I porti della Maremma senese durante la Repubblica/Capitolo VII
Questo testo è completo. |
◄ | Capitolo VI | Capitolo VIII | ► |
I PORTI DELLA MAREMMA SENESE
durante la repubblica
NARRAZIONE STORICA CON DOCUMENTI INEDITI
DI LUCIANO BANCHI
(Ved. tom. XII, par. I, pag. 92)
Capitolo Settimo.
Sommario.
Seguitando l’ordine dei tempi, già avremmo dovuto rammentare Port’Ercole, amenissimo sito del Monte Argentaro. Tuttavia per non interrompere in mal punto la narrazione sul porto di Talamone, preferiamo di continuare alcun poco a parlarne.
Giunse notizia in quest’anno (1451) della venuta in Italia di Federico III imperatore, del quale era segretario e privatissimo Enea Silvio Piccolomini, assunto pochi anni dopo al supremo pontificato. I Senesi si diedero grande briga per ricevere con ogni dimostrazione di onore l’ospite augusto, che prometteva di fare in Siena più lunga stanza che altrove. All’esordire del 1452 Federico venne di fatti in Italia a prendervi la corona, e viaggiando alla volta di Roma, s’intrattenne a Siena, ove, mercè pure le cure del Piccolomini, ebbe come in altre città d’Italia splendide e onorevoli accoglienze. Le quali erano state preparate dai Senesi anche a Talamone, che non Federico, come alcuni asserirono, ma Leonora di Portogallo sua sposa era ivi già da sei mesi aspettata. Imperciocchè leggesi come addì 17 settembre 1451 il Consiglio generale della Campana assegnasse la non mediocre somma di cinquecento fiorini per gli onori che si dovevano fare in quel Porto all’imperatrice1, ed altri trecento per allestire le case dove ricettarla2. Meglio era averli spesi nella costruzione di qualche galea, e nella fortificazione del cassero. Leonora invece prese porto a Livorno, che già cominciava ad essere preferito agli altri porti di Toscana, e venuta a Siena nel febbraio del 1452, s’incontrò con Cesare fuori della città presso la porta fiorentina, laddove a memoria del fatto i Senesi eressero una colonna che ancora rimane3. Il passeggero che, facendosele appresso, non sente a niuna egregia cosa accendersi l’animo, la guarda e passa; e passerem’oltre anche noi.
Nel maggio del 1453 il camarlingo e gli esecutori della generale Gabella presero occasione da cerla controversia nata tra il podestà di Talamone ed alcuni mercatanti che avevano messa in quel Porto una buona quantità di perpignani, per lamentare «il disordine, la disuguaglianza e la grande varietà e paucità d’essa gabella de’ perpignani, e generalmente di tutte l’altre gabelle d’esso porto di Talamone». Chiedevano una più savia distribuzione nei prezzi delle gabelle, poiché queste erano ormai tanto fuori d’ogni dovere, che una soma di perpignani, che si’ vendeva duecento e quaranta fiorini, pagava di gabella quattro soldi soltanto; mentre la lana sucida, che valeva per ogni soma dodici fiorini, pagava di gabella dieci soldi, cioè «presso a due terzi più la lana che e’ pirpignani». E gli officiali predetti continuavano in questo loro ricordo alla Signoria scrivendo: «Tale materia gli muove ricorrere alle V, M. S. a ricordare tali disordini e mancamenti; e che facilmente, voltandoci l’occhio, credano e rendansi certi che d’esse cabelle se ne potrebbe cavare centonaia e centonaia di fiorini più che non se ne cavava ciascheduno anno, senza fare alcuno danno o mondamento d’esso Porto; come è di seta, grano, zafferano, veli, vai, guado, speziarle e molte altre cose, le quali In Talamone pagano poco o niente a rispecto delle cabelle del porto di Pisa; le quali cabelle di Pisa avemo voluto vedere e bene examinare e la loro grande varietà di quelle di Talamone; che non si paga a Talamone di 40 denari l’uno si paga in Pisa. Et acciò che ne potiate avere vera notizia, e vedere tale disordine e mancamento, vi portiamo la copia delle cabelle di Talamone e di rincontra quelle di Pisa’,.... acciò che la S. V. ci possa far fare qualche debita et onesta correzione e limitazione e qualche utile et onorevole previsione o per mezo della V. M. S., per altri onorevoli e pratichi cittadini»4. Letto questo ricordo nell’adunanza del Consiglio della Campana del dì 2 giugno 1453, fu creata una balìa di sei cittadini, perchè facesse le proposte occorrenti. Sei mesi dopo furono in Consiglio approvate le nuove gabelle del porto di Talamone, i cui prezzi notevolmente sì accrebbero, come di leggeri appare dalla Tavola comparativa delle Gabelle, allegata dopo i documenti.
Se maggiori e migliori provvisioni a benefizio di quel Porto non occorrono in questi anni, e se quelle sollecitudini che per Io passato si ponevano dai Senesi per accrescere importanza ai loro possessi marittimi, si veggono venir meno poco alla volta, non è malagevole indovinarne le cause. La città e tutto il dominio erano in preda ad inquietezze, e dal reame di Napoli era minacciata di nuovo la pace d’Italia. Re Alfonso, alleato del duca di Milano, memore delle arti usate dal suo precessore Ladislao, venne in Toscana con animo di indurre i Senesi a muover guerra a Firenze ch’era in lega col conte Francesco Sforza. Ai Senesi non piaceva di suscitare un incendio, dove essi perchè primi e forse più deboli, avrebber potuto patire gravi danni; per la qual cosa si schermirono con molt’arte dai raggiri e dalle seduzioni di Alfonso. Ma i Fiorentini da qualche tempo macchinavano novità contro Siena, la quale, conoscendo gli umori de’ suoi emuli antichi, aveva fatti apprestamenti più di difesa che di guerra. Contuttociò i Fiorentini, dato l’assalto a Foiano occupato dalle soldatesche del re, senza alcuna buona ragione entrarono ostilmente nel contado senese e gli diedero il guasto. Si venne facilmente alla guerra ambita dai Veneziani e da essi consigliata molto tempo prima ai Senesi loro amici; ma fu guerra breve ed infruttuosa, che finì con dimostrazioni di disprezzo per re Alfonso che n’era meritevole, e per i Senesi che non altra colpa avevano se non che quella di sopportare un governo debole ed imprevidente. Difatti, ad insaputa loro, fu fermata la pace tra la repubblica di Venezia, il duca di Milano ed i collegati. Frattanto nuove cagioni di guerra apprestò ai Senesi il conte Aldobrandino Orsini, signore di Pitigliano; e la repubblica, tradita da Sigismondo Malatesta, poi da Carlo Gonzaga, succedutisi nel comando delle milizie senesi, non riusciva a frenare l’ambizione dell’Orsini. Questi, peraltro, ridottosi a mal partito, cercò la pace, che fu convenuta il 7 maggio 1455, non senza l’intromessione del papa, dei Veneziani e di Alfonso di Napoli. Se nonchè, dileguato un pericolo, un altro ne sopraggiunse, e la pace fu di bel nuovo compromessa, avendo Iacopo Piccinino invaso con le sue soldatesche il dominio senese. Era generale delle genti della repubblica Giberto da Correggio. I Senesi, venuti in sospetto della fedeltà di lui, lo richiamarono; e mentre, convinto di tradimento,- dinanzi alla Signoria si scusava, fu ucciso, e dalle finestre del palazzo gettato sulla pubblica piazza. Di questa atroce punizione rimane anch’oggi memoria nella sala di Balìa, sulla cui parete contigua alla prima finestra si leggono queste parole scritte con una punta di ferro da persona che per avventura fu testimone o parte di quella esemplare vendetta: A dì vij di septembre in sabbato ad hore xxij m.... morto in questo loco et traditore.
Accrescevano la debolezza del governo gli inquieti animi dei cittadini. La elezione al soglio pontificio di Enea Silvio Piccolomini col nome di Pio secondo, e la riabilitazione dei Piccolomini al governo della cosa pubblica, decretata dal Consiglio, alzarono le speranze dei nobili da lungo tempo ammoniti, ai quali la esclusione dal supremo magistrato pesava come una ingiustizia non più tollerabile. Il nuovo pontefice, dapprima con istanze amorevoli, poi con linguaggio pieno d’ira e di sdegno, invitò i suoi concittadini a togliere il mal posto divieto5; e i Senesi, ricalcitranti in principio, da ultimo vi s’indussero con tanto loro rincrescimento, che non appena Pio secondo ebbe cessato di vivere, ammonirono di nuovo i nobili, facendo eccezione soltanto per la illustre casata dei Piccolomini.
Per queste cagioni le cure ed i pensieri della Signoria e dei cittadini a ben altre cose erano vòlti, che non ai lavori occorrenti nel Porto, ed ai modi di favorire l’incremento dei traffici e del commercio. Perciò di questi anni non altro ricordo troviamo di Talamone se non che una dimanda scritta agli officiali del Collegio di Balìa da un tal Antonio di Quarto da Genova, il quale, «attese le divisioni e tribolazioni sono in Genova sua patria infra li cittadini», chiedeva di poter esercitare il suo mestiere mercantile in Talamone. E continuava narrando, che «avendo più volte, navigando, considerato lo sito della vostra terra in Talamone e porto di esso, e altri loci aptissimi allo exercizio mercantile, e potersi facilmente in quelli loci acquistare honore e utile con grande utile della vostra città e vostri cittadini, e così nel condurre in essi vostri porli e lochi più mercanzie necessarie e utili, come eziandio nel cavare, con vantaggio non piccolo della S. V. e suoi cittadini....; ha deliberato, in quanto piaccia alla V. M. S. venire ad abitare nella vostra terra di Talamone, e ine condurre e per continuo habitare la sua famiglia, beni e facultà, e diventare terriere d’essa vostra terra di Talamone»6. La Balìa accolse con molto favore la dimanda del mercante genovese, ed i patti da lui medesimo proposti; tra i quali era pur quello di essere obbligato, «facendo alcuno viaggio, menarvi diversi giovani, acciò che imprendino e pratichino e facciansi valenti mercatanti»7.
Qui cade opportuno cominciare a discorrere di Port’Ercole8. Nella estrema punta orientale del Monte Argentaro, conosciuto dagli antichi col nome di Promontorio Cosano, si apre questo porto naturale, il cui villaggio fabbricato a palco fino alla riva del mare, è protetto dal sovrastante castello. Agli eruditi nelle antichità patrie sarebbe vanità il ricordare che questo Porto come gran parte del promontorio Cosano, appartenne alla opulenta famiglia dei Domizi Enobardi; e che non fu ignoto a Strabone, a Rutilio Numanziano, nè agli altri scrittori di geografie e di itinerarii marittimi9. A noi giova dire piuttosto che Port’Ercole fu compreso nella donazione che l’imperatore Carlo Magno fece tra l’804 e l’808 alla celebre Badia di S. Anastasio ad Aquas Salvias presso Roma; dalla quale in sul cadere del secolo decimoterzo fu infeudato insieme con Orbetello ed altre terre ai conti Aldobrandeschi di Sovana. In seguito passò da questi agli Orsini, a cui i monaci di quella Badia lo allogarono nel 1401 insieme col Monte Argentaro e con Orbetello, con le isole del Giglio e di Giannutri, e con altre terre, come la Marsigliana, Capalbio, Scerpenna e Mont’Aguto. Contuttociò, si ha ragione per credere che già fino dal 1415 i Senesi fossero venuti in possesso di quel Porto; imperocchè rimane di quell’anno una dimanda fatta da alcuni cittadini al Consiglio del Popolo, perchè fosse concessa la somma di cinquanta fiorini per trarre a compimento una torre in Port’Ercole «con uno poco di circuito da piei al porto», la qual torre cominciata a fabbricare dal conte Bertoldo Orsini, era stata molto innanzi condotta10. Queste notizie correggono ciò che di Port’Ercole scrisse Emanuele Repetti nel Dizionario Storico della Toscana; dove egli asserì che dai monaci della Badia di S. Anastasio fu dato in feudo agli Orsini, e che a questi rimase fino al 1452, nel qual anno, mercè un lodo di Niccolò V, ratificato da Pio II, lo avrebbero ceduto al Comune di Siena. Invece fino dall’ottobre del 1411 i Senesi concedevano in enfiteusi ad Agnolo Morosini, come tra poco diremo, il Monte Argentaro, compreso Port’Ercole: il che chiarisce anche meglio l’errore nel quale cadde il diligente compilatore di quel Dizionario. Il lodo di papa Niccolò, dal Repetti citato, pone in chiaro questo, che, morti i figli ed i nipoti del conte Aldobrandino Orsini, i monaci della Badia di S. Anastasio pretendevano dal Comune di Siena la restituzione di quelle terre, da essi allogate agli Orsini, ed il pagamento dei frutti per tutto il tempo che i Senesi le avevano indebitamente occupate.
Alle ragioni, dei monaci rispondeva Niccolò Severini, oratore senese in corte del papa, che quelle terre spettavano di pien diritto al Comune di Siena, nella cui proprietà erano legittimamente venute in conseguenza della guerra fatta contro gli Orsini11, che ad ogni ora turbavano il pacifico e tranquillo stato dei Senesi. Se non che volendo le due parli definire questa controversia, furono d’accordo che l’abate del monastero concedesse in enfiteusi perpetua quelle terre al Comune di Siena, assolvendolo dal pagamento dei censi arretrati; e che il Comune si obbligasse a pagare ogni anno quindici fiorini d’oro, come censo dovuto alla Badia12. 11 pontefice Pio II ratificò questi patti, e la lunga controversia ebbe fine. Furono dunque Port’Ercole ed il Monte Argentaro conquistati in guerra dai Senesi, forse al tempo della venuta in Toscana (1409) dell’esercito di Ladislao re di Napoli.
Scarse notizie rimangono di Port’Ercole, finchè rimase soggetto al dominio dei monaci o dei conti feudatari. Nelle croniche senesi è ricordato, durante il secolo decimoquarto, forse una sola volta, cioè sotto Tanno 1338, a cagione della ingente quantità delle mercanzie di seta, condotte in quel porto, secondo l’usato, dal gran mercatante di Seria, ed acquistate per una somma cospicua da Benuccio dei Salimbeni. Furono queste mercanzie, che il popolo trasse a vedere come cosa nuova e meravigliosa, consegnate ai sensali di quella potente e ricchissima fa-’ miglia, i quali aperti tre fondachi nella via dei Renaldini che va in Piazza del Campo, in termine d’un anno l’ebbero quasi per intero vendute13.
Dopo che quel Porto venne alla obbedienza dei Senesi, la prima notizia di qualche conto che se ne trova, non risale oltre il 1441. In quest’anno messer Agnolo Morosini veneto, che aveva ottenuta per servigi resi allo Stato la cittadinanza senese, fece dimanda alla Signoria perchè volesse «concedergli il Monte Argentare cum suoi porti et pertinenzie libero, a lui et ad suoi redi et successori»; avendo rispetto che il Comune di Siena non ne cavava alcun frutto, ma piuttosto ne riceveva accrescimento di spesa e mancamento d’uomini a cagione dei corsari e dei mori che prendevano porto in quel luogo, stato sempre ricetto di mala gente. Il Morosini a ciò si induceva, non tanto per desiderio di recare a Siena, che conosceva per patria, onore ed anche utile, quanto altresì perchè non gli era possibile di «abandonare le sue galee et fusto senza grandissimo suo danno»14. Seguivano alla istanza i patti ch’egli proponeva per ottenere la dimandata concessione, tra i quali era quello di fortificare Port’Ercole, obbligandosi a fabbricarvi in luogo acconcio un castello con torri fortissime, e di fornire il lavoro in tempo di quattro anni15. Il Consiglio del Popolo e quello della Campana, fatto alcuno addizioni alle proposte del Morosini, nell’adunanza del di 6 ottobre (1441) ne accolsero con favore la domanda . riservando al Comune di Siena la piena giurisdizione del Monte Argentare e di ogni sua pertinenza.
Questa concessione non ebbe molto lunga durata, sia che il Morosini si ritraesse dalla grave impresa, sia che per lui non fossero osservati i patti ch’erano stati convenuti. Imperciocchè il 30 d’aprile del 1460 il Comune allogò Port’Ercole col Monte Argentare a Iacomo di Giovanni di ser Minoccio, a Pietro Benassai e ad altri cittadini senesi, uniti, come sembra, in società commerciale16. Delle varie condizioni che si posero a quest’affitto non possono tacersi le principali. Obbligaronsi gli affittuari a costruire una nuova torre in Port’Ercole, alta braccia quaranta, larga per ogni parte braccia dodici; un fondaco per la conservazione delle mercatanzie, grande come quello di Talamone. Dovevano fortificare la torre locata sul poggio del porto, e nel poggio fare «una terra habitevole, di grandeza almeno quanto è tutto il Campo della città di Siena»; la quale fosse connessa colla sopradetta torre e col magazzino. Probabile è che la torre che doveva fortificarsi fosse quella cominciata dall’Orsini, della quale chiedevasi il compimento nel 1415. Agli abitanti della nuova terra si concedevano le franchigie ed i privilegi goduti dagli uomini di Orbetello, obbligandoli peraltro ad offerire ogni anno alla chiesa cattedrale di Siena per S. Maria d’agosto un palio di valuta almeno di venticinque lire. Uguali le gabelle di Port’Ercole a quelle di Talamone, il cui provento si riteneva il Comune; con questa dichiarazione che se le mercanzie avessero pagata la gabella nell’un Porto, non dovessero ripagarla nell’altro. Gli affittuari ebbero tempo sei anni ad eseguire i lavori a cui si erano obbligati, a pena di cadere da ogni loro ragione, e di perdere ciò che in que’ luoghi avessero acquistato. «Grosseto, Ischia, Montepescali, Batignano e Campagnatico e tutte l’altre terre di maremma da fiume dell’Ombrone in là furono tenute dare a’ predetti cittadini una opera per huomo a loro richiesta, senza aver lo’ a fare alcuno pagamento; e le dette opere si dovevano dare e convertire per edifizio, muraglie o cose pertinenti a fare e fortificare detti luoghi»17. A questi patti il Comune di Siena allogò Mont’Argentaro e Port’Ercole, riservandosi il mero e misto imperio, e la facoltà dopo dieci anni di mandare a Port’Ercole un offiziale che vi avesse l’autorità simile a quella del podestà d’Orbetello, sottoponendolo, quanto alla guardia del luogo, al podestà di Magliano.
Questa locazione durò quattordici anni, anche troppi, a nostro giudizio, per rendersi persuasi dei danni che ne derivavano a quei luoghi ed allo stesso Comune. E difatti alcuni cittadini, eletti e deputati per autorità del Consiglio del Popolo a fare provvisioni sopra la materia di Port’Ercole, presentarono al Consiglio il dì 26 agosto 1474 un ricordo, dove anzi tutto chiedevano che le convenzioni fatte nel 1460 con Giacomo di ser Giovanni di Minoccio e con i suoi compagni fossero abrogate18.
E considerando di quanto pregio era Port’Ercole, fecero proposta che d’allora innanzi la guardia ed il governo di quel Porto e del Monte Argentano avessero tre castellani, uno dei quali sarebbe a vicenda il vicario, e con loro dimorassero otto fanti, d’età almeno di venti anni e sufficienti alla guardia». Queste ed altre proposte furono dal Consiglio approvate; e non molto dopo due castellani, non tre, si trovano mandati a Port’Ercole, una lettera dei quali scritta addì 15 di settembre di questo anno fa palesi le tristissime condizioni di quel castello. mancavano ai poveri abitanti le case; anche la chiesa mancava: i privilegi e le franchigie promessi, non osservati; il fondaco delle mercatanzie fatto uno spedale, ed essere confusione a vedere che circa a quaranta famiglie vi stavano miseramente e con grandi sofferenze. Ciò nondimeno que’ castellani annunziavano che alcuni mercatanti pratinghi, veduto il luogo e consideratane la buona postura ed il comodo che v’era del fondaco, aveano fatto disegno di andare in quel Porto con merci diverse; sicchè per tutti i buoni rispetti era necessità di sgombrare il fondaco, e di farlo libero dai malati che vi giacevano19. Queste cose scrivevano (e non potevano recar meraviglia) i castellani Domenico de’ Rocchi e Filippo Buoninsegni ai governatori della repubblica, i quali, lasciamo stare che non provvedevano, o scarsamente, a tanto urgenti necessità, ma facevano eziandio veder di lontano il salario ai castellani stessi ed ai fanti.
In questo medesimo anno (1474) messer Francesco Benedetti da Perpignano, da qualche tempo fatto suddito della repubblica, mercatante e uomo di mare, dimandò ai signori governatori di poter costruire una nave nei porti del Comune, da lui chiamati comodi e onorevoli. supplicava pertanto che gli fosse data licenza di prendere in quelle parti ogni ragione di legname senza alcuno dispendio, e di poter porre sulla nave l’insegna della repubblica, «acciò che alla difesa di quella e’ subditi di V. E. possino lui favorire»20. Il Consiglio approvò, quasi unanime, la dimanda di messer Francesco (1474, 30 gennaio, st. sen.); e ci duole che dimando consimili, che avremmo voluto trovare frequentemente, non occorrano mai più.
Lacrimevoli eventi sopraggiungevano per viepiù desolare i Porti della repubblica. L’anno 1476 Talamone fu invaso da una pestilenza assai fiera, che facilmente si propagò nelle terre vicine, e la scarsa popolazione ne fu in parte distrutta, in parte costretta ad esulare, abbandonando i colti ed i traffici, non altro seco portando che una grande miseria. Tosto che il morbo cessò, e quelle terre venivano poco a poco ripopolandosi, scesero a svernare nella maremma gran numero di fanti napolitani che il re, fatta la pace coi Senesi, mandò in Toscana per tenere in suggezione i Fiorentini suoi nemici. Se a Talamone e Port’Ercole recasse guasto maggiore la pestilenza o l’esercito regio, gli storici tacciono; ma le lettere dei commissari senesi alla repubblica fanno manifesto che delle due pestilenze la seconda fu peggiore della prima, e che quella parte del dominio senese ne patì danni molti e gravissimi. I commissari scrivevano raccomandandosi che la repubblica a tanta calamità riparasse: i poco accetti ospiti essere maggiori di numero agli abitanti . quindi più forti; e «considerata la natura de li soldati e’ loro costumi», non v’era modo di salvare gli abitanti dagli arbitrii e dalle violenze di quelle soldatesche. Aggiungevano che scarse erano le vittuaglie, scarsissimo il grano che bisognava limosinare giorno per giorno; tanto che se le cose dovessero camminare poco più in siffatta guisa, ne sarebbero derivati funesti effetti e, quel che è peggio, la fame. La miseria di quei luoghi essere al colmo, nè sopportare dilazione alcuna: avviliti gli animi, depresse le forze21. Provvide, prima della repubblica, lo stesso re Ferdinando alle squallide condizioni della maremma, allontanandone le milizie che per cagione della guerra già cominciata contro Firenze, toglieva ai quartieri d’inverno. Ed allorchè per impeto di uno di quei tumulti popolari che tennero sempre debole ed inquieta la città, i Riformatori caddero, e si ricompose il governo coi Nove e coi Popolari (22 giugno 1480), la nuova Signoria non indugiò molto a volgere le sue cure ed i suoi pensieri ai Porti ed alle terre della maremma. Così, ai 18 dicembre di questo anno, si vinsero in Consiglio alcune provvisioni, mercè cui si allettavano i vecchi abitanti di que’ luoghi a non emigrare, gli emigrati a tornarvi22. Volevasi accrescimento di popolazione col mezzo di privilegi e di concessioni, mezzo insufficiente all’uopo; mentre se non crescevano, restavano come per lo passato le cause che malsana facevano e poco sicura, e perciò disabitata, la maremma senese.
Pareva intanto che il commercio della città riprendesse qualche vigore, specialmente quello dei panni di lana, dei quali si trasportava in Oriente gran copia. I mercatanti senesi che ne traevano ingente lucro, dolevansi che la città non avesse in quelle lontane parti chi vegliasse alla tutela loro e del loro commercio. Quindi un po’ tardivamente, ma pure con avveduto consiglio, la Signoria scrisse addì 11 agosto 1489 al gran turco, pregandolo ad acconsentire che nelle parti del suo Impero risedesse un console, oriundo di Siena, di non dubbia fede ed integrità, del quale potessero i mercatanti senesi giovarsi nelle loro occorrenze, siccome costumavano di fare i Veneziani, i Fiorentini, quei di Ragusa e d’Ancona ed altri popoli dell’Italia. A quest’ufficio si designava nella lettera un Niccolò cittadino senese, abitante in Costantinopoli, prestantissimo in medicina e filosofia, a cui meritamente l’imperatore avrebbe potuto concedere quell’autorità che gli altri consoli avevano23. Questi provvedimenti, e più assai la quiete che era in città, davano argomento a sperar bene dell’avvenire: con animo risoluto si cacciavano dalla maremma i molti corsari che vi si erano annidati con danno gravissimo di quella provincia e con pericolo continuo degli abitanti. Ma questa pace dovea bastar poco, e l’ambizione di Lodovico il Moro, e la oltracotanza francese turbavano di nuovo il quieto stato di questa parte d’Italia.
Prima della calata di Carlo VIII in Italia, Alfonso re di Napoli preparandosi a combattere il potente avversario, mandò Federico suo fratello con l’armata contro a Genova, soggetta al duca di Milano. Vennero adunque le galee napolitano a Talamone e Port’Ercole, ed i Senesi, presone sospetto, spedirono all’ammiraglio oratori con molti presenti, e con la commissione di scoprire se egli avesse qualche intelligenza co’ fuorusciti di Siena. Gli oratori furono rassicurati, e l’armata indi a poco se ne partì alla volta di Porto Venere, che invano tentò d’espugnare, e di Rapallo dove Lodovico d’Orleans mise in rotta gli Aragonesi. Re Carlo, scendendo da Pontremoli, ed assediata la roccia di Sarzanello, entrava quindi in Firenze (novembre 1494) pieno di pretensioni e di superbia, fiaccata in breve dalla famosa risposta di Pier Capponi. E mentre in Firenze si tratteneva patteggiando, spedì alla volta di Siena la sua avanguardia, condotta dal duca di Montpensier, il quale sotto colore di vendicarsi di alcune offese ricevute dagli uomini di Colle, chiese in ostaggio quanti fossero in Siena partigiani degli Aragonesi. A questa nuova, molti cittadini abbandonarono la città; ma alcuni francesi saliti in palazzo ne trassero fuori prigione M. Antonio da Venafro, lettore nello Studio e cittadino senese, e con atto di violenza inaudita lo condussero dinanzi al Montpensier, che qualche tempo lo ritenne contro il diritto delle genti e contro la stessa volontà, almeno in apparenza, del re di Francia24. I Senesi, venuti ragionevolmente in grande timore sulle intenzioni di Carlo, gli spedirono oratori in Pisa, i quali senza aver conseguito alcun effetto se ne tornarono con due ambasciatori del re. Questi scesi alla casa di messer Niccolò Borghesi, che era uno di detti oratori, e recatisi poi a visitare la Signoria, in nome del re le chiesero trentamila fiorini doro e la consegna dei Porti di mare. Alla insolente domanda non seppero quale risposta dare i governatori del Comune, tra cui niuno fu che rassomigliasse all’anima fiera e sdegnosa di Pier Capponi, e presero tempo a pensare. Il 27 e 28 di novembre tennero Consiglio con gli officiali di Balìa e con altri cittadini, e dopo lungo e maturo colloquio non riuscirono di venire ad altra conclusione, che quella di eleggere otto che avessero piena autorità di rispondere alla dimanda fatta dei porti di Talamone, Port’Ercole, e Santo Stefano nel modo che credessero più conveniente, non dimenticando di ricordare al re, se paresse loro opportuno, che la città di Siena era vicariato dell’Impero. E quanto ai trentamila fiorini si manifestasse al re la povertà di Siena e dei suoi abitanti, adoperando quelle acconcie parole che meglio valessero a distornare questo nuovo infortunio25. Dal che pare potersi con ogni certezza inferire, che il timore aveva vinto i Senesi fino a non saper negare la consegna dei Porti alla Francia, palesandosi solamente impotenti a pagare la somma loro richiesta. Ma la buona ventura volle che tanto pericolo si dileguasse d’un tratto. Il 2 dicembre re Carlo entrò in Siena con grandissima pompa, ed ebbe dai cittadini accoglienze festose e solenni. Narrano che a capo la porta fiorentina, per la quale il re fece l’ingresso, un fanciulletto in abito rappresentante la Vergine, cantasse alcuni versi accompagnato dal suono di vari istrumenti; e che Carlo, rispondendo il giorno dipoi alla Signoria ch’era andato a visitarlo ed a supplicarlo in favore della città, dicesse che alla Città della Vergine non voleva dare afflizioni, ne chiedere denari ne altro; e si offerì ai comodi della repubblica, aggiungendo che come eglino erano buoni francesi, così egli voleva essere buon senese26. E non fu atto spontaneo di generosità questa rinuncia, ma fu avvedimento politico, che già minacciavasi la lega delle potenze d’Italia contro di lui, ed il possesso di quei Porti non valeva la inimicizia della repubblica.
Nel governo dei popoli, come nel regno della morale, chi ha percorso ostinatamente la via dell’errore, a fatica se ne dilunga, ancora che l’esperienza abbia chiarito i danni di tale ostinazione. Più volte i Senesi aveano provato esiziale alla prosperità dei loro Porti l’abbandonargli alla ingordigia di speculatori, di nient’altro solleciti se non che di trarne il maggior profitto possibile. Eppure, dimenticando tutto questo, al primo esordire del secolo decimosesto, il governo della repubblica vendè per un decennio ad Alessandro di Galgano Bichi tutte l’entrate di Talamone e Port’Ercole, mercè il prezzo di quattromila cinquecento fiorini. Lo stesso erasi fatto poco innanzi pel Monte Argentare, il cui uso aveva comperato lo Spedale di S. Maria della Scala. Era tra i patti di quella vendita l’obbligo nel Comune di dare al Bichi ed a’ suoi compagni di compra le artiglierie necessarie alla guardia di quei castelli, e di non foro a veruno abitante di detti luoghi alcuna nuova esenzione, mentre confermava i privilegi concessi. Senza lettere di tratta non si poteva mettere nella terra di Talamone e di Port’Ercole alcuna soma di grano raccolto fuori di quelle corti, sotto la pena del frodo, così al compratore come al venditore. I grani o biade che facesse venire di fuori il Comune di Siena sarebbero stati esenti da ogni gabella, tanto all’entrare che all’uscire dai porti. La giurisdizione che vi esercitavano gli officiali della repubblica passava nei compratori; ma era permesso agli abitanti di appellare dalle loro sentenze ai signori governatori del Comune, o al giudice delle Riformagioni, o ai quattro di Biccherna, al magistrato dei Regolatori, ad arbitrio del ricorrente27.
Dopo ciò chi consideri a quanta miseria si fossero ridotte quelle terre, durante questo secolo a cagione del mal governo fattone dagli affittuari; chi rammenti i guasti che vi recarono i fanti napolitani, l’armata francese, e i corsari che vi si erano rifugiati; indovinerà facilmente in qual misero stato furono date a sfruttare ad Alessandro Bichi, ed in quale assai più tristo e peggiore tornarono poi nella piena podestà della repubblica. Talvolta le necessità dello Stato non conoscono leggi: ma sta troppo contro ogni legge e contro ogni avvedutezza politica posporre a’ bisogni transitorii dello Stato il buon governo e la prosperità delle popolazioni. Quello che vi guadagna oggi lo Stato, lo perde a cento doppi al dimani in riputazione ed autorità appresso i cittadini.
Note
- ↑ Consiglio della Campana, n. 230, c. 205.
- ↑ Pro reficiendo demos in Talamone, ut in iliis imperatrix valeat receptari,... offitiales Talamonis et Orbetelli expendant florenos trecentos (ivi).
- ↑ Nella pietra che riposa sull’alto della colonna si legge questa iscrizione:
caesarem federicvm iii imp. et
lyonoram sponsam portvgal’
regis filiam hoc se primvm
salvtavisse loco laetisqve
inter se consvltasse av-
spiciis marmorevm posteris
indicat monvmentvm
a. d. mccccli. vii. kl. martias.
Sulla parte opposta della pietra sono scolpite le armi di Federico III e della Casa di Portogallo. L’incontro di Federico III con Leonora di Portogallo sua sposa fuor della nostra porta fiorentina, fu l’argomento di una delle bellissime istorie dipinte nella libreria Piccolominea nel duomo di Siena dalla mano del Pinturicchio; sotto la quale stanno queste parole: Aeneas Federico III imp. Leonoram spoìisam exhibct et puclle laudis ac recjum Lusllanorum compleditur. - ↑ V. il Documento di n° VIII. Non ci fu possibile di trovare la copia qui ricordata delle gabelle di Talamone poste a confruuto con quelle di Pisa.
- ↑ Nell’Archivio di Stato in Siena esiste un breve di Pio II, dato il 25 di novembre del 1158, l’anno primo del suo pontificato, e diretto ai governatori del Comune, nel quale è lamentato amaramente il rifiuto fatto dal Consiglio alle istanze del pontefice per la riabilitazione dei nobili. Nonostante che il Breve fosse scritto con linguaggio assai risoluto, appena confacente a principe che rimproveri sudditi, sembra che il pontefice non ne restasse contento; ed a maggiore sfogo del suo animo irato, di propria mano aggiunse sotto il Breve queste notevoli parole di rimprovero e di minaccia: «Pius episcopus, servus servorum Dei. Relatum nobis est ex ccc senatoribus qui ad consulendum super nostra petitione covenerunt, tres et octuaginta votis nostris annuendum censuisse. Hos nos prudentes putamus et patriae suae zelatores: alios qui adversati sunt, non bene inspexisse civitatis sue utilitatem, et propria commoda pensitantes publica postposuisse. Non est parum in una civitate octuaginta tres esse sapientes: speramus tandem melior pars maiorem instruet et ad sè trahet. Quod si fiet, erit salus patrie nostre: si minus, intelliget multitudo, que pio desiderio nostro resistit, egre nos ferre nobilitatem postergari: pro qua tuenda nihil omittemus quod in nostra et apostolice sedis potestate consistat. Penitebit tandem civitatem vestram pii pontificis insta rogamina contempsisse . Hoc est propositum nostrum, a quo pro bono patrie divelli nulla alla ratione, quam morte, poterimus. Scriptum manu propria, ut credatis et certi sitis hanc esse voluntatem nostram. Vestrum nunc est eligere, propitiis nobis an adversis, uti malitis».
- ↑ Questa dimanda fu letta nell’adunanza del Collegio di Balia de’ 24 febbraio 1457; ed è per intero trascritta nel vol. II delle Deliberazioni di esso Collegio, a c. 202.
- ↑ I patti proposti in questa dimanda ed accettati dalla Balìa giovano a far conoscere viemeglio le condizioni della marina mercantile di quel secolo, e ci sembrarono perciò meritevoli di essere testualmente allegati fra i Documenti sotto il n. IX.
- ↑ A scanso di ogni indebita accusa dobbiamo avvertire che queste notizie da noi raccolte su Port’Ercole, furono comunicate all’autore della Illustrazione sulla fortezza di quel porto, inserita nell’Appendice alla Relazione della guerra di Siena di Don Antonio da Montalvo (Torino, 1863). Cosi hanno spiegazione alcune rassomiglianze che potranno notarsi tra la nostra Memoria e quella illustrazione nella breve parte storica che precede le notizie della fortezza di Port’Ercole.
- ↑ Rutilio Numanziano ne fa menzione nel I libro del suo Itinerario:
Cernimus antiquas nullo custode ruinas,
Et desolatae moenia foeda Cosae....
Haud procul hinc petit signatus ab Hercule portus,
Vergentem sequitur mollior aura diem....
Tenditur in medias Mons Argentarius undas;
Ancipitique jugo caerula curva premit. - ↑ Consiglio della Campana, n. 112, c. 102.
- ↑ Il Severini nelle sue risposte non li rammenta per verità, ma dice che questa guerra fu fatta contra tirannos, turbantes pacificum et tranquillum statum dicte Comunitatis. Con queste parole si alludeva di certo agli Orsini.
- ↑ Instrumenta et Iura Comunis, n. 169. In quest’atto di transazione si rammentano come luoghi ceduti al Comune Porto Fenilia, Port’Ercole, il Monte Giglio, l’Isola di Giannutri, il Monte Argentaro, Orbetello, Marsiliana, Alticosto, Capalbio, Mont’Aguto, Scerpenna, Stacchilagio, l’Abbazia della Selva, il territorio rii Colignolo, il Monte di Cerasciolo e il Lago di Buriano.
- ↑ Agnolo di Tura del Grasso, Croniche ad annum.
- ↑ Consiglio della Campana, n. 226, c. 43.
- ↑ La dimanda del Morosini, e i patti mercè cui ebbe l’uso del Monte Argentaro, si possono leggere tra i Documenti sotto il N.° VII. Meritano di non passare inosservati.
- ↑ Facevano parte di questa società, oltre i due predetti, i cittadini: Andrea di ser Ambrogio d’Andrea Bonelli, Biagio Turchi, Biagio di Ruggeretto Ugurgeri, Antonio di Pietro Turchi e Giovanni di Cristofano di Nanni di Berto (Instrumentorio del Comune, detto il Caleffetto, c. 133.
- ↑ Instrumentario del Comune, detto il Caleffetto, a c. 132 t. e segg.
- ↑ Consiglio della Campana, n. 240, c. 261.
- ↑ Questa curiosa lettera si chiude così: «Le saettie del reame andando a Roma cariche, per tempo fortunale si vennero qui a salvare. Un’altra volse andare a Civitavecchia, andò a traverso con perdita de le persone e robbe. Un’altra che per mal marinagio trabochò qui apresso due miglia, la facemo salvare con questi homini, che non si perdè, salvo il vino che se n’era uscito; si che in Italia no’ è altro Port’Ercole, e beato chi può benedire la porta di questo luogo, che tutt’uomo lo vede, lo stima che vale».
- ↑ Consiglio della Campana, n. 241, c. 40.
- ↑ Lettera dei commissari Santi di Bartolommeo di Santi e Giovanni di Antonio di Neri al Concistoro, dei dì 30 ottobre 1477.
- ↑ Collegio di Balìa, Deliberazioni, n. 19, c. 61 t.
- ↑ Concistoro, Copialeltoro ad annum, c. 65 t
- ↑ Antonio de' Giordani da Venafro, chiamato dal Machiavelli il caffo degli uomini, dovette seguitare nel Patrimonio l’esercito regio, finchè al cadere del novembre fu restituito in libertà. Egli venne a molta riputazione sotto il governo di Pandolfo Petrucci, di cui fu segretario.
- ↑ Deliberazioni del Concistoro, n. 732, c. 7 t
- ↑ Tommasi, Ist. Sen., Part 2.a, Lib. VII, ad annum.
- ↑ Collegio di Balìa, Deliberazione del 14 febbraio 1499 (st. sen.), n. 40, c. 185 t.