p. 347 modifica]da per tutto. Ecco come fanno per tener quieta la povera gente di fuori. — Ma dopo pochi altri passi, giunto in pari alla colonna, vide appiedi di quella qualche cosa di più strano; vide sugli scaglioni del piedestallo certe cose sparse, che certamente non erano ciottoli, e se fossero state sul banco d’un fornaio, non si sarebbe dubitato un momento di chiamarle pani. Ma Renzo non ardiva creder così tosto ai suoi occhi; perchè diamine! non era luogo da pani quello. Vediamo un poi che negozio è questo, — diss’egli ancora tra sè, andò in verso la colonna, si chinò; ne ricolse uno: era veramente un pane tondo, bianchissimo, e quale Renzo non era solito mangiarne che nei giorni solenni. — È pane da vero! diss’egli ad alta voce; tanta era la sua maraviglia: — così lo seminano in questo paese? in quest’anno? e non si scomodano per ricorlo quando cade? Che sia il paese di cuccagna questo? — Dopo dieci miglia di viaggio all’aria fresca del mattino, quel pane subito dopo la maraviglia, gli risvegliò l’appetito. — Lo piglio? deliberava tra sè: poh! l’hanno lasciato qui alla discrezione dei cani, tanto fa che ne goda anche un cristiano. Alla fine, se vien oltre il padrone, glieli pagherò. — Così pensando, si pose in una tasca quello [p. 348 modifica]che già teneva, ne prese un secondo e lo pose nell’altra, un terzo e cominciò a mangiare, e si rimise in via più incerto che mai e desideroso di chiarirsi che storia fosse quella. Appena mosso, vide spuntar gente che veniva dall’interno della città, e adocchiò attentamente quei che apparivano i primi. Erano un uomo, una donna, e qualche passo indietro un ragazzotto, tutti e tre con un carico addosso che pareva superiore alle forze loro, e tutti e tre in una figura strana. L’abito o la cenceria infarinata; infarinate le facce, e per sopra più stravolte e accese; l’andare non solo faticoso per lo peso, ma doglioso, come di membra peste e ammaccate. L’uomo reggeva a stento in collo un gran sacco di farina il quale, bucato qua e là, ne lasciava sfuggirà qualche sprazzo ad ogni intoppo, ad ogni mossa disequilibrata. Ma più sconcia era la figura della donna: un corpaccio smisurato, e due braccia allargate che parevano sostenerlo a fatica, e avevano figura di due manichi curvati dal collo alla pancia d’un’anforaccia; e di sotto a quel corpaccio uscivano due gambe nude fin sopra il ginocchio, che procedevano barcollando. Renzo guardò fiso e vide quel gran corpo essere la gonnella che la donna teneva rivolta in su, con entro farina [p. 349 modifica]quanta ve ne poteva capire, e un po’ davvantaggio; tanto che tratto tratto ne svolava pur via un qualche spolvero. Il ragazzotto teneva con ambe le mani sul capo una corba colma di pani; ma, per aver le gambe più corte dei suoi parenti, rimaneva a poco a poco indietro, e uscendo poi di passo a ogni tanto per raggiungerli, la corba andava fuor di sesto, e qualche pane cadeva.

“Se ne getti ancor uno, brutto dappoco....” disse la madre, digrignando i denti verso il ragazzo.

“Io non li getto io; cadono essi. Come ho da fare?” rispose quegli.

“Ih! buon per te, che ho le mani impedite,” ripigliò la donna, dimenando i pugni, come se desse una spellicciatura al poveretto; e con quel movimento mandò via una nuvola di farina, da farne più che i due pani lasciati cadere allora dal ragazzo. “Via, via,” disse l’uomo: “torneremo addietro a ricorli, o qualcheduno li ricorrà. Da tanto tempo stentiamo: ora che viene un po’ d’abbondanza, godiamola in santa pace”.

In tanto sopraggiungeva gente da fuori; e uno di questi accostatosi alla donna, “dove si va a pigliare il pane?” le domandò. “Innanzi, innanzi,” rispose ella; e quando [p. 350 modifica]furono dieci passi lontano, soggiunse borbottando: “questi foresi birboni verranno a spazzar tutti i forni e tutti i magazzini, e non resterà più niente per noi.”

“Un po’ per uno, taccola,” disse il marito. “Abbondanza, abbondanza.”

Da questo e dal consimile che vedeva e udiva, Renzo cominciò a raccogliere che egli era giunto in una città sollevata, e che quello era un giorno di conquista, vale a dire che ognuno pigliava a proporzione della voglia e della forza, dando busse in pagamento. Per quanto noi desideriamo di far fare buona figura al nostro povero montanaro, la sincerità storica ci obbliga a dire che il suo primo sentimento fu di compiacenza. Egli aveva così poco di che lodarsi dell’andamento ordinario delle cose, che si trovava inclinato ad approvare ciò che lo mutasse comunque. E del rimanente egli, che non era un uomo superiore al suo secolo, viveva pure in quella opinione o in quella passione comune, che la scarsezza del pane fosse cagionata dagli ammassatori e dai fornai, e volentieri credeva giusto ogni modo di tor loro dalle mani l’alimento che essi, secondo quell’opinione, negavano crudelmente alla fame di tutto un popolo. Pure, fece proponimento di star fuori del garbuglio, e si rallegrò di [p. 351 modifica]essere avviato ad un cappuccino, che gli darebbe ricovero e buon indirizzo. Così pensando, e guardando intanto ai nuovi conquistatori che apparivano carichi di spoglie, fece la breve strada che gli rimaneva per giungere al convento.

Dove ora sorge quel bel palazzo con quell’alta loggia, v’era allora, e v’era ancora non sono molti anni, una piazzetta; e in fondo a quella la chiesa e il convento dei cappuccini con quattro grandi olmi dinanzi. Noi ci rallegriamo, non senza invidia, con quei nostri lettori che non hanno veduto le cose in quello stato: ciò vuol dire che sono molto giovani, e non hanno avuto tempo di far molte minchionerie. Renzo andò dritto alla porta, ripose in seno il mezzo pane che gli rimaneva, cavò fuori e tenne preparata in mano la lettera, e tirò il campanello. S’aperse uno sportellino che aveva una grata, e vi comparve la faccia del frate portinaio a domandare chi era.

“Uno di fuori, che porta al padre Bonaventura una lettera pressante del padre Cristoforo.”

“Date qui,” disse il portinaio, mettendo la mano alla grata.

“No, no,” disse Renzo “gliel ho da consegnare in proprie mani.” [p. 352 modifica]

“Non è in convento.”

“Mi lasci entrare, che lo starò aspettando,” replicò Renzo.

“Fate a mio modo,” riprese il frate: “andate ad aspettare in chiesa, che intanto potrete fare un po’ di bene. In convento non s’entra, per al presente.” E detto questo, richiuse lo sportello. Renzo rimase goffo colla sua lettera in mano. Fe’ dieci passi verso la porta della chiesa per seguire il consiglio del portinaio; ma poi pensò di dar prima un’altra occhiata al garbuglio. Attraversò la piazzetta, si portò sull’orlo della via, e colle braccia incrocicchiate sul petto, si fermò a guardare a sinistra verso l’interno della città, dove il rimescolamento era più folto e più clamoroso. Il vortice attrasse lo spettatore. — Andiamo a vedere, — pensò egli, trasse di nuovo il pane, e sbocconcellando, si mosse verso quella parte. Intanto ch’e’ s’incammina, noi racconteremo brevemente al possibile le cagioni e i principii di quello sconvolgimento.


fine del tomo primo.