I porti della Maremma senese durante la Repubblica/Capitolo VI

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I PORTI DELLA MAREMMA SENESE


durante la repubblica




NARRAZIONE STORICA CON DOCUMENTI INEDITI


DI LUCIANO BANCHI




(Ved. tom. XI, par. II, pag. 73)


Capitolo Sesto.


Sommario.


Il dominio visconteo in Siena e il nuovo governo. - I Fiorentini occupano Livorno, e i Senesi provvedono a migliorare Talamone. - È occupato dall’armata di re Ladislao e dai Genovesi. - Sollecitudini dei Senesi per ricuperarlo. - Risposte del papa dei Genovesi e de’ Fiorentini. - Tradimento non riuscito. - Le milizie della Repubblica ricuperano il castello, poi la rocca di Talamone. - Rappresaglia dei Genovesi. - Si provvede ai restauri ed alla miglior guardia di Talamone. Possedimenti della Repubblica in Talamone. - Nuovo trattato coi Catalani. - Alfonso d’Aragona a Talamone (1401-1450).


Gli anni della signoria viscontea passarono senza nissun utile provvedimento per la maremma senese. Gli animi erano inquieti, e la fazione vincitrice non si estimava tanto sicura da poter attendere alle cose di fuori, mentre in città nè le condanne né gli esilii bastavano a sottomettere l’universale dei cittadini al dominio del duca Gian Galeazzo, che si era fatto signore anche di Perugia e di Pisa. Ma, com’era facile a prevedere, il popolo si stancò presto di quella nuova tirannide che per soprappiù aveva il difetto di non essere paesana; e licenziato il luogotenente ducale, surse un nuovo governo, composto di dieci cittadini, appartenenti agli ordini dei Nove, del Popolo e dei Riformatori. Le due repubbliche [p. 93 modifica]di Firenze e di Siena tornarono a collegarsi; le quali non avrebbero mai dovuto dinanzi all’ambizione del duca di Milano venire a nimistà: i cittadini esiliati tornarono in patria; molti furono assoluti dalle condanne pronunciate contro loro durante la signoria del Visconti1. A provvedere alle necessità dello Stato, cresciute in quegli anni di governo assoluto e arbitrario, erasi creata poco innanzi (1403) una balìa con autorità larghissime; la quale è opportuno di ricordare, perchè suole ad essa riferirsi il cominciamento della balìa, come ufficio permanente; divenuto in seguito, mercè la scaltrezza di Pandolfo Petrucci, il magistrato più autorevole della repubblica.

Mentre queste cose accadevano, i Fiorentini intenti sempre ad allargare il loro dominio fino al mare, occupato nel 1404 Livorno, e due anni dopo espugnata la città di Pisa, esercitavano il loro commercio marittimo, tuttora fiorentissimo, senza aver duopo di ricorrere a Talamone. Questi successi dei Fiorentini non potevano rallegrare i Senesi, benchè loro confederati; e prevedendo ciò che di fatto avvenne, il prosperare di Livorno e la decadenza di Talamone, senza indugio volsero ogni lor pensiero al miglioramento del porto. E per prima cosa fu giudicato espediente rifare un ponte, al quale potessero scaricare navigli almeno di venticinque braccia; ed a questo acconcime, rimesso negli Esecutori della Gabella, furono assegnati cento fiorini2. Ed imperciocchè onore e utile grandissimo sarebbe venuto alla città se pili abbondantemente fossero condotte e portate mercatanzie al porto di Talamone, furono deputati pochi [p. 94 modifica]giorni dopo3 alcuni cittadini alla bonificazione di quel porto, concedendo loro la stessa autorità del Consiglio generale: questo eccettuato, che non potessero permettere alcuna tratta di grano nè d’altro frumento.

Se non che nuovi pericoli sovrastavano ancora a Talamone. Ladislao re di Napoli, tentando la prova meglio riuscita a Gian Galeazzo, più volte aveva cercato i Senesi perchè entrassero in lega con lui nell’impresa contro Firenze. Si ricusarono i Senesi, che pacificati si erano co’ Fiorentini per macchinare insieme contro la signoria viscontea, ne reputarono conveniente abbandonare i loro alleati per servire alla politica ambiziosa, e perciò infida, di re Ladislao. Questi disperando di staccare i Senesi dalla lega con Firenze, mosse loro la guerra aiutato dai Genovesi, e cominciò dal minacciare il porto di Talamone (1410). Il governo, stando in sull’avviso, si preparava a difendersi, ed a’ suoi capitani in maremma scriveva di continuo, che stessero vigili e pronti perchè il pericolo era grande e imminente. Ne scrisse anche ai Fiorentini, sollecitandone gli aiuti; e questi spedirono nelle acque di Talamone alcune galee ben fornite di uomini e di armi. Le quali, poco dopo il loro arrivo, furono impetuosamente assalite dall’armata di re Ladislao; e seguitone un fierissimo combattimento, i Fiorentini, di gran lunga inferiori di numero, restarono vinti, e Talamone cadde in potestà dei regii e dei Genovesi. In città corsero voci di tradimento, e si disse che il castellano del porto consegnasse ai nemici quella rocca, allorchè erano per sopraggiungere in difesa di Talamone altre milizie della repubblica4. Ebbero i Fiorentini [p. 95 modifica]questa, spiacevole novella da una lettera dei Senesi, che insieme chiedevano nuovo soccorso di gente, non più per difendere, ma per riacquistare Talamone. «Abbiamo saputo, così scrivevano loro i Senesi, che l’armata di re Ladislao ha occupato Talamone, e che soltanto il cassero è rimasto in podestà nostra. A riparare all’ingiuria inviamo colà i nostri fanti con alcuni cavalieri del serenissimo re Luigi. A voi peraltro ci raccomandiamo tino dal cuore perchè vi piaccia di soccorrerci con quel maggior numero di uomini a pie ed a cavallo che vi sarà possibile. Imperciocchè questa impresa tanto importa alla comune patria, che, a nostro giudizio, non per noi tanto, quanto per voi si dee con ogni sforzo ovviare a questo pericolo»5.

Con la medesima sollecitudine, con lo stesso rammarico la repubblica ne diede avviso ad altri suoi amici, ai condottieri delle sue genti, e a Guasparre Cossa, fratello del papa, che era a’ servigi del re di Francia, e finalmente allo stesso pontefice, molto privato dei Fiorentini. Al pontefice ricordava la fedeltà serbata sempre dai Senesi alla Chiesa, ed i pericoli a cui piìi volte andarono incontro per questa loro devozione, che nondimeno intendevano di conservare perenne e inalterata. Volesse egli adunque inviare quante più genti poteva in soccorso della repubblica, «essendochè, ottenendosi vittoria sopra il comune inimico, ne verrebbe potenza alla Chiesa, onore al pontefice, consolazione grande ai Senesi»6. Ma il papa, quantunque la crescente fortuna di Ladislao lo inquietasse, era occupato in tutt’altro che nelle novità di questa parte d’Italia: le cose del Patrimonio e dello [p. 96 modifica]Staio non procedevano prospere, e la perdita di Bologna, al cui riacquisto intendeva con ogni possa, ed i mali dello scisma recente, lo facevano debole in casa e fuori, e pensoso più di se che d’altrui. Rispose egli pertanto ai Senesi con parole colme di affetto, ma nella sostanza effimere: conoscere la costante loro devozione alla Chiesa, e perciò stargli a cuore di soccorrerli nello disavventure. Essere accuorato della perdita di Talamone sofferta dai Senesi, come di cosa sua propria; ma riuscirgli impossibile di promettere aiuto di soldatesche. La guerra di Romagna affaticare tutto il suo esercito, nè di là poterlo remuovere all’improvviso senza danno e pericolo evidente della Chiesa. Confidassero in Dio, che presto Lodovico d’Angiò verrebbe a vendicare le ingiurie e le violenze di re Ladislao7.

Non piacque la risposta del papa ai Senesi, che non chiedevano parole, ma armi, senza le quali Talamone sarebbe stato perduto forse per sempre. Quindi è che di nuovo ne scrissero ai Fiorentini, poi agli stessi Genovesi, che molto avendo partecipato nella usurpazione del porto, ne erano rimasti ora quasi padroni. I Fiorentini promisero di venire in soccorso alla repubblica con duecento fanti, ma non ne mandarono più che cenventicinque; che aveano quasi vuoto l’erario, e necessità di guardarsi molto alle spalle per l’ambizione di Ladislao8. Ma i Genovesi diedero risposte che palesavano intenzioni tutt’altro che favorevoli ai Senesi ed alla restituzione del porto, e ne allegavano a pretesto la lega esistente tra Siena e Firenze. Conosciuto il tenore di questa risposta, i Fiorentini scrissero ai Senesi quella essere risposta degna de’ Genovesi, soliti a farla da pirati, e i Fiorentini averlo imparato a spese proprie. Il pretesto addotto della occupazione di Talamone e della nimistà loro coi Senesi [p. 97 modifica]essero un tranello accortissimo per tentar di rompere la lega e l’amicizia tra le due repubbliche. Ricordassero che non altrimenti avea proceduto in sulle prime re Ladislao, che i Senesi voleva inimicare ai Fiorentini, non per altro, come i fatti mostrarono, se non per indebolire le due repubbliche e diventarne signore9. Questa la sapiente risposta dei Fiorentini ai Senesi, la cui alleanza fu salute reciproca, e muraglia incrollabile dinanzi all’esercito regio. Così questa unione fosse lungamente rimasta tra le due città! Le quali congiunte vinsero Ladislao e i Genovesi, e salvarono la libertà loro: divise e tra sè inimiche furono vinte da Carlo V e dal papa, pagandone il fio con tre secoli e più di servaggio ducale.

Ai Senesi pertanto non mancò animo ne costanza in questa occasione, benchè scarsi fossero gli aiuti de’ Fiorentini, e il papa avesse detto chiaro di non poter venire in loro soccorso. Crebbero, quanto poterono, il numero dei fanti nella maremma: tenevano desti con ammonizioni continue i capitani, e cercavano di ricuperare anche per via di tradimento il Porto ad essi usurpato. Questo negozio aveano commesso ad un tal Francesco di Giovanni, suddito fiorentino ma oriundo di Arezzo, il quale riuscì ad avere qualche intelligenza con alcuni di coloro che stavano alla guardia del Porto. Potè con denari ottenere salvacondotto per viversene sicuro in Talamone; ma quando fu vicino a cogliere il frutto della sua audacia, vi fu tra’ congiurati chi, rotta la fede, manifestò la trama, e Francesco salvò a stento la vita, pagando duecento fiorini10. Ciò avveniva nell’ottobre del 1410. Riuscito a male il tentativo, i Signori del governo mandarono nuovo sforzo di gente in maremma; e [p. 98 modifica]presso il re Luigi, la cui annata assai poderosa aveva da qualche tempo gittato le ancore dinanzi a Talamone, tacevano vive sollecitudini perchè a’ suoi ammiragli comandasse di aggredire il porto, mentre al tempo istesso l’esercito senese darebbe l’assalto al castello. Così passarono due mesi in apparecchiamenti di guerra, che riuscirono poi quasi a nulla; perciocchè i capitani della repubblica, presa intelligenza con alcuni terrazzani, la notte precedente il dì 6 dicembre penetrarono co’ loro fanti in Talamone; ed assalite all’improvviso le guardie, uccisero molti soldati di re Ladislao e dei Genovesi, e si resero padroni della terra, nulla tentando peraltro contro la rôcca11. Se non che, pochi giorni dopo, cioè il 17 di dicembre, per viltà dei castellani Biagio da Tozzolo e Giovanni d’Antonio da Chiavari, i Senesi ebbero anche la rôcca; il qual successo grandemente rallegrò i cittadini, a cui l’occupazione di quel Porto sembrava che avesse in qualche nodo recato offesa alla libertà della loro patria12.

[p. 99 modifica]Al commercio di Talamone questi avvenimenti furonoesiziali, nè mai forse quel Porto era caduto in tanta miseria. E quasi che i mali di una occupazione violenta e di un assalto sanguinoso fossero pochi, altre cagioni di danno si aggiunsero per fatto dei Genovesi, che in quella usurpazione non avevano avuto la minor parte. Sdegnati della perdita di Talamone e della pertinacia dei Senesi [p. 100 modifica]nel mantenersi alleati con Firenze, come a vendicarsene, fecero bando, che nissun mercatante genovese potesse condurre o mandare merci al porto di Talamone. Di questo divieto si dolsero amaramente i Senesi, e ne fecero lagnanze amorevoli. Scrissero ai loro potenti avversari, la città di Siena essersi oltremodo maravigliata di questa loro deliberazione: non aver potato mai aspettare da essi, che consideravano come fratelli, un così odioso divieto. In verun tempo non esser venuta meno agli obblighi della reciproca fratellanza: sempre aver onorato e favorito quella eccelsa repubblica, ne avvenimento alcuno prospero o infausto al loro dominio o a privati cittadini essere passato senza che tutti i Senesi non vi prendessero parte affettuosa. Perciò gli scongiuravano a togliere il mal posto divieto, siccome giustizia voleva, acciocché la città che nei Genovesi riconosceva amici e fratelli, non ripetesse da loro tanto detrimento e disdoro13. Alla dimanda, studiatamente modesta e benigna, accondiscesero i Genovesi, che non più trovasi fatta menzione di simile controversia.

Provveduto a ciò, restavano ancora a ripararsi i danni che le muraglie del porto avevano sofferti negli ultimi avvenimenti. In un Consiglio stretto, o di richiesta, era stato deliberato di commetterne la cura ad una balìa, la quale nell’adunanza del Consiglio del Popolo, tenuta il dì 22 dicembre 1411, lesse questa relazione; «In prima, considerato e’ bisogni e necessità concorrenti dell’acconcime della terra di Talamone, et maxime per li molti sospetti avuti in quella terra, provvidero et ordinare, che per li nostri magnifici e potenti Signori Priori e Capitano di Popolo si debba mandare per quelli cittadini, e’ quali anno la guardia della terra e cassero di Talamone; e che per loro lo’ sia fatto comandamento, del quale si facci scrittura, che fra ’I termine di xv (dì) [p. 101 modifica]proximi a venire sieno tenuti e debbano con effetto avere facto aconciare et armare tutte le mura di Talamone, quanto è di bisogno, di ventose, bertesche, scale, correnti e ponti bisognevoli, di palchi e tetti opportuni alle torricelle, et anco ogni altro rafforzamento necessario alla difesa della detta terra; sotto pena di cento fiorini d’oro in caso che per loro non si mandassero le predette cose ad execuzione. Et acciocchè per loro non si possa allegare alcuna scusa,. ch’e’ nostri magnifici Signori lo’ debbino fare consegnare della pecunia del Comune di Siena per infino a la quantità di fiorini cento d’oro per lo detto acconcime da farsi, come detto è»14. Queste proposte, vinte dapprima nel Consiglio del Popolo, furono altresì approvate in quello della Campana il dì 23 gennaio seguente; e la guardia di Talamone fu concessa a dieci cittadini che aveano anche l’obbligo di fare i lavori raccomandati dalla predetta balìa. Ma tra essi nacquero dissensioni, e di dieci rimasero cinque: quindi nuovi provvedimenti, imperciocchè il porto «era male guardato e stava a grandissimo pericolo, e maximameute per la grande quantità delle mercanzie che vi erano dentro, le quagli stavano a rischio e pericolo del Comune di Siena, però che erano assicurate per lo detto Comune a’ Catelani»15.

Nel maggio del 1416 nuovi ordinamenti si fecero per la guardia e conservazione dì Talamone e d’Orbetello, di recente occupato dalla repubblica. Una balìa di tre cittadini fu preposta al governo di quelle terre; ed ebbe la facoltà di spendere, solamente per Talamone, fino a duemila seicento e quaranta fiorini ogni anno di tremila che generalmente vi si spendevano. Quasi la terza parte di quella somma era dovuta, come assegno, ai terrazzani di Talamone, ridotti al numero di quarantaquattro; ciascuno dei quali percipeva cinque lire e dieci soldi ogni [p. 102 modifica]mese, secondo i patti convenuti tra ossi e la repubblica16. Col rimanente doveva la balìa provvedere agli stipendi di due castellani e di sei fanti, del podestà con nove fanti, di un camarlingo e di un conestabile con dodici fanti forestieri. Ciò che avanzasse, e si previde un residuo di novecentottantre fiorini, fu ordinato che si spendesse nella costruzione di case, acciocchè aumentasse il numero della popolazione con benefizio di quella terra e del Comune.

Fu altresì ricordato a’ detti tre cittadini di non mancare al pagamento della provvisione dovuta, come fu detto, ai terrazzani; ma di porre ogni studio e sollecitudine perchè ai nuovi che venissero non fosse concesso tal benefizio, potendo; o, ad ogni modo, non pattuissero provvisione maggiore di lire quattro il mese17. Ma tutti questi provvedimenti non ebbero molto lunga durata, che la spesa, benchè diminuita, per la guardia e pel governo di Talamone parve di nuovo soverchia; e nel febbraio del 1420 fu deliberato non potersi spendere dai tre commissari in Talamone oltre mille fiorini; ed agli abitanti ridursi la provvisione a tre lire il mese, incominciando questa diminuzione a’ 22 di settembre di questo medesimo anno (1420). E così pel volgere di circa trent’anni le scarse notizie che ci rimangono di Talamone, si riferiscono più particolarmente alla guardia del Porto, ai restauri delle mura ed alla costruzione di nuove case a quando a quando ordinata dalla repubblica per accrescere dentro il castello il numero degli abitanti. Bensì tra questi provvedimenti di minor conto, ne occorrono due che meritano particolare menzione.

[p. 103 modifica]Per effetto di una deliberazione del Consiglio generale della Campana gli officiali delle gabelle del vino e dei terratici compilarono nel 1430 l’inventario di tutte le possessioni che la repubblica aveva nella città, nel dominio. Troviamo perciò in questo libro accuratamente descritti i beni immobili del Comune nel castello e nella corte di Talamone, ed i poderi spettanti alla chiesa di quel castello. Erano in Talamone venticinque case di proprietà della repubblica, una delle quali in su la piazza l’abitava il podestà della terra. Vi possedeva un magazzino grande, verso la marina, per tenere mercanzie, una cisterna, un botteghino ed un forno. Spettavano pure al Comune molti poderi nella corte di Talamone, parte dei quali erano lavorati, parte boschivi; e si desiderava «che chi ne lavora, gli lavorasse per lo modo sono scritti (cioè, confinati), et none sciegliesse el tereno buono, e ’l gattivo lassasse». Fu altresì da questi officiali trovato «che nel castello di Talamone erano molte piazze et voto da farvi de le case, et facendovisene in poco tempo sarebe quella terra bene abitata di famiglie vi tornarebbono». Trovarono «più orti fatti per quelli terrieri presso al pozo et a le muricia et in lo padule»; e «nel piano di Talamone vechio essarsi fatte vignie in buona quantità condecenti et buone». Ne passarono dimenticate «nel piano di Talamone vechio due grandi tombe, le quali per antico pare fussero conserve d’aqua», e noi le ricordammo nel primo capitolo di questa narrazione18.

Ma più di tutto questo è notevole, che nel 1436 i Catalani dimoranti in Pisa rinnovarono coi Senesi la convenzione per trasferire un’altra volta il loro commercio da quella città al porto di Talamone. Le cagioni se ne ignorano, ne possono indovinarsi nemmeno dalla lettura del testo della nuova convenzione. I Catalani mandarono a Siena come ambasciatori per condurre a buon esito [p. 104 modifica]questa pratica i loro connazionali Ber lingerio di Giberto e Giovanni Martorelli, i quali portavano una credenziale con la data del 1.° dicembre 1436. A’ dì 14 dello stesso mese il Consiglio della Campana approvò con 166 voti favorevoli, non ostanti 7 contrari, il tenore dei patti convenuti, tra i Catalani ed una bada di cittadini a ciò deputati.

Generalmente può dirsi essere questo trattato conforme all’altro conchiuso nel 1369. Vollero i Catalani ogni libertà ed immunità nei loro commerci; sicurtà di non essere licenziati da Siena e da Talamone, senza che vi deliberasse il Consiglio generale, e col patto che la licenza dovesse essere fatta in iscritto e consegnata nella loro loggia, se loggia tenessero in Siena. Ottennero di non pagare altre gabelle che quelle di immissione, di estradizione, ancora che nuovi dazi e gabelle fossero imposte dai Consigli in qualunque tempo; di far definire da giudici propri le vertenze che insorgessero tra Catalani; e di potere, anche di notte, portare arme onestamente per le vie della città. Terrebbero, loro piacendo, in Siena una loggia; dove potrebbero raccogliersi in consiglio per deliberare, dove si amministrerebbe la giustizia, e dove converrebbero a conversare e giuocare. Qualunque catalano fosse preso per malefizio, non potrebbe sottoporsi a tortura, se non dopo quattro giorni, ne esaminarsi se non alla presenza del console e di due mercanti catalani. Il Comune si obbligò a restaurare il ponte del porto, a tenere in buon assetto le strade, ed a provvedere un fondaco in Grosseto, se i fondachi e i magazzini di Talamone non bastassero alle mercanzie. Finalmente furono eziandio preveduti i casi di rubamento delle merci già condotte in Talamone, o di danni o catture che si facessero dai nemici del Comune a’ navigli d’essi Catalani; i quali, riservate certe condizioni, ottennero di essere reintregrati dal Comune, e di essere aiutati a salvare navigli caduti in mano di nemici19.


[p. 105 modifica]Per questa convenzione tornò alquanto a fiorire il commercio in Talamone, dove nel gennaio del seguente anno approdava Alfonso d’Aragona, pretendente al reame, e vi si provvedeva di biscotto e di altre vittuaglie, del cui prezzo dovea la repubblica rifarsi sugli introiti che i Catalani facevano in quel porto20. I quali sembra che non si affrettassero molto a soddisfare alla repubblica questo debito del loro serenissimo re; perchè questi nel marzo scriveva di nuovo ai Senesi, ch’egli per lettera ordinerebbe ai Catalani suoi sudditi di pagare gli ottocento ducati dovuti da lui alla repubblica21. E forse i poveri sudditi pagarono, augurandosi di non avere mai più per l’avvenire una simile visita.

(Continua).          





Note

  1. In questa occasione i Comuni di Firenze e di Siena cancellarono alcune sentenze date per malefizio contro diversi abitanti dei due Stati; e di tal provvisione si ha copia in una pergamena de’ 27 aprile 1404, venuta all’Archivio senese dal Conservatorio del Refugio di Siena.
  2. Delib. del Consiglio della Campana de’ 46 ottobre 1405, in Stat. Sen., n. 47, c. 38 t.
  3. Il 26 dello stesso mese (ivi, c. 30 t.). Forse è da attribuirsi s questa balìa la provvisione de’ 7 febbraio 1406, che ordinò la costruzione di un nuovo ponte nel porto, e la spesa a quest’oggetto di mille fiorini (ivi, c. 38 l.)
  4. Autore del tradimento si volle un Arcolano cimatore; ma il silenzio dei documenti ci conforta a credere che questa voce, raccolta poi dai cronisti, fosse una di quelle tante dicerie che facilmente si diffondono tra il popolo il giorno dopo una sconfitta.
  5. Copialettere del Concistoro del secondo semestre del 1410, a c. 16. «Importat enim tantum toti patrie ista res, quod, nostro iudicio, non minus pro vobis, quam pro nobis sit ipsi periculo totis conatibus obviare».
  6. «Speramus victoriam nobis de dicto hoste contingere: in qua re sancte matris Ecclesie statum, Bealitudinis vestre honorem, et toti nstro populo gaudium cernimus procul dubio exoriri» (ivi, c. 20 t.)
  7. Diplomatico, perg. de’ 18 agosto 1410.
  8. Lettera della repubblica di Firenze dei di 8 settembre 1410.
  9. Vedi, tra i Documenti il n. VI.
  10. Questo fatto trovasi narrato in una lettera scritta dai Fiorentini alla repubblica il 21 ottobre 1410.
  11. Emanuele Repetti dicendo che Talamone fu ricuperato allora da Francesco Sforza capitano dei Fiorentini (Dizionario della Toscana, ari. Talamone, vol. V, pag. 449), toglie ogni merito di questa vittoria alle milizie senesi, e cade in un anacronismo. Francesco Sforza in quest’anno era appena decenne. Forse voleva scrivere Sforza Attendolo che militava pe’ Fiorentini in maremma, le cui genti è probabile che soccorressero in questa impresa le milizie della repubblica. Comunque, nelle lettere scritte dai Senesi dopo quell’avvenimento alla repubblica di Firenze, al pontefice e ad altri, è sempre asserito che Talamone fu ricuperato dai fanti della repubblica. Ai Fiorentini specialmente non si sarebbe potuto lacere la parte presa dai fanti e capitani loro in quella espugnazione.
  12. Copialettere del Concistoro, a c. 72 t. e 78. Questi avvenimenti furono narrati dalli storici senesi assai imperfettamente. Giugurta Tommasi ne scrisse forse meglio di ogni altro; ma pure la sua narrazione non è senza mende, troppo essendosi egli affidato ai cronisti. Merita nondimeno di essere qui allegata, anche perchè inedita, com’è tutta la seconda parte delle sue Istorie senesi

    «Mentre i Sanesi guerreggiavano col conte Bertoldo, le galere dei Genovesi occuparono il porto e la fortezza di Talamone, mal difesa o (come credettero allora i più degli huomini) tradita da Antonello Gonzaga, che la guardava per la republica. La cosa passò in questa maniera. Il re Luigi, secondo gli ordini dati, tornava in Italia per far l’impresa del regno di Napoli, con una fortissima armata di sette navi e molte galere, sopra le quali a favor suo era gran parte della nobiltà di Francia; e costeggiando i liti di Toscana per prender porto, l’armata dei Genovesi l’aspettò fra l’isola di Capraia e la Gorgona; e havendolo con molto vantaggio assalito, lo roppe e la maggior parte di que legni mise in fondo. Il re scampato con quattordici galere venne per rinfrescarsi a Talamone, e per difetto di vettovaglie non fu ricevuto. Le galere dei Genovesi arrivate a Talamone, e trovato partito il re non lo seguirono, ma si posero a combattere quella terra; e rotto il muro in tre luoghi, alla Fontaccia, a S. Lucia, e al Magazzino, e arsa la porta sanese entrarono dentro, e assediarono la rôcca. Arcolano Cimatore che v’era castellano, richiesto di consegnare quella fortezza, s’obbligò a lassarla a’ Genovesi, se in termine di sette giorni da Siena non fusse venuto il soccorso, e subito di suo stato diede conto al capitano di popolo, per ordine del quale Spinello Piccolomini capitano della maremma si mosse al soccorso del castellano con 400 cavalli di quelli del re Luigi, e con 200 cavalli di Sforza, seguitati da molta fantaria comandata da Favolo Laudi, e da messer Cione Montanini antico soldato. Arrivati costoro a Talamone per mezzo di uno Lappolino, che per li scogli verso il mare entrò nella rôcca, avvisarono il castellano, che valorosamente attendesse a difendersi, perciochè il soccorso veniva gagliardo. Ma egli diffidandosi o come fu creduto, ribellandosi, gittata a terra la bandiera de’ Sanesi, alzò nella cima del mastio lo stendardo del re Ladislao; onde i Sanesi stanchi dal combattere, morti e feriti molti di loro, conosciuta la perfidia, per allora abbandonarono l’impresa, e ritiraronsi a Grosseto. I Genovesi posti 300 fanti a guardia di Talamone, coll’armata andarono verso Piombino. La perdita di quel porto turbò gravemente l’animo della Signoria, perciocché i Sanesi havevano assicuralo ivi le mercanzie de’ Catelani, e per mantenimento della fede publica convenne rifar que danni che costarono alla publica Camera quindici mila fiorini. Scrissero a’ Genovesi ridolendosi, e domandando che Talamone li fusse restituito; ma havendo essi risposto, che lo renderebbono, sempre che i Sanesi partendosi da la compagnia de’ Fiorentini, si collegassero con loro, e con il re Ladislao.

    «I Sanesi, usati a non comprar amicizie e a non romper la fede, dopo quattro mesi mandarono messer Tommaso della Gazzaia col capitano di maremma con i descritti di Campagnatico e d’altre terre di loro dominio, li quali intendendosi con alcuni terrazzani, furono di notte introdotti in Talamone. Così prese e uccise le guardie, e spezzata la Porta Sanese, entrò tutta la gente e assediò la rôcca. Ma i castellani in pochi giorni presi 4500 fiorini, se n’uscirono salvi, ed i Sanesi con certi patti, per più anni a’ mercanti caldani affiliarono quel porto». (Libro III, col. 522, in R. Arch. di St. in Siena).
  13. Lettera del Concistoro ai Genovesi del dì 12 marzo 1411 (st. sen.).
  14. Consiglio della Campana, Delib., n. 210, c. 73.
  15. Ivi, c. 77 t.
  16. «In prima, in quarantaquattro terrieri che ai presente vi sono habitanti, sicondo e’ pacti loro, libre v, soldi 40 per ciascuno mese, montano per tucto l’anno fiorini dccxi.iiiij» (Tesoretto, a c. 98).
  17. Questi ordinamenti furono trascritti nel cod. di provvisioni statutarie, detto il Tesoretto, a c. 98.
  18. Inventario di tutti i beni immobili posseduti dal Comune nell’anno 1430, c. 113-128.
  19. Consiglio della Campana, n. 224, c. 75-78 t. Notisi che di questo trattato abbiamo ricordati soltanto i patti principali.
  20. Lettera de’ 28 gennaio 1437, da Talamone. In questa lettera Alfonso esorta i Senesi a serbarsi amici al duca di Milano, e annunzia loro i grandi apprestamenti di guerra che il duca faceva contro i Genovesi ribelli, tanto che Genova tornerebbe presto all’obbedienza del duca.
  21. Questa lettera, data da Gaeta, è de’ 10 marzo 1437.