I porti della Maremma senese durante la Repubblica/Capitolo VIII
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Capitolo Ottavo
Sommario
Porto Santo Stefano, che gli ambasciatori di Carlo VIII chiedevano, come fu detto, ai Senesi insieme con Talamone e Port’Ercole, siede sulla spiaggia del mare, lungo il seno settentrionale del Monte Argentaro, a breve distanza dagli altri due Porti. Se veramente corrisponda all’antico porto Domiziano e quindi Traiano lasceremo chiarire agli archeologi: ma è fuor di dubbio che anche nelle vicinanze di questo Porto esistessero sontuosi edifizi romani, di cui restano non pochi avanzi, che ricordano la ricchezza e potenza della famiglia dei Comizi Enobardi altre volte rammentata. Dopo ciò possiam dire che nissun’altra memoria ci sopravanzi di Porto Santo Stefano, del quale tacciono quasi costantemente i documenti senesi. È ricordato appena nel 1334 nella Relazione dello Stato senese di messer Simone Tondi, che per capacità lo giudicò superiore a tutti i porti d’Italia, e molto sicuro per le navi; nel 1442, allorchè la repubblica ordinava agli uomini d’Orbetello di costruire una fortezza sul Monte Argentare per maggiore sicurtà di quei luoghi; e più specialmente poi nel 1494, allorchè la politica francese, scornata a Firenze, studiavasi di riparare all’onta sofferta coll’imporre a Siena condizioni di pace durissime, per buona sorte mutate in meglio poco dipoi. In seguito non trovasi più mai fatta menzione di questo Porto che, abbandonato da tempi remoti, rimase poi lungamente in cattivo essere, senza abitanti e senza fabbricato. Durante tutta l’età medio-evale Porto Santo Stefano non ha storia, e le poche e scarse notizie che se ne potrebbero raccogliere si confondono con la storia del Monte Argentare. Oggi, al contrario, è fiorente paese, ricco, amenissimo; e questa sua prosperità ed il miglior avvenire a cui forse è riserbato, accrescono lo squallore e la malinconia che circondano il porto ed il castello di Talamone, e fanno apparire anche maggiore lo stato di decadenza dell’antico Port’Ercole.
Ma nemmeno di questi due Porti ci rimane a dir molto oramai. Gli anni che precedettero la gloriosa caduta della repubblica di Siena, furono pieni di guerre e di turbolenze civili e di mutazioni nel governo della città. I Senesi, occupati dapprima nelle loro discordie, siccome porta la natura loro instabile e vogliosa di novità; poi nella guerra co’ Fiorentini e con papa Clemente, e per ultimo nella difesa della libertà della patria contro il duca Cosimo e le armi spagnuole, ai Porti della maremma non più volsero il pensiero e le cure, so non per fortificarli contro le armate nemiche. Pandolfo Petrucci che nel primo decennio di questo secolo governò a sua posta la città di Siena, e che i Senesi, non volendo essere dammeno dei Fiorentini neppure nella servilità, adulavano col nome di Magnifico, aveva acquistato dalla repubblica, per prezzo di trentaquattromila fiorini d’oro, l’utile dominio del Monte Argentare e di alcune castella circonvicine1, e mirava a farvisi un principato, se non gli riuscisse di recare alle sue mani e far sicura ai figliuoli la signoria della repubblica. Uomo astuto in politica, violento contro i suoi avversari o contro chiunque riputasse ardito di opporsi alle sue voglie ed alla sua ambizione; voleva tenersi amici gli imperiali, non inimicarsi i Fiorentini, e restar nelle grazie del papa. Ciò insomma che può fare un accorto principe che abbia dominio assoluto, ma che è quasi impossibile che riesca, a chi signoreggi un popolo libero, facile ad entrare in sospetto, geloso de’ suoi vicini e pronto sempre a cogliere qualunque occasione per molestarli. Pure seppe Pandolfo mantenersi in questo equilibrio, e quasi nel medesimo tempo ordinava che apprestamenti di biscotto e di altro si facessero nei porti della repubblica per compiacere al re Cattolico, la cui armata aspettavasi in quelle acque; componeva le vertenze coi Fiorentini insorte per cagione di Montepulciano, che veniva ad essi finalmente rilasciato, ed otteneva dal papa il cappello cardinalizio per Alfonso suo figlio, giovane imberbe, che con lo splendore e la corte di un principe recavasi a Roma.
Morto il Petrucci nel 1512, e caduta per la inettitudine dei successori la supremazia di quella famiglia nelle cose della repubblica, Alessandro Bichi, coadiuvato dalla fazione aristocratica dei Noveschi e col favore di papa Clemente, prese le redini del governo. Vedevano di mal occhio i Libertini2 che un’altra famiglia si adoperasse a mantenere in servitù la la patria ed a farsene un principato; e riscaldandosi nel desiderio di liberarsi dalla nuova tirannide congiurarono contro i Noveschi e la vita del Bichi. Il 6 d’aprile del 1525 era per le vie della città un grande tumulto: giovani armati correvano per le piazze e per le contrade minacciando i tiranni, e gridando: libertà, libertà. Alessandro Bichi si trovava nelle case del vescovo, presso il Cardinal di Siena, insieme con l’oratore del vicerè di Napoli, e con molti suoi aderenti. I Libertini invadono l’episcopio, e di piìi colpi trafitto lasciano morto il Bichi. Ne segue nella città confusione grandissima, e combattimenti fra i cittadini delle due fazioni; ma i Noveschi hanno la peggio; e nelle prime ore di sera, cessato il tumulto, la Signoria s’aduna in palazzo, e convoca pel giorno dopo il Consiglio del Popolo3. Il governo fu ridotto all’antica forma popolare; la Balìa che già componevasi di sedici cittadini, annullata, ed in suo luogo eletto un magistrato di ventuno, con ampie autorità per preservare la libertà ricuperata, e mantenere la città nella devozione dell’imperatore4.
La vittoria dei Libertini non pose fine alle dissensioni della città, incapace ad ordinarsi stabilmente anche in quegli anni funesti alla libertà dei nostri Comuni. I Noveschi, che fuggiti erano dalla città, ragunato un esercito di gente raccogliticcia mandata da Clemente VII e dai Fiorentini, il 10 di luglio del 1526 comparvero minacciosi sotto le mura della città con intenzione di sorprenderla e ristaurare il caduto governo. Se non che quindici giorni appresso le milizie cittadine assalirono quell’esercito e lo misero in fuga, togliendogli buon numero di prigionieri e non poca artiglieria. Nel medesimo tempo vennero nelle acque di Talamone alcune galee comandate da Andrea Doria, che stava allora ai servigi del papa. Benchè due anni prima il Consiglio della Campana avesse deliberato degli acconcimi alle mura di quel castello, «che per antiguità e vetustà erano mancate e minate», ciò nondimeno non fu malagevole impresa al celebre genovese di rendersi padrone di quel porto, che così cadde in podestà del pontefice. Alla caduta di Talamone si aggiunse in breve quella d’Orbetello e di Port’Ercole, e quelle terre non potevano venire in mano di avversario peggiore. La Signoria fece comandamento a tutte le sue genti di maremma, si raccogliessero verso que’ luoghi, studiandosi con ogni industria e adoperandosi con ogni vigore di ricuperarli; ma fu tutto inutile allora5. La perdita dei Porti e di altre terre della maremma, il timore di nuove sciagure, cui mal potevasi riparare per gli animi discordi dei cittadini, il difetto della pecunia pubblica crescente ogni giorno, ci sono narrali con parole dogliose ed inconsolabili nelle varie lettere scritte in que’ giorni dalla repubblica a’ suoi oratori ed a’ suoi amici. «Noi di qua ci troviamo in continui travagli, scriveva la Balìa al duca di Bourbon il 30 agosto 1527, per esserci le cose nostre depredate da le potenzio inimiche: pure attendiamo a la defensione di esse con ogni diligenzia a noi possibile»6. E nel medesimo giorno scrivendone a Giovan Batista Peloro, aggiungeva: «Le cose nostre di qua se retrovano ne le solite angustie et gravi molestie che di continuo ne fanno li iniqui adversari nostri, quali mai hanno cessato de infestar ora una terra, ora un’altra, maxime in la maremma, dove tengono ancora le terre nostre, cioè Talamone, Portercole, et Orbetello»7. Ma l’usurpazione di Talamone e d’Orbetello poco durò; chè i fanti della repubblica, scalate furtivamente le mura, aggredirono la guardia del papa in Orbetello e la fecero prigione; ed il presidio che il Doria aveva lasciato in Talamone, fu combattuto e vinto dai terrazzani, che spontanei tornarono alla obbedienza della repubblica. Rimaneva a riacquistarsi Port’Ercole; ma il papa, più forse che il Doria, sdegnato degli ultimi avvenimenti, faceva guardare quel porto con assai diligenza. I Senesi, che non . avevano un’armata da opporre a quella del Doria, si persuasero presto che Port’Ercole non avrebbe potuto per forza d’armi ricuperarsi, e cominciarono a trattar la cosa per mezzo degli oratori e degli agenti che tenevano in Roma ed in Napoli. Che la occupazione di Port’Ercole per parte delle milizie pontificie fosse in tutto contraria al diritto delle genti, era facile a dimostrarsi; ma la curia dava risposte evasive, e papa Clemente non faceva mistero di curarsi poco di qualsiasi diritto, allorchè potesse vantaggiare sè o la sua famiglia. Ma quando cominciò ad essere tutto intento alla ruina di Firenze, rimesse alquanto del suo livore, contro ai Senesi, e meno fiere o risolute furono le risposte date agli oratori della repubblica. Bensì per togliersi da questa briga, simulò di aver ceduto Port’Ercole al Doria, e di non poter egli assecondare in tutto il desiderio dei Senesi. La Signoria non indugiò a scriverne al Doria, facendogli caldissime istanze perchè volesse restituire Port’Ercole alla repubblica; ed egli, da quell’accorto uomo che era, rispose da Genova: - quella restituzione essere egualmente nel suo desiderio, ma bisognare ancora altre negoziazioni; ne essere in facoltà sua il rendere quel Porto senza una lettera o un breve del papa. A quest’effetto avere spedito un messo in corte di Roma, persuaso che la mente del papa sarebbe di accontentare i Senesi. La repubblica vivesse sicura della buona volontà sua, desiderando egli di far servigio alla città di Siena come a quella propria di Genova8. Era agente dei Senesi in corte di Roma un tal Iano Calvo, stando l’ambasciatore loro Bernardino Tantucci presso il vicerè in Napoli. Il Calvo si era procacciato il breve anche prima che il Doria lo chiedesse come necessario per la restituzione di Port’Ercole, e ne diede avviso ai Signori il 2 di gennaio 15299. Ma il Doria ed i suoi agenti allegarono nuove difficoltà, e non più contentandosi del breve del papa, volevano generale quietanza per tutto ciò che avevano preso in Port’Ercole ai Senesi ed agli eredi di Agostino Chigi. La curia intanto ora con un pretesto or con un altro indugiava a rilasciare il breve; nel che si vede come andassero di conserva il papa e il Doria, e come loro unico proponimento fosse di mandar in lungo la cosa e di guadagnar tempo per ricusarsi a fare quello che mostravano di essere pronti a concedere10.
L’indugio, peraltro, spiaceva ai Senesi, manifestamente dileggiati dal papa e dal Doria; e non riuscendo a buon esito le pratiche, tentarono altre vie. Imperciocchè nel febbraio di quest’anno (1530) Cincio Corso, capitano delle genti della repubblica, diede improvviso l’assalto a Port’Ercole, e riuscì ad espugnarlo; mentre gli abitanti si erano levati in arme contro il governatore di quella terra, e lo aveano fatto prigione, restituendosi alla obbedienza di Siena11. E questo fu modo più efficace di tutte le negoziazioni diplomatiche, le quali peraltro erano giunte a tale che l’imperatore stesso mostrò al Doria il desiderio che rendesse Port’Ercole ai Senesi; ma il Doria e i suoi agenti, sobillati da Fabio Petrucci che rifuggito erasi a Roma, ponevano ogni studio per differire, senza ricusarla, siffatta restituzione12.
Era nel tempo che questi fatti intervennero seguìta in Siena quella popolare sommossa, dove la parte aristocratica ebbe la peggio, e molti dell’Ordine dei Nove, accusati di favorire i fuorusciti, trovarono la morte (1527, 24 luglio). Ricomposto il governo e creata una balìa di dodici cittadini, più che le diffidenze e le discordie intestine, tenevano inquieta la città le mire e la politica dell’imperatore Carlo V, e l’ambizione di papa Clemente. Già era palese che la libertà di Firenze doveva essere la prima vittima di quella politica e di quell’ambizione; e si avvicinavano forse più presto d’ogni previsione gli ultimi giorni di quella gloriosa repubblica. I Senesi, legati allora alla politica imperiale come un debole segue il carro trionfale del vincitore, avrebbero preferito di non partecipare a quella guerra, che era il segnale della imminente ruina delle città libere di Toscana. Ma gli imperiali che volevano ad ogni costo che Siena si dichiarasse in favor loro, la ricercarono d’aiuto, chiedendole uomini ed artiglierie. Al governo della repubblica era gente deditissima alla libertà della patria, ma incapace a prendere un’ardita risoluzione ed a prevedere le conseguenze funeste di un mal consigliato partito. Esitarono i Signori di Balìa alcuni giorni, essendochè non mancassero per parte de’ Fiorentini sollecitazioni a conchiudere una lega, che manifestamente sarebbe tornata utile ad ambedue le città confederate. Gli agenti cesarei n’ebbero indizio, e l’ambasciatore senese presso il vicerè di Napoli dovette rappresentargli, che quella lega non avrebbe avuto altro effetto che di obbligare i Fiorentini a non prestare aiuto ai fuorusciti senesi, e che ciò non ostante la città sarebbe rimasta nella devozione di Cesare13. Ma il governo, fatto debole dalle continue rivoluzioni, si lasciò vincere dalla paura di inimicarsi l’imperatore, e dismesso ogni pensiero di lega co’ Fiorentini, fornì di poca artiglieria l’esercito che assediava Firenze14. Venticinque anni dopo i Senesi dovettero cancellare con gli esigli e col sangue questa loro gravissima colpa.
Taceremo dei tumulti e delle turbolenze che porsero occasione a Cesare di lasciare nella città un presidio spagnuolo, causa poi di altri rivolgimenti e di altre sommosse: gli odi implacabili tra i Riformatori e i Noveschi affrettavano la rovina della repubblica. Questa intanto, giudicando non lontano il giorno di dover difendere con le armi lo Stato o contro l’imperatore o contro il papa, fece visitare i Porti e le terre della maremma da Baldassarre Peruzzi, e quindi dal suo discepolo Antonmaria Lari, e provvide a fortificarne i casseri e le muraglie. Il celebre architetto senese visitò le fortezze della maremma nel 1532, e ne scrisse alla Signoria un prezioso ricordo15. Le mura di Port’Ercole e di Talamone furono trovate in cattivo essere, mal fondate e con cretti; e quelle di Talamone poi così basse, in ispecie dalla parte di mezzogiorno, che era molto di bisogno il finirle, essendo «una facile scala in quella parte verso el mare a’ Turchi e Mori»16. Alcuni restauri si fecero, ma insufficienti; e crescendo i pericoli per la guerra che più viva che mai riaccendevasi tra l’imperatore ed il re di Francia, le fortezze della maremma furono visitate dal Lari, che attese ancora alla fabbrica delle mura di Grosseto, ai restauri delle fortificazioni di Talamone (1541), e diede il disegno delle muraglie e della fortezza di Port’Ercole, già minacciato dall’armata di Chayreddin Barbarossa.
Era questi venuto nelle acque d’Italia in soccorso del re di Francia con una fortissima armata, causa di molto spavento a tutti i paesi del nostro littorale. La Balìa mandò commissari a fortificare e munire i Porti della repubblica, ne accrebbe la guardia, e vi raccolse buon numero di fanti scelti dalle battaglie dello Stato. Vi accorse anche don Giovanni de Luna con cinquanta fanti spagnuoli e con cento animosi giovani della città. Alla guardia di Port’Ercole, dove si supponeva sarebbe stato maggiore l’impeto del nemico, era capitano Carlo Mannucci. Frattanto il Barbarossa, avvicinatosi all’isola dell’Elba, si volse rapidamente verso Talamone, vi approdò e mise a terra le sue artiglierie. Ora avvenne che mentre faceva gli apprestamenti per battere quella rôcca, molti Turchi, avidi di bottino, si recarono furtivamente a Monteano, lo saccheggiarono, e ne condussero prigioni molti abitanti. E poscia che ebbero espugnato Talamone, dove solo il castellano ed il capitano del presidio si salvarono liberi, costeggiando il Monte Argentare vennero dinanzi a Port’Ercole. Raccontasi che in Talamone commettesse il Barbarossa atto di brutale vendetta; «però che avendo udito come nella chiesa del luogo giacessero le ossa di Bartolomeo da Talamone, uomo valoroso, che trovandosi al governo delle galee del papa, mentre scorazzava l’isola di Metellino aveva dato il guasto ai poderi del padre suo, lo fece dissotterrare e buttarlo ai cani; ne pago a tanto ordinò che la casa di lui si riducesse in cenere»17.
La Balìa, avuto sentore del pericolo che soprastava a Port’Ercole, mandò per soccorso al duca di Firenze, il quale spedì in maremma Stefano da Palestina e Chiappino Vitelli con molti fanti e con cento celate. Ma il Barbarossa volendo prevenire l’arrivo di quelle milizie, cominciò a battere senza indugio Port’Ercole, che, fatta debole resistenza, si arrese al nemico, e fu consegnato a Leone Strozzi ammiraglio del re di Francia. Allora disegnarono i Turchi di dare l’assalto ad Orbetello, luogo per natura assai forte; ma vista difficile e pericolosa l’impresa, se ne partirono, navigando verso levante. I Francesi rimasti alla guardia di Port’Ercole, temendo di non poter a lungo resistere contro le forze unite dei Senesi e del duca di Firenze, pensarono di offerire al papa Talamone e Port’Ercole, obbligandolo così maggiormente inverso di loro. Ma il papa, che non vedeva per nulla prosperare in Italia le sorti di Francia, ricusò l’offerta; talmente che i Francesi, dato il fuoco a Port’Ercole ed alla rôcca, se ne partirono senza avere conseguito alcun effetto; e la repubblica con grandissima gioia dei cittadini ricuperò dopo tanti travagli e dopo tante spese i Porti della maremma.
Nell’ultimo decennio della libertà senese furono questi Porti oggetto precipuo della sollecitudine della repubblica. Si accrebbero i presidii, si fornirono le rocche di moschetti e bombarde, si afforzarono le muraglie: può dirsi che durante questo tempo, i restauri e la costruzione di fortilizi e di mura fossero continui18. Bene indovinava l’animo ai Senesi che Talamone e Port’Ercole sarebbero stati i supremi propugnacoli della libertà della patria. Ed in vero stanchi i Senesi del giogo imperiale, e cacciati della città li Spagnuoli e demolita la cittadella che a maggiore securtà dell’Impero vi avevano costruita, ebbero tosto principio le ostilità contro l’esercito cesareo condotto da don Pietro di Toledo vicerè di Napoli. Al quale, vecchio e infermiccio, passato in breve di questa vita, succedette il figlio don Garzia che, devastata la Val di Chiana, pose il campo sotto le mura di Montalcino; e non venendogli fatto per quanto vi si adoperasse, di espugnarla, se ne partì verso il reame. Fu allora che Cosimo duca di Firenze, violando i patti che lo legavano ai Senesi, prese sopra di sè il carico di questa guerra, e ne diede il comando al feroce Gian Iacopo Medici marchese di Marignano. Gli opposero i Senesi Pietro Strozzi, luogotenente in Italia del re di Francia, cominciando così quell’ultima guerra di Siena, che è rimasta memorabile nell’istoria della nostra città e dell’Italia. Mentre adunque le cose della guerra volgevano al peggio per i Senesi, Leone Strozzi, fratello di Pietro ed ammiraglio di Francia, approdava a Port’Ercole per liberare dalli Spagnuoli le terre della maremma, e congiungersi poi con l’esercito dei Senesi. Non riuscitogli di occupare Orbetello, dove li Spagnuoli si erano fortificati, volse le sue genti contro Scarlino, e già era per impadronirsene quando, ferito da un colpo di moschetto, pochi giorni dopo cessava di vivere. Non andavano meglio le fazioni militari dell’infelice Pietro, che vinto a Marciano (2 agosto 1554) e costretto a rifugiarsi a Lucignano, non potè impedire al Medici di tornare verso Siena e di assediarla. I Senesi diedero prova di grande virtù e di molto eroismo; ma sopraffatti dal numero dei nemici, e ridottisi per le sofferenze e la fame quasi alla disperazione, dovettero venire a patti col Marignano, ed aprire le porte della città alle milizie spagnuole (aprile 1555). Rimaneva ad espugnarsi Port’Ercole, dove Pietro Strozzi era accorso in gran fretta per sopravvegliare alla difesa di quella rôcca. Ma il Marignano, condottovi il fiore del suo esercito, riuscì ad espugnarla il dì 10 di giugno, e costrinse il presidio ad arrendersi, pagando a caro prezzo l’ultima vittoria sopra i Senesi. I quali ridottisi a Montalcino per non patire la vergogna della servitici e l’aspetto del vincitore, ed ivi ricostituito il governo della repubblica, come a suggello di ogni loro calamità seppero che i Porti della maremma, già onore e decoro dello Stato senese, venuti in podestà di Filippo II (1557) facevano parte ormai della sua monarchia, e si appellavano Presidii Spagnuoli.
Note
- ↑ Questa compra ebbe effetto nel 1507. Due anni dopo i commissari della repubblica e l’agente di Pandolfo ponevano i confini, per decreto della Balìa, fra le corti di «Stacchilagi, Marsiliana et altre tenute e cose del mag. Pandolpho Petrucci, nostro ornatissimo collega» (Instrumenta et Iura Comunis, n. 173, c. 28). Nell’istesso codice, a c. 31, altre convenzioni si trovano passate fra gli uomini di Port’Ercole e Pandolfo Petrucci, sempre per cagione di confini.
- ↑ Cosi erano appellati i fautori della libertà della patria; gente di gran cuore, che si ora costituita in fazione durante il governo del Petrucci.
- ↑ Concistoro, Deliberazioni, n. 934, c. 18 e 19.
- ↑ Iacopo di ser Donato Corti, notaio del Concistoro, ci lasciò scritto nel registro delle Deliberazioni (n. 934, c. t7) il racconto di questi tumulti e della morte del Bichi, e ci piace di riferirlo per intero.
- Die dicta (vi aprilis) quasi hora xx, que fuit dies Iovis.
Hora quasi xxij.
Post cessationem tumultus, licet non depositis armis, adcesserunt ad Palatium Vexilliferi Magistri et quamplures alii cives, introeuntes palatium libertatem alta voce exclamantes. Tam magnifici et excelsi Domini congregati in eorum consistorio post multis consultationibus decreverunt. quod cras fiat Consilium Populi more solito, et quod pulsetur et preconizetur etc. Et quod hoc sero coadunetur Balia magnia in sala Pacis et quod statim pulsetur ad Balìam magnam more solioo. Quod statim factum fuit ut supra deliberatum est. - ↑ Collegio di Balìa, Deliberazioni, n. 80, c. 82 e altrove.
- ↑ Collegio di Balia, Copialeltere, d. 237.
- ↑ Ivi
- ↑ Lettera di Andrea Doria alla Signoria de’ 22 gennaio 1528 (st. sen.).
- ↑ «Si sono pure haute finalmente le lettere per la restituzione di Porto Hercole, come vedranno per il breve di S. S., il quale con tanta fatica et tanta industria et persuasioni et contendimento pur si è ottenuto». Il Calvo che così scriveva alla Balìa il 2 di gennaio, quasi ogni giorno dava notizia del procedimento di questa sua negoziazione, e quei carteggio lo appalesa per uomo di fino criterio e molto esperto nelle arti della diplomazia. Secondo l’uso dei tempi, alle notizie concernenti Port’Ercole, altre ne aggiungeva raccolte conversando; e sono assai curiose quelle che si riferiscono alla salute di papa Clemente, che correva in quei giorni qualche pericolo, tanto che si dubitò di veleno.
- ↑ Delle lungaggini di queste pratiche dà ragguagli una lettera del Calvo alla Balìa del 2 febbraio 1529, nella quale tra le altre cose si legge; «Hoggi so stato a visitare il R.mo Santa Croce, et presentarli la lettera di V. S. Ill.me, la qual mostrò di avere molto acepta; et poi mi domandò in che termini si trovavan le cose di Porto Hercole. Io lo informai del tutto, et li dissi che questi agenti di Andrea Doria ogni dì trovavano et aggiungevano nuove cose per menar la cosa in longo; imperò che da principio poi che N. S. havea comesso si restituisse, ove saria bastato scrivere simplicemonte al capitano di Porto Ercole, che rendesse quel luogo, maxime che molti mesi prima il capitano Andrea Doria l’avea consignato in mano di S. S., volsero che le lettere andassero a Genova, et dissero alhora che bastava una simplice lettera loro, che havesser la parola del papa, nè si curavano nè di breve nè di lettere. Io a maggior cautela domandai il breve, et m. Iacopo Salviati mi disse, basterà una mia lettera, et così si mandò. Hora il capitano A. Doria ha domandato il breve, et essi sanno che si ha. Di nuovo domandaro quittanza di tutti gli allumi che si erano hauti per conto di S. S., credendosi forse non la volesser fare. Ma poi che han visto m. Filippo (tutore degli eredi Chigi) si contenta farla, domandano absoluzione di tutte le cose fossero state in Porto Hercole nel tempo che l’ha tenuto, et che mai per tal cosa possa esser molestato. Et perchè questa è cosa molto fuor di ragione, li tutori de li heredi de’ Chigi non la voglian fare, et così essi non voglian rendere Porto Hercole, et più vogliano si paghino li soldati che ci han tenuti fino a questo dì, cioè fino al di che si rendarà; et che io vedevo, se S. S. R.ma non ci metteva le mani, che noi saremo dileggiati. Si strinse ne le spalle, et disse: a me pare che voi ne caviate le mani più presto che voi potete, perchè la cosa potria peggiorare. Io non so dare altra interpretazione a queste parole, se non che egli non ci possa fare altro favore, et ci exhorti a pigliare ogni accordo per tristo che sia».
- ↑ Malavolti, Ist. Sen., Part. III, Lib. VII, pag. 130. Veggasi pure altra lettera del Calvo alla Balìa de’ 20 febbraio a. d. Erroneamente il Malavolti pone il riacquisto di Port’Ercole sotto l’anno 1326.
- ↑ Lettera di Bernardino Tantucci, oratore a Napoli, scritta alla Balìa il dì 24 febbraio 1529 (st. sen.).
- ↑ Lettera precitata del Tantucci alla Balìa. Appare da questa lettera che gl’imperiali tenevano già per loro soggetti i Senesi; imperciocchè nel Consiglio tenuto a Napoli presso il vicerè su quest’argomento della lega tra Fiorentini e Senesi, fu deliberato che la lega potesse conchiudorsi «sempre reservata la clausula mille volte replicata, scilicet salva voluntate Caesaris et suorum agentium». Eppure tutto questo non bastò ad aprire gli occhi ai Senesi per tempo.
- ↑ Prometteva di restituire le artiglierie che fossero imprestate al Principe d’Orange, e nell’Archivio senese ne rimane tuttora la dichiarazione da quel principe sottoscritta il di 26 agosto 629. Il principe voleva anche soccorso di gente, ma i Senesi se ne scusavano con mille pretesti, non volendo forse aggiungere errore ad errore.
- ↑ Già pubblicato dal Gaye nel Carteggio inedito degli artisti, e più recentemente dal dottissimo nostro amico e collega il cav. Milanesi nei Documenti per la Storia dell'arte senese (Tom. III, pag. 115).
- ↑ Milanesi, loc. cit., pag. 116.
- ↑ Guerrazzi, Vita di Andrea Doria, Tom. II, pag. 51.
- ↑ Il 24 d’aprile del 1548 Pietro Cattaneo scriveva alla Signoria di aver misurato la nuova muraglia di Talamone, e varie aggiunte fatte sopra i ripari e il torrazzo (Milanesi, loc. cit., pag. 178).