I divoratori/Libro secondo/XXIII
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XXIII.
Furtivo, in punta de’ piedi, il Pifferaro Pezzato passò vicino ad Anne-Marie e le suonò piano piano all’orecchio le sue melodie. Anne-Marie lo ascoltò con occhi larghi e smarriti. E quelle melodie, essa le udiva tutto il giorno ronzare e mormorare e cantare nelle orecchie, finchè, per liberarsene, le fece imprigionare sulla carta da Bemolle.
Tutto ciò ch’essa udiva si svolgeva in canti, si scioglieva in armonie, si divideva in ritmi. Le rime di «Mother Goose» furono tutte messe in musica. Anche «Struvelpeter» e «La vispa Teresa» e «Ara bell’ara». Tutti i versi che udiva li musicava. Tutti i personaggi prediletti delle fiabe di Andersen — la Principessa e la piccola Sirena, la cattiva Matrigna e i perfidi Gnomi — tutti corrispondevano nella mente di Anne-Marie a certe battute di musica.
Bemolle, sbigottito, esclamava:
— Ma questa bambina ha il senso del Leitmotiv!
Era stato deciso che Bemolle avrebbe le sue mattinate libere, perchè potesse lavorare alle sue composizioni. Due o tre anni prima egli aveva, mediante molti sacrifici e piccole privazioni, comperato un buon libretto per la sua sognata opera, di cui già a Praga, quando veniva col Professore a suonare per Anne-Marie, aveva cominciato a comporre i principali temi. Era anche nel bel mezzo di un poema sinfonico sulla poesia di Edgar Poe, «Eldorado». Egli talvolta ne suonava dei brani ad Anne-Marie, e più sovente a Nancy.
Gaily bedight, a gallant knight, |
— Sentite? — diceva curvo sul pianoforte, suonando con molto pedale e molto agitar della sua folta chioma nera, — il Cavaliere parte... è pieno di speranza e di coraggio! Sentite questo battito, questo galoppo e rimbombo? è il galoppo del Cavallo, ed il battito del cuore del Cavaliere.
Sì, sì; Nancy sentiva benissimo il Cuore e il Cavallo del Cavaliere.
— Ed ora... — il tappeto di ricci neri sulla testa di Bemolle descriveva una curva subitanea e piombava quasi a toccare la tastiera, — ecco l’Apparizione, l’Ombra velata, che lo ferma e gli parla!... Sentite l’Ombra come mormora e borbotta?
— Io la farei borbottare in re minore, — disse Anne-Marie.
E poi uscì dalla stanza gaia e leggera, lasciando nel cuore di Bemolle un senso di vago scontento con la sua Ombra che borbottava in fa maggiore.
Ben presto, essendovi molte cose da fare — molti programmi da preparare, e lettere da rispondere, e scritture da accettare o rifiutare — Bemolle dovette mettere da parte la sua opera e il suo poema sinfonico, e dedicarsi esclusivamente alle cose pratiche riguardanti i concerti e i viaggi.
Tutt’e tre — Nancy, Fräulein e Bemolle — erano un po’ confusionari e distratti. Sovente si confondevano nelle date degli impegni presi.
— Il teatro Costanzi a Roma ha telegrafato chiedendoci tre concerti in febbraio. Naturalmente ho accettato, — gridò Bemolle, trionfalmente, un giorno che Nancy ed Anne-Marie ritornavano da uno dei temuti e inevitabili ricevimenti dati nel West End in loro onore.
— Ma — disse Nancy con fronte turbata — non avevamo accettato Stoccolma per febbraio?
— È vero! — esclamò Bemolle, battendosi la fronte. — E adesso come facciamo? Bisognerà ritelegrafare a Roma, e rifiutare.
— Oh! non rifiutiamo Roma! — esclamò Nancy. — Disdiciamo piuttosto Stoccolma.
Dunque disdissero Stoccolma; e promisero a quella città una data in marzo, immediatamente dopo Roma e immediatamente prima di Berlino, dove Anne-Marie era scritturata per la «Kaiserfest» a suonare il Concerto di Max Bruch, accompagnata da quel grande compositore in persona.
Quando — con molte difficoltà e molti telegrammi — questo itinerario fu chiaramente stabilito, Nancy, guardando il taccuino di Bemolle in cui venivano notati gli impegni e le date, osservò:
— Come faremo ad andare da Roma a Stoccolma, e da Stoccolma a Berlino in sei giorni, con tre concerti in mezzo?
— Non è possibile, — disse Fräulein. — Metti che da Berlino a Warnemünde...
— Oh, non importano i dettagli, Fräulein, — sospirò Nancy. — È chiaro che non si può fare.
— Bisognerà disdire i concerti di Roma, — osservò Fräulein.
— Non si può, non si può, — esclamò Bemolle.
— Ebbene, allora bisogna rinunciare a Berlino, — disse Nancy.
— Impossibile! assolutamente impossibile.
— Allora non ci resta che a ricancellare Stoccolma.
E ricancellarono Stoccolma, mediante telegrammi che costarono cento cinquanta franchi, e pagando un indennizzo di due mila franchi; senza tener conto delle umilianti lettere piene di minaccie e di recriminazioni che per un pezzo amareggiarono la loro esistenza.
— Io credo — disse Nancy — che forse faremmo meglio ad avere un impresario. Mi pare che facciamo molti pasticci nei nostri affari.
Dunque fu deciso che prenderebbero un impresario. Dopo molte titubanze, incerti tra il piccolo genovese bruno che li aveva seguìti per tutto il Continente e il grande impresario di Parigi che si era offerto telegraficamente una volta sola, decisero finalmente in favore di un simpatico uomo biondo che avevano conosciuto a Vienna, d’apparenza seria e onesta, e che aveva promesso loro delle cose mirabolanti. Gli telegrafarono subito; già, nessuno scriveva mai lettere. L’enorme corrispondenza che arrivava da tutte le parti del mondo, vagava dalle tasche di Bemolle alle cartelle di Nancy, poi, dopo una breve sosta nelle valigie di Fräulein, spariva nei bauli e veniva portata in giro per il mondo in grandi buste gialle coll’iscrizione: «lettere da rispondere».
L’impresario di Vienna rispose chiedendo duecento corone per le spese di viaggio; che gli furono prontamente e telegraficamente mandate.
Poi l’impresario non arrivò.
— Questo non dobbiamo tollerarlo, — disse Fräulein.
E non lo tollerarono. Andarono da un avvocato, che richiese la corrispondenza e centocinquanta lire per le spese preliminari. Queste gli furono date. E la cosa finì lì. Eccetto che circa un anno dopo, quando avevano già dimenticato di che cosa si trattava, un conto dell’avvocato (per altre duecento trentasette lire) che li aveva seguìti per tutta Europa, li raggiunse a Pietroburgo.
E lo dovettero pagare.
Nel frattempo avevano preso l’impresario parigino. Era un grande impresario che aveva «lanciato» tutti i più grandi astri del mondo artistico.
Egli non volle spese di viaggio. Arrivò abbagliante di cravatta, stupefacente di gilet, risplendente di cilindro. Aveva già fissato, prima di partire da Parigi, quattro concerti «Colonne» per Anne-Marie. Lui non era uno dei vostri impresarii-marmotta. Nossignore. Ecco il contratto già pronto in duplicato da firmare.
Il lucido occhio dell’impresario si posò un istante con critico esame su Bemolle. Poi, in uno sguardo rapido, misurò Fräulein; e da Fräulein il suo occhio accorto passò al dolce viso un po’ incantato di Nancy. Bene. L’impresario era contento. Con queste persone si poteva andar d’accordo. In quanto ad Anne-Marie l’impresario non le badò affatto. L’aveva udita a suonare due volte. Bastava. Anne-Marie come Anne-Marie non lo interessava. Anne-Marie come artista lo interessava ancora meno. Anne-Marie era semplicemente la piccola «boîte à musique», sorprendente e sensazionale, equivalente a una somma di denaro in sei cifre nel suo portafogli.
Ecco dunque il contratto. Chi lo firmava? Non c’era padre? Bene, bene. Lo firmasse pure la madre, che faceva lo stesso.
Nancy espresse timidamente l’opinione che forse prima di firmarlo era bene leggerlo, e tutti, anche l’impresario, furono d’accordo con lei.
Dunque Nancy, Bemolle e Fräulein lessero con grande cura il documento; mentre l’impresario beveva del Malaga e fumava delle sigarette. Egli aveva un certo modo di aspirare brevemente l’aria, facendo colle narici un piccolo rumore soddisfatto e aspettante, e poi di mandar giù la saliva, cogli angoli della bocca rivolti in su, che dava sui nervi a Nancy, e le impediva di capire ciò che leggeva nel contratto.
C’erano quattordici clausole.
— Vi pare tutto giusto? — chiese Nancy piano a Bemolle.
Bemolle aggrottò le ciglia colla sua più severa aria d’uomo d’affari: e Fräulein disse:
— «Sprechen wir Deutsch.»
E difatti parlarono tedesco, a grande divertimento dell’impresario parigino, che era nato a Klagenfurt.
Dopo lunga lettura e svariate considerazioni, Bemolle si rivolse — sempre col cipiglio dell’intenditore — all’impresario:
— Qui dite: il trenta per cento all’artista?
L’impresario fece il suo rumore col naso, e inghiottì la sua saliva.
— Precisamente, — disse. E dopo una pausa soggiunse: — Io mi assumo tutti i rischi e tutte le spese!
— Oh! davvero? — disse Nancy, quasi pronta a chiedergliene scusa.
Bemolle le toccò il gomito perchè tacesse.
— Trenta per cento delle entrate lorde? — chiese Bemolle, con fare sospettoso.
— Nossignore. Delle entrate nette, — disse l’impresario.
— Ah, così va bene! — disse la ingenua Fräulein.
E Bemolle le pestò un piede.
— ...Che cos’è questa clausola dei tre anni? — chiese Bemolle.
— «Que diable!» — disse l’impresario. — Credete forse ch’io voglia far tutta la fatica di lanciarla, perchè voi, dopo sei mesi, me la portiate via? E io posso restare a succhiarmi le dita?
— Che grossolano personaggio! — disse Fräulein in tedesco. («Gemeiner Kerl!»)
Ma Nancy osò dire timidamente:
— Mi pare che Anne-Marie sia già lanciata!
— Trovate? — disse l’impresario. — A me non pare. Se la lancio io, in due anni deve guadagnarsi i suoi due milioni. — E l’impresario tirò su l’aria col naso. — Per meno, non vale la pena ch’io me ne occupi.
(— «Zwei Millionen»!! — mormorò Fräulein.)
Bemolle le ripestò il piede.
— E questo, cosa vuol dire? «Clausola 8: La parte suddetta si obbliga a dare un numero minimo di centoquaranta concerti all’anno, per tre anni».
— Questa è una pura formalità, — disse l’impresario — Si mette in tutti i contratti. È semplicemente per impedire che nè io nè voi perdiamo il nostro tempo a balladarci colle mani in tasca a far niente. Del resto, se non vi piace, amen. Lasciate stare. Già, non sono venuto qui per questo. Sono venuto per un contratto che ho col più grande tenore del mondo. Si firma domani. Eccolo.
E trasse dalla tasca un contratto in cui figurava il nome di un celeberrimo cantante; il documento era tutto costellato di centinaia di mila lire, come un prato è punteggiato di margheritine.
Fräulein fu molto impressionata.
— Meglio non lasciarlo scappare, — disse a Nancy in tedesco. — Prendilo, prendilo subito.
E lo presero subito. E firmarono il contratto. E Bemolle lo fece accuratamente registrare.
— Ecco fatto! «Nun ist alles in Ordnung», — disse in tedesco il «grossolano personaggio», rivolgendosi con un risolino a Fräulein. E tirò su l’aria col naso, e inghiottì.
Ben presto s’avvidero del significato della clausola 8.
«La parte suddetta» si era obbligata a dare un numero minimo di centoquaranta concerti all’anno, e la parte suddetta era Anne-Marie. No, certo, ad Anne-Marie non sarebbe concesso di perdere il tempo a balladarsi colle mani in tasca. In sedici giorni aveva fatto undici viaggi e dato dodici concerti.
Essa passava da città a città, da palcoscenico a palcoscenico, e pareva un pallido serafino che suonasse in sogno. A metà del settimo viaggio Fräulein si ammalò, e fu lasciata a mezza strada tra Mainz e Colonia.
Bemolle stringeva i denti e non parlava. Sedeva nel treno rimpetto a Nancy e ad Anne-Marie, e le guardava; guardava la piccola (che sonnecchiava colla testa poggiata al braccio di sua madre) e grandi lagrime si adunavano nei suoi fedeli occhi neri, s’indugiavano, e cadevano, perdendosi nei mesti baffi bruni che gli spiovevano sulla bocca come quelli di una foca.
L’impresario viaggiava con loro, leggendo i giornali e soffiando nelle loro faccie il fumo delle sue sigarette; poi si addormentava colle mani in tasca, le lunghe gambe stese traverso lo scompartimento, e la bocca aperta.
Bemolle lo guardava, covando foschi pensieri. I suoi buoni occhi di cane fedele vagavano con espressione feroce dalla bocca aperta del dormente impresario alla sua bionda barba a punta, e si attardavano lungamente sul suo gilet infiorato, come cercando un posto adatto...
Durante i concerti l’impresario era onnipresente: girava in su e in giù per la sala e per i corridoi; lo si vedeva da per tutto, colle mani in tasca e la sigaretta in bocca. Negli intervalli tra i pezzi veniva a sedersi nella stanza degli artisti, e s’intratteneva con tutti quelli che venivano per vedere Anne-Marie. Indovinava i giornalisti col fiuto di un cane da caccia; e narrava loro fantastiche e inverosimili leggende sul conto della piccina, che facevano arrossire Nancy fino alle lagrime. Essa lo udiva parlare con tutti: coi musicisti entusiasti, colle signore commosse che venivano ad abbracciare la bambina; e a tutti Nancy lo udiva raccontare gli stravaganti aneddoti, sempre uguali, che la facevano piangere di mortificazione. Sì, era lui che aveva scoperto questa bambina: l’aveva udita a quattro anni suonare al pianoforte i valzer di Chopin. A cinque anni, essa e il fratellino, avevano preso una vecchia scatola di legno che aveva contenuto dei fichi secchi e ne avevano fabbricato un violino. L’anno scorso ella era stata trafugata dai Nichilisti in Russia, che l’avevano tenuta per tre settimane in una specie di sotterraneo, e aveva dovuto suonare delle ore e delle ore, ogni volta che questi barbari glielo comandavano. Liberandola, le avevano poi regalato una collana di brillanti del valore di ottanta mila lire. Già; la piccina possedeva gioielli e decorazioni per oltre mezzo milione. Aveva due Stradivari. Uno aveva appartenuto a Wagner. L’altro allo Czar.
Alla fine d’ogni concerto l’impresario usciva con loro dalla sala degli artisti. L’impresario portava in braccio Anne-Marie attraverso le folle plaudenti. L’impresario portava i fiori e il violino. L’impresario saliva in carrozza con loro, e dalla finestra era lui che faceva colla mano cenno d’addio alla gente, quando Anne-Marie era troppo stanca per affacciarsi.
Anne-Marie sedeva rincantucciata e zitta in fondo alla carrozza, e s’addormentava. Nancy si mordeva le labbra per non piangere.
Di fuori Bemolle, seduto a cassetta, ruminava neri pensieri e scagliava mentalmente sull’impresario dei sortilegi malefici che nel suo paese da più secoli si ritenevano infallibili.
Questo durò un mese. Al trentunesimo giorno Anne-Marie disse:
— Non voglio più vedere quell’uomo. Mai. E non voglio che porti mai più il mio violino.
— Va bene, cara, — disse Nancy.
— E voglio andare in campagna; e voglio mangiare sull’erba delle cose in pacchettini; e bere del latte che si porta in una bottiglia.
— Va bene, tesoro. Lo faremo, — disse Nancy.
— Sarà molto bello, — disse Anne-Marie.
E lo fecero. E fu molto bello.
Quella sera, quando venne l’impresario, Anne-Marie non era pronta come di consueto, pallidetta e sognante nel suo vestito di raso celeste. Era nel suo lettino, e dormiva rosea e placida, dopo la lunga giornata passata all’aria aperta.
— Siamo pronti? — disse l’impresario guardandosi intorno.
— La piccola non può suonare questa sera, — disse Nancy. — È stanca. Se avessi saputo dove trovarvi, ve lo mandavo a dire.
— Oh bella! — disse l’impresario, e fece il suo rumore col naso.
— E poi, — continuò Nancy timidamente, — è meglio che ve lo dica subito: non potremo più continuare così. La bimba deve suonare soltanto quando vuole lei. Non deve essere forzata. Basta un concerto o due in un mese.
— Oh bella! — ripetè l’impresario; e sedette, e si tolse di tasca il portasigarette.
— Dunque — continuò Nancy, tremando un poco, — vi pregherò di pagare i concerti che si sono dati finora; e... e poi... ci lascerete andare.
L’impresario diede in una grande risata. Le sue spalle sobbalzavano per l’ilarità.
— Ah, bellissima, proprio! — disse, smettendo di ridere per accendere la sigaretta, e continuando dopo che l’ebbe accesa. — Dunque vi devo pagare, eh? E quanto dovrei pagare, di grazia?
Nancy rispose timida:
— Ma non so... quello che ci viene...
— Ah sì! quello che vi viene. Benissimo, benissimo. — E l’impresario cessò d’un tratto di ridere e guardò l’orologio. — Adesso fate presto. È ora. Hop, hop!
— Ma Anne-Marie dorme, — disse Nancy.
— Svegliatela, — disse l’impresario.
Nancy si sentì impallidire.
— Movetevi dunque, — disse l’impresario. — Non morirà, m’immagino, se suona stasera. E il teatro è tutto venduto.
— Mi rincresce tanto, — disse Nancy. — Ma Anne-Marie non deve mai suonare quando è stanca.
— Non dite sciocchezze, mia buona donna, — disse l’impresario, alzandosi. — Se non la svegliate voi, la sveglio io.
E mosse un passo verso la porta della camera dove dormiva Anne-Marie.
Ora, il sonno di Anne-Marie era per tutti una cosa sacra — una cosa di cui si parlava con un dito sul labbro, trattenendo il respiro. Quando Anne-Marie dormiva — quando il piccolo cervello miracoloso, pieno di milioni di note, riposava, — tutto doveva tacere: il mondo doveva fermarsi. Se mai capitava che a Bemolle — passando in punta dei piedi per il corridoio — scricchiolasse una scarpa, subito Nancy e Fräulein si affacciavano con visi esterrefatti, e gli facevano con espressioni di acerbo rimprovero e con gli indici innalzati, segno di star zitto. Sì; il sonno di Anne-Marie era una cosa inviolata e sacrosanta.
Bemolle era rimasto presso la finestra, guardando fuori nel buio, mentre l’impresario parlava con Nancy. Ma al primo passo che questi aveva fatto nella direzione della chiusa porta di Anne-Marie, Bemolle si era lanciato in avanti e con un ruggito di belva inferocita si era scagliato su di lui.
Bemolle era piccolo e grassotto. Ma il suo odio e la sua ira da tanto tempo accumulati gli tennero luogo di forza e di muscoli. In un lampo fu addosso allo sbalordito impresario, graffiandogli la faccia, tirandogli la barba, percuotendolo con agitati pugni, e con le brevi gambe tirandogli dei calci.
Quando l’impresario potè riaversi dallo stupore di questo inatteso attacco, prese per il colletto Bemolle, lo alzò, e vivamente lo fece sedere per terra. Quindi prese cappello e bastone, e se ne andò.
— ... È partito? — chiese Bemolle rizzandosi a sedere, con le guancie che parevano di carta e un occhio arrossato.
— Sì, è partito! — disse Nancy. — Oh, povero Bemolle! Vi ha fatto male?
Bemolle non si alzò. Rimase seduto per terra, scotendo la testa e mormorando con voce rauca:
— Voleva svegliare Anne-Marie!... Ma pensate! Voleva svegliare Anne-Marie!...
Dovettero pagare cinque mila franchi per annullare il contratto; e altri duemila franchi per le spese legali. Ma trovarono che era pagar ben poco la grande gioia di liberarsi dell’impresario.
Fecero delle scampagnate, e si divertirono molto, aspettando che Fräulein guarisse e li potesse raggiungere. E quando ciò avvenne andarono tutti e quattro, felici e contenti, a Roma, dove avevano ancora quindici giorni di tempo prima che cominciassero i concerti al teatro Costanzi.
E a Roma vennero a trovarli anche tutti i loro cari da Milano: la zia Carlotta, curva e striminzita, e lo zio Giacomo tremante e tardo; e Adele, e Nino, e Carlo, e Clarissa, commossi e felici e affettuosi. Molte tenere lagrime furono versate ricordando Valeria, cui non era stato concesso gioire della fama di Anne-Marie, la sua meravigliosa nipotina.
— Ma vide la gloria tua, Nancy, — disse Nino.
Rivissero, nei ricordi, la visita di Nancy giovinetta alla Regina Madre; come vi andasse tremante col suo piccolo libro di poesie, e col suo grande cappello a piume e colla veletta bianca che poi aveva dovuto togliere prima di entrare al cospetto reale... E tutti insieme rifecero in pio pellegrinaggio la salita al Quirinale, posando sul Palazzo gli occhi inteneriti. Era una splendida mattinata di sole. Nino, di cui ormai i capelli erano grigi e il carattere irascibile come quello di suo padre — così almeno diceva la zia Carlotta — camminava davanti a tutti con Anne-Marie, che gli trotterellava accanto tenendogli la mano. Egli le raccontava delle interessanti cose: le diceva di un certo grembiulino rosa che sua madre portava quando aveva otto anni, e le descriveva Fräulein, giovane, colle guancie che parevano mele.
Fräulein, che a dir vero non dimostrava troppo i vent’anni di differenza tra quell’epoca e questa, ascoltava, assai commossa, tali reminiscenze. E Bemolle, che si riprometteva di andare a vedere la sua vecchia madre non appena terminati i concerti al Costanzi, camminava dietro a tutti lagrimando silenziosamente, disciolto in una vaga tenerezza verso il mondo in generale.
— A proposito, Nancy, — disse Nino, — sai che ho riveduto la cara vecchia villa di Wareside? Sono andato in Inghilterra per gli affari di Carlo due mesi fa; allora ho preso il treno di Hertfordshire per andare a rivedere la Casa Grigia. Era vuota. Sono rimasto più di un’ora al cancello; e tutti i fantasmi del passato sono venuti a farmi compagnia.
— Oh! — disse Fräulein. — Che divino posto era quello! Te ne ricordi, Nancy?
— Ricordo il giardino, — disse Nancy, con gli occhi vaghi in cui fluttuavano le rimembranze, — e l’altalena...
— Che altalena? — disse Anne-Marie, prendendo interesse all’argomento.
Allora Nancy le descrisse il lontano giardino, placido nel mite sole inglese, dove ella, bambina, aveva cullato sull’altalena i suoi fantastici sogni, e da cui, al tramonto, si vedeva l’orizzonte acceso sull’orlo del mondo...
All’indomani del primo concerto a Roma, ecco giungere anche per Anne-Marie la grande lettera bianca, con lo stemma d’oro: le Armi della Real Casa. Le Loro Maestà avrebbero ricevuto al Quirinale l’indomani sera, alle nove, la gentile bambina e grande artista; e l’avrebbero con piacere udita suonare...
E l’indomani sera Adele, Carlotta e Clarissa, felici e perturbate, aiutavano Nancy e Anne-Marie a prepararsi per la loro udienza al Quirinale. Bemolle era fuori di sè, pallido e febbricitante per l’agitazione, al pensiero di dover accompagnare Anne-Marie al pianoforte.
Quando, alle nove precise Nancy e Anne-Marie, colle destre ignude, traversavano la fila di sale — la sala rossa, la sala gialla, la sala azzurra — fino alla sala bianca ed oro, dove i Sovrani li avrebbero accolti, Bemolle li seguì tremando. Dietro a lui veniva un risplendente lacché, in livrea scarlatta, portando il violino e la musica. (I pensieri di Bemolle volarono al villaggetto appiè degli Appennini, dove a quest’ora qualche piccolo lume s’accendeva nel buio...)
La Regina mosse incontro a Nancy e a Anne-Marie. Non era più la Regina di cui il nome di fiore era scritto nel vecchio diario di Nancy. Era una Regina quasi fanciulla, con immensi e risplendenti occhi bruni. E il giovinetto di cui l’effigie, chiusa in un medaglione, posava da tanti anni sul cuore di Nancy, era Re.
La Regina abbracciò Anne-Marie; e rise quando Anne-Marie parlava, e pianse quando Anne-Marie suonò. Anne-Marie la guardava, soggiogata e rapita da quegli occhi straordinari, quegli occhi di fuoco e di velluto, così innocenti che parevano non aver guardato che nelle anime di fiori e di fanciulli; così teneri che parevano non aver pianto che per i dolori altrui.
Anne-Marie, suonando, poteva appena staccare lo sguardo da lei; ma per senso di dovere ogni tanto lanciava una occhiata sottomessa a uno sfolgorante ufficiale in tunica scarlatta, ricoperto di decorazioni, che ella s’immaginava fosse il Re.
Alla chiusa dell’adagio di Mendelssohn un uomo grave, che sedeva un poco in disparte dagli altri, ed era semplicemente vestito in abito da sera, parlò:
— Io non m’intendo molto di musica. Ma questa musica mi piace.
La regina si volse a lui, e sorrise. E quel sorriso fece trasalire Anne-Marie. Mai ella non aveva veduto un sorriso così dolce, così fulgido e abbagliante! Essa seguì il corso di quel sorriso luminoso e il suo sguardo si fermò sul viso di quell’uomo grave, vestito di nero.
Quel viso! dove l’aveva ella veduto? Perchè era così noto? così caro e famigliare? Perchè le faceva venire in mente New-York, e sua mamma piangente sulle lettere che venivano da Milano? I francobolli! Sì, quel viso lo aveva visto sui francobolli! Era lui, era lui il Re d’Italia! Come aveva potuto credere anche per un solo istante che fosse quell’uomo coi capelli gialli, vestito di rosso? Era questo, questo il Re! E il cuore di Anne-Marie si prostrò in appassionato pentimento davanti a colui che non s’intendeva di musica. Egli forse se n’avvide, perchè cogli occhi benevoli e penetranti le ammiccò.
Bemolle, entrando, aveva fatto il suo profondo inchino; poi s’era fermato vicino al pianoforte, curvo sotto la terribile gioia della augusta presenza; e in tutta la sera non ricuperò mai completamente la posizione verticale; ma bensì si levò e si sedette — ogni volta che gli si rivolgeva la parola — in una rigida postura curvilinea, dolorosa a guardarsi. Egli suonò anche molte note sbagliate negli accompagnamenti; e sentiva saettare su di lui l’ira di Anne-Marie, non ostante il fatto che, suonando, ella gli tenesse voltate le piccole spalle celestrine.
Nancy sedeva a fianco della Regina, e con occhi rischiarati da lagrime felici, rispondeva alle benigne e intime domande che le belle labbra le rivolgevano. La Regina la chiamava col suo nome di fanciulla, col suo nome di poeta... E il passato e il presente si confusero nella loro duplice dolcezza nel cuore di Nancy. Essa riviveva la sua gloriosa adolescenza, nella gloria adolescente di Anne-Marie.
In carrozza al ritorno, Anne-Marie, garrula come un uccelletto, raccontava le sue impressioni, e Nancy, ridendo, la serrava al cuore.
Ma Bemolle, muto, con gli occhi chiusi, pensava. Pensava che stenderebbe alla tremula stretta della sua vecchia madre, una mano che il tocco d’una Regina aveva consacrato.