Giaffà/Ultime avventure di Giaffà
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Ultime avventure di Giaffà.
Ma non erano bastate la bontà e la pazienza dei missionari per ricondurre alla ragione Giaffà. State a sentire. Gli dicevano:
— Giaffà, inaffía l’orto del convento, ma bada di tenere bene bucato l’innaffiatoio, perché sui tulipani e sull’insalatina ci vuole una bella rosa leggera di acqua.
— Sí, sí. —
E allora lui si dava una grande importanza, si avvolgeva il codino intorno al collo, perché non gli desse grande fastidio, e andava in un suo certo ripostiglio: quel ripostiglio era un vero bazar, un ammucchiamento di cosettine misteriose, dove anche il piú ardito coloniale italiano avrebbe avuto paura di metterci il piede: come si ha paura di entrare in una stanza di qualche nostro bambino, e peggio, di qualche nostra fanciullina che pure dovrebbe essere per natura un po’ ordinata: e capita, voi non lo sapete, ma lo sappiamo noi, che fra tutte quelle cianfrusaglie raccolte come da una gazza, l’unico posto da mettere le mani, è nei capelli. Passiamoci sopra, ora. Dunque, Giaffà aveva in quel suo ripostiglio: chiodi, pezzi di spago, scatolette inutili di lacca, piccoli crocefissi senza la dolorosa statuina, uno zoccolo di feltro pescato chi sa dove, insomma una vera fiera. Voi avete bene capito — quanti di voi piccoli che leggete non siete un poco pasticcioni come Giaffà? — avete capito che Giaffà quando gli dicevano di tenere bene bucato l’innaffiatoio, andava con un’aria di trionfo nel suo ripostiglio, tirava fuori dalle sue ferramenta un chiodo e bucava l’innaffiatoio davvero, sotto. Poi incominciava a innaffiare. Io vi vedo ridere perché osservate che quando l’innaffiatoio giungeva a quei meravigliosi tulipani d’oriente o a quell’insalatina cosí trasparente che pareva illuminata da una lampada verde, acqua non ce n’era dentro piú: e i buoni missionari dicevano a Giaffà:
— Perché annaffii i vialetti e non i tulipani e le insalatine? —
Giaffà si faceva serio.
— Sí, diceva, ci ho pensato anche io: ma l’acqua che io porto non arriva mai e non so come sia. — Non ridete troppo, cari miei, perché se Giaffà era un po’ stupidello non era colpa sua: e poi in fondo era buono: piú di voi.
* * *
Appunto perché era buono i cari missionari gli perdonarono, fra le tante, questa ultima baggianata. Che cosa voglia dire, amico mio, baggianata fàttelo spiegare dalla tua mamma, e cosí nella vita ne commetterai il meno possibile.
Giaffà rideva molto, anche per il volo di una mosca. E una volta Padre Aristodemo che era un grande studioso di astronomia, e le risate di Giaffà non gli piacevano molto, perché gli facevano sbagliare i calcoli fra la luna e il sole, disse al ragazzotto, paternamente:
— Tu sei una lodevole creatura: però abbondi di riso. —
Giaffà questa volta rimase pensieroso: non sapeva dire bugie: e stava per rispondere che egli non abbondava di riso. Ma Padre Aristodemo si era già allontanato lungo il portico. Giaffà rimase un po ’ triste poi pensò:
— Giacché ha detto cosí, farò vedere a quel mio signor padrone santo, che è vero. —
Voi sapete, ragazzi, che in Gina, il cibo usuale è il riso e che quegli abitanti lo mangiano con due bacchettine in una maniera molto abile: è come da noi il pane. Con la differenza che da noi c’è anche il companatico e là, poveretti, il companatico se lo sognano nel regno celeste di Confucio. Dunque, non lamentatevi.
A notte, mentre tutti dormivano, Giaffà, a piedi nudi scese e spalancò la porta. Vicino c’era un deposito di riso: e Giaffà che era tanto forte quanto ingenuo, incominciò a rubarne ceste di un quintale l’una e a portarle nel cortile del convento: quando, sudato, con le membra rotte, ne ebbe collocate ben sessanta in due file, e già sorgeva l’alba, andò a letto sicurissimo del compiacimento del Signore.* * *
Perciò il giorno seguente, scoperta la gravissima cosa, lo rimandarono da sua madre. Lui, non per malvagità, ma perché aveva sempre la testa nelle nuvole, si guardò bene dal tornare dalla vecchia e buona Pan-a. E andò a trovare un amico: il non vederlo per tanto tempo era stata l’unica spina durante quei mesi trascorsi. L’amico si chiamava Li-foi, ed era intelligentissimo. Ora, non vi deve sorprendere, miei cari, che una persona intelligente sia amico di uno stupido come Giaffà. È una legge di compensazione negli uomini: gl’intelligenti hanno il dovere di insegnare sempre qualche cosa a quelli un po’ dimenticati dalla mano benigna di Confucio.
Trovò Li-foi che dopo aver mangiato un nido di rondine, se ne vedevano i resti sopra un tovagliolo di carta velina, stava intento a uno stranissimo gioco.
Li-foi era ricco, nobile, conosceva tutta la religione e le leggende: perciò si poteva permettere di mangiare nidi di rondine, carne di cane, come là si usa: e si poteva anche permettere di passare qualche ora del suo tempo in quel difficile gioco arrivato dalla Persia e che si chiamava il gioco degli scacchi.
Quando vide Giaffà si alzò, lo abbracciò, e comprendendo dai suoi occhi un po’ stralunati che aveva fame, gli diede un costato di carne di cane che Giaffà divorò sputando gli ossi a destra e a sinistra con grande maleducazione. L’amico glielo fece osservare con dolcezza e per dargli una lezione raccolse uno per uno gli ossi sulle stuoie della sontuosa casa di legno, senza dire parola. Allora Giaffà riprese gli ossi, li ripose nei diversi luoghi donde erano stati raccolti da Li-foi e con molta umiltà li raccattò da sé. Li-foi lo abbracciò di nuovo.
Alla spiegazione del nuovo e famoso gioco Giaffà ci capì poco o nulla: certo quei cavallucci, quei re, quelle regine lo divertivano. Ma il resto diventava piú mistero quanto piú Li-foi si affannava con affetto a insegnare. Ad un tratto, Li-foi domandò:
— Giaffà: vedi? questi sono sessantaquattro quadrati fra bianchi e neri — e indicò la scacchiera. — Se raddoppiando un granello di riso dal primo quadrato al secondo, e raddoppiando il risultato ottenuto al terzo quadratino, e al quarto raddoppiando ancora e cosí via via fino al sessantaquattro, che cosa credi tu, amico mio? quanto riso si potrà avere?
— Una manciata — rispose Giaffà e rise con la bocca mezzo sdentata.
A Giaffà mancavano tre denti perché aveva avuto sempre paura del dentista e non se li era mai fatti curare quando occorreva. Avvertimento, cari ragazzi. Meglio una piccola paura piena di coraggio oggi, che una dentiera domani.
Va bene che ai tempi di Giaffà i dentisti usavano le stesse tenaglie che adoperavano per lavorare gli zoccoli dei cavalli, ma questo non vuol dire. I cinesi di quel tempo erano già molto civili, avevano costruito la Grande Muraglia e, pare, avevano già inventato la stampa e scoperto la polvere da cannone.
— Sí — disse Li-foi — a te posso insegnare questa cosa perché sono sicuro che tu non l’andrai a riferire a nessuno. —
Giaffà incrociò le mani sul petto come per un giuramento e subito pensava a quale suo piú intimo amico avrebbe potuto chiedere consiglio per mantenere il segreto.
— Guarda — seguitò Li-foi indicando la scacchiera — questo è un granello di riso: raddoppialo sul secondo quadrato e sono due, raddoppia questo risultato sul terzo quadrato e sono quattro, sul quarto sono otto, piú avanti sono sedici, poi trentadue, poi sessantaquattro, poi centoventotto, poi duecentocinquantasei, poi cinquecentododici, poi, mille e ventiquattro... e siamo alla undecima casella.
Giaffà era spaventato da quella straordinaria progressione dei granelli di riso: e non molto svelto nella matematica perdeva la testa e gli veniva sonno: ma siccome aveva una grande ammirazione per l’amico ascoltava con un certo sforzo i nuovi numeri che a ogni addizione diventavano sempre piú favolosi. «...duemila e ventotto, quattromila e cinquantasei» — a Giaffà venne il mal di testa «ottomila centododici...» Giaffà, quando l’amico gli parlò di miliardi, pensò che era un bel gioco.
— Un bel gioco? Non sai che seguitando questo conto non basterebbe tutto il riso dello Scianthung? —
— Tu dovresti prestarmi questa scacchiera per un giorno. Vorrei proprio studiare bene questo gioco — fece Giaffà. L’amico gliela prestò e Giaffà andò difilato dal Mandarino.
* * *
Il Mandarino non era piú quello che con i suoi ufficiali aveva interrogato ed esaminato Giaffà quando aveva commesso le baggianate di cui vi ho parlato nelle sue prime avventure. Era un suo cugino con gli occhi dritti, la pancia gonfia, coperta da una tunica di seta rossiccia, che pareva davvero un mandarino. Giaffà arrivò al suo palazzo fra le mimose e il tetto arcuato e spiovente fatto di lastre di lavagna. Io so bene, miei diligentissimi scolari, che voi avete il desiderio che tutti i palazzi del mondo vengano ricoperti da lastre di lavagna perché almeno non ce ne sarà piú una da mettere nelle vostre scuole.
Il Mandarino aveva molto da fare perché doveva ordinare il taglio di diecimila teste di sudditi cattivi e non poté ricevere subito Giaffà. Giaffà si mise a sedere — a sedere per terra su una preziosa stuoia che rappresentava una caccia all’airone — e si guardò intorno. Certo il luogo era bello e profumato: dalle larghe finestre si vedeva un cielo azzurro con alberi rosa e il volo delle gru, proprio come le calcomanie che voi stampate nell’ora del compito. Quello che però non andava a genio a Giaffà fra tanti bei ninnoli di porcellana, fra tappezzerie di sete, in quell’andirivieni silenzioso di grandi personaggi che incontrandosi si inchinavano sino a terra sorridendo e senza scambiare una parola, erano due guerrieri sulla porta con le lance dalle dieci punte.
Ad un tratto passò con un corteo frusciante Tori-li, la bellissima figlia del Mandarino.
Giaffà si alzò e senza tanti complimenti — perché secondo l’uso le avrebbe dovuto baciare i piedini — le disse che doveva parlare al padre. Lei per un istante lo guardò con alterigia senza rispondere: poi sentendo sussurrare il nome dell’importuno da una dama del seguito si voltò incuriosita:
— Ah, tu sei Giaffà?
— Proprio quello in carne e ossa.
— Ma non mi sembri tanto stupido come dicono nella città. Che vuoi da mio padre?
— Eh!? — E mostrò la scacchiera. Tori-li guardò incuriosita, poi sembrò che si divertisse.
— Aspetta.
Entrò superba senza nemmeno chiedere permesso, e fece male, nella stanza dell’estate dove il padre teneva udienza. Il Mandarino aveva già decretato diecimila decapitazioni, quindicimila imprigionamenti, diciottomila frustature per i sudditi: colpevoli o non colpevoli.
Quando entrò la figlia cominciò a tremare d’affetto:
— Salute e sii fortunata — le disse alzandosi senza aver bisogno dei due schiavi che, in generale, quando camminava gli sorreggevano la pancia. La figlia arricciò il naso e non si degnò nemmeno di rispondere. Fece un piccolo cenno.
— Andate via, maledetti! — urlò il Mandarino: e tutti i dignitari, i piú alti personaggi dello Stato, i ministri, i giudici, i generali, se la sgattaiolarono chi da una parte, chi dall’altra, in un lampo.
— Tutti assolti! — tuonò il gran Mandarino. Poi si volse con un ineffabile e timoroso sorriso alla figlia e mormorò:
— Che cosa comandi, mio celeste impero? — Cosí sono i padri. — Che cosa comandi?
— Che sia ricevuto con onore Giaffà. —
* * *
Giaffà allora entrò con tutti gli onori nella sala del Mandarino.
Naturalmente incespicò in una stuoia: e poiché un ciambellano si era messo a ridere, subito gli fu tagliata la testa. Cosí o miei piccoli lettori potete subito apprendere che bisogna stare attenti a non inciampare nelle stuoie e nei tappeti, e soprattutto a non deridere una persona quando senza volerlo fa una brutta figura.
— Mio cugino ti ha promesso molte volte delle bastonate — disse il gran Mandarino riconoscendo Giaffà, e nello stesso tempo guardando di sfuggita con gli occhietti gonfi la terribile figlia per spiare se le sue parole erano giuste o di suo gradimento. Piuttosto di suo gradimento, perché tante volte, purtroppo, i capricci dei figli sembrano cose giuste ai genitori deboli.
— Me le ha promesse ma non me le ha date: e ha fatto male! — rispose Giaffà ridendo come spiritato e appoggiandosi ora su un piede, ora sull’altro, ora sovrapponendo il calcagno dell’uno sulle dita dell’altro, con molta maleducazione.
— Perché ha fatto male? — domandò il Mandarino. — Anzi dovresti ringraziare Fo e Confucio.
— Ha fatto male perché quando si promette una cosa bisogna mantenerla — rispose Giaffà. Da una parte non aveva torto: ma bisogna pure pensare che non bisogna promettere cose cattive: e se queste in un momento di errore sono state promesse, allora con il ritorno della bontà è lecito non mantenerle.
— Io sono il suo successore — disse il Mandarino — e te le farò dare per conto suo. —
Giaffà a quella minaccia dimenticò tutte le sue convinzioni e cominciò a strillare e a correre per la grande stanza profumata di lillà, di mimose e di strani fumi.* * *
Quando per l’intervento della magnifica figlia del Mandarino, Giaffà fu calmato con un bicchier d’acqua di cedro e quattro cavallette rosolate nel succo del fiore di loto — che là sarebbero come le nostre pagnottelle imbottite — lo sciocco cominciò a spiegare il suo giuoco del granello di riso e della scacchiera che aveva imparato dall’amico studioso.
— Però, disse Giaffà, questo è un segreto molto difficile che non bisogna svelare a nessuno. Se qualcun’altro molto fidato della Corte vuole assistere, venga pure, ma con la promessa che ne parli soltanto ai suoi amici piú fedeli: e che questi a loro volta s’impegnino a confessarlo ai loro amici piú seri e meno sospettabili. Se no, che segreto è?
— E qual’è il premio che vuoi, Giaffà, per questo tuo meraviglioso gioco?
— Mi accontento che mi si diano tutti i granelli di riso che risulteranno dalle addizioni della scacchiera, — e spiegò il gioco.
Il Mandarino rise di compassione sapendo che appunto aveva a che fare con uno sciocco famoso: e siccome quel governatore non era molto cattivo pensò: Non gli farò tagliare la testa per il disturbo.
— Accettato! — esclamò lieto che la figlia si divertisse.
Ma quando per il computo che cresceva infinitamente fu costretto a chiamare i migliori matematici della città, quando spaventato si accorse che doveva dare a Giaffà tutto il riso del suo Stato e fare ancora prestiti all’estero, quando si accorse di essere stato burlato e vinto da quel monello idiota, fu preso dalle convulsioni, si voleva tagliare la pancia con lo jatagan, e inutilmente lo consolavano, gli spruzzavano acqua sul viso, gli facevano vento con grandi ventagli di crespo colorito. La parola ormai era data. Come fare?
Ma non per nulla era un Mandarino di grande astuzia, e passate le convulsioni, quetato l’enorme ventre che era sembrato un tifone del mar Giallo, disse:
— Va bene, mio Giaffà, figlio e suddito mio. Tu però dovrai sposare mia figlia perché sei stato il primo e l’unico che non le hai baciato i piedi. Questa è una legge secolare: se no ti devi lasciar tagliare la testa. —
La figlia fu contentissima, perché a molte anime capricciose possono piacere le persone sciocche. Piú contento di lei era il Mandarino che pensava: «Quando saranno sposi, il riso rimarrà in famiglia, e quindi mio: la parola data è mantenuta, la religione osservata, e Confucio non avrà ragione di punirmi.»
Bravo imbroglione! direte voi. Purtroppo il mondo è fatto cosí e io ho voluto darvene un piccolo esempio perché vi guardiate bene dal diventare imbroglioni.
Chi fra tanto tripudio non era affatto contento era proprio Giaffà che pensava con nostalgia al gioco con i monelli della strada e ai pugni che tanto volentieri si scambiavano.
* * *
Cosí i migliori camerieri acchiapparono Giaffà e gli fecero fare tre bagni profumati all’acqua di rosa. Giaffà era arrivato così sudicio che dovettero usare anche la striglia: poi i migliori sarti gli presero le misure e lavorando giorno e notte gli confezionarono cinquanta abiti con i piú bei lini, i piú bei rasi, le sete piú morbide e scintillanti che vi fossero: e i maestri d’arme se lo rubavano l’un l’altro per fargli imparare i colpi piú famosi:
— Oh! là, là, là... colpo di jatagan in testa, puntata di lancia al fianco, pugnalata al ventre... Oh, là...! —
Giaffà aveva una grande paura.
— Ma io ho soltanto due mani... — piagnucolava — come faccio a prendere uno jatagan, una lancia e un pugnale con due mani? — E allora i maestri d’arme gli facevano vedere abilissimi esercizi, gettando un’arma per aria, infliggendo due colpi, poi quando la prima arma ricadeva ne facevano volteggiare una seconda, raccoglievano a volo la prima, fulmineamente lanciavano la terza, riafferrando la seconda.
Ma, miei cari, fra il gioco degli scacchi, fra le diecimila teste da tagliarsi, fra queste bravure di lame cinesi, avrete, scommetto, perduto la testa un po’ anche voi. Giaffà non la poteva perdere, veramente, perché, come si vuol dire, non ce l’aveva mai avuta.
Quando provò l’esercizio delle armi, invece di colpire l’avversario, ferí sé stesso sul naso: subito tutti gli furono intorno felicitandosi che aveva avuto il coraggio di ferire sé stesso. Lui non ci capiva niente e piangeva, e non vedeva l’ora d’andare a fare bòtte con i compagni: almeno sapeva che aveva un numero di armi pari, cioè due pugni e due piedi, senza tanti acrobatismi.
* * *
A costringerlo ancora piú alla fuga che già aveva progettato furono le confidenze di una vecchia serva che da giovane era stata amica di Pan-a. In una notte silenziosa, quando Giaffà non poteva prendere sonno per lo sventolío che facevano quattro schiavi con grandi ventagli di piume per difenderlo dalle zanzare — a Giaffà, anche grandi come un aeroplano, non avevano mai dato fastidio, — ecco che la vecchia serva entra nella camera sontuosa. Giaffà grida agli schiavi:
— E andate alla malora! —
A quelli non parve vero e scomparvero con le braccia indolenzite dai ventagli: si riunirono in un certo luogo, giocarono, bevvero, litigarono, si scambiarono una quantità di pugni e le loro braccia furono ancora piú indolenzite. Cosí, in generale accade, amici miei, che chi crede e protesta di essere schiavo di un lavoro, poi, quando lo lascia e va a un brutto divertimento trova una pena, una disillusione che fa rimpiangere il tempo dell’onesto operare.
La vecchia disse:
— Giaffà ascolta.
— Ti ascolto. — Batti e ribatti, in quella Corte Giaffà aveva imparato un po’ di educazione.
— Quella che dovrai sposare — seguitò con un tono misterioso la vecchia — è molto pericolosa.
Giaffà si passò la mano sul collo.
— Sai che cosa ha fatto una notte? Ha rifiutato, e se non fosse stato svelto a fuggire l’avrebbe fatto condannare nelle maniere che tu sai, un fidanzato molto importante. E allora? perché non scappi anche tu?
— Subito.
— Il fidanzato molto importante aveva detto che secondo il costume dei suoi avi bisognava dormire su stuoie felpate: lei gli rise in faccia. Allora lui, piano piano, con certi suoi consiglieri entrò nella camera di lei: la bella Torí-li dormiva beatamente con le braccia incrociate sulla testa di ebano, sopra un letto alto quasi fino al soffitto, fatto di quindici materassi: ed erano materassi di lana morbida, altri di piume di cigno, altri, sai Giaffà? di quella peluria delle canne.
Giaffà, a dire il vero, non ricordava la peluria, ma soltanto le canne con cui aveva sempre battagliato con i suoi indimenticabili amici della strada.
— La bella Torí-li dormiva e il fidanzato, ascolta, mise una fava sotto l’ultimo materasso e fuggí. Io, Giaffà mio, non ti so raccontare che notte tremenda passò la fanciulla: smaniava, accendeva la lanterna, la spegneva, la ruppe, si appoggiava sui gomiti, si abbatteva sui cuscini, e quasi stava per morire, tanto la sua pelle era fine che sotto quindici meravigliosi materassi sentiva e la pungeva una fava. Pensa che tipo, Giaffà mio! Addio! saluta tua madre e dille che le voglio molto bene.
Quali sono le madri che non si vogliono bene fra di loro?
Ma Giaffà non andava tanto per il sottile, cari miei. E vi dirò subito che tirati fuori i suoi vecchi panni, se ne vestí, gettò all’aria tutti i cinquanta vestiti che gli avevano preparati e profumati di odor di sandalo, e, in silenzio, dopo aver baciato la vecchia serva se ne andò giú nel giardino a prendere una grossa pietra. Poi, salí nella camera della sua promessa sposa, con una scaletta di bambú arrivò sino in cima ai quindici materassi, pose sotto il fianco di Torí-li la pietra: Torí-li con un sospiro ci si voltò sopra e seguitò a russare. So, ragazzi miei, che voi avete il sonno profondo: ma francamente, con una pietra sotto il fianco c’è da star poco comodi e anche voi con la fatica dei compiti fatti (sarà vero?) vi trovereste a disagio. Io non voglio fare commenti sulla sensibilità e sui materassi di Torí-li. Forse dormiva cosí profondamente perché sognava il suo sposo.
Intanto il suo sposo, il suo intelligentissimo e dispettoso Giaffà, fuggiva nel cuore della notte: e con paura e risa sgangherate «fugge ancora», come dicono da queste parti.
* * *
Fuggí con un solo pezzo di pane, e passo passo arrivò a una città lontana che faceva rifulgere al sorgere del sole le sue cento pagode. Era bello da vedersi, cara la mia gente. Voi sapete bene come siano d’oro le strade allo spuntare del sole: perciò si dice «Il mattino ha l’oro in bocca». Ma Giaffà con tutto quell’oro della natura non aveva un soldo in tasca: e il grave è che non era nemmeno poeta da immaginarselo. Quindi con quel suo muoversi dinoccolato, con la bocca semiaperta sdentata e di persona che si meraviglia di tutto, prese per le vie della città: erano vie brulicanti, con fòndachi vistosi di stoffe e, ciò che piú importava a Giaffà, con botteghe piene di buone cose da mangiare: e il nostro sciocco aveva una grande fame. Voi pur vedendo buone cose da mangiare nei negozi siete sicuri che a casa troverete la tavola pronta: ci ha pensato la vostra mamma. Ma Giaffà? Direte: perché Giaffà non è andato da sua madre? Credo, perché aveva paura che gli ufficiali del Mandarino, dopo averli tanto mortificati, sarebbero andati a cercarlo presso Pan-a per punirlo: ma credo ancora piú che non fosse tornato dalla madre perché era matto: e se era matto che ci posso fare io?
V’erano botteghe, dunque, odorose di ogni ben di Dio. In una v’era esposto un mezzo capretto arrostito che fumava e odorava di rosmarino. Giaffà si guardò intorno, e notando tra la folla pittoresca che nessuno badava a lui, tirò fuori di sotto l’ascella il pane e lo fece inebbriare nel fumo odoroso del capretto: «Almeno, pensava, avrà un pò piú di sapore di quei difficili cibi che mi facevano mangiare per forza in casa della mia promessa sposa.» Ma il padrone della rosticceria si accorse subito del gesto di Giaffà: e lo denunziò al Tribunale perché gli aveva sfruttato il profumo dell’arrosto.
Il giudice era molto saggio: veramente sembrava una scimmia con gli occhiali: ascoltò senza battere palpebra le due parti. Ragazzi miei: non batté palpebra perché dovete sapere che un buon giudice sa, o dovrebbe sapere, che la ragione fra accusato e accusatore molte volte sta nel mezzo.
Ad ogni modo, disse:
— Giaffà, hai una moneta?
— No, signor giudice.
— E allora come fai a campare?
— La provvidenza. —
Il giudice era davvero saggio e capi che Giaffà viveva nella natura, provveduto come gli uccelli, le serpi, le capre e le tigri.
— Eccoti una moneta — disse tirando fuori un disco di rame grande come la luna piena — adesso giudicheremo la cosa. — Il padrone della rosticceria già si fregava le mani sicuro di mandare Giaffà in prigione. Giaffà era mesto e non capiva nulla: la sua ingenuità era veramente compassionevole.
Il giudice si passò la mano sulla bocca, perché era un po’ bavoso, come tutti i saggi, e sentenziò:
— Rosticciere! Giaffà ha usufruito della parvenza del tuo arrosto, cioè il fumo: così tu hai diritto di usufruire della parvenza del denaro che ti deve: cioè il suono. Giaffà, fagli sentire il suono di questa moneta. —
Giaffà non se lo fece dire due volte e batté la grande moneta sul pavimento. Tutti i presenti risero. Ed era giusto. Chi non rise fu il rosticciere che dovette pagare a Giaffà trenta monete per calunnia e se ne andò scornato. Ma qui viene il bello. Quelle monete, come ho detto, erano grandi, pesanti, del diametro di venti centimetri: così si usava. Giaffà era stanco e uscito dal tribunale, fra gli applausi, con quel carico di mezzo quintale chiamò un facchino perché gli portasse il famoso risarcimento.
— Andiamo in un albergo — gli disse.
Quando arrivarono Giaffà chiese: — Quanto è il trasporto?
Il facchino sudato e ansante, curvo sotto quel grande peso rispose:
— Trenta monete, signore. È la tariffa.
— Va bene. Tientele.
— Ma il ritorno, per Fo e Confucio, chi me lo paga?! — gridò il facchino.
Allora Giaffà non perse quel suo strano spirito: si caricò le trenta monetone sulla schiena, accompagnò il facchino sino al punto dove l’aveva ingaggiato, e gli disse:
— Trenta monete, signore. È la tariffa. —
Il facchino fuggi pregando gli Dei di non fargli piú incontrare un cliente simile.
Giaffà mangiò abbondantemente in una trattoria: carne di cane, code di lucertole, spine di fichi d’india: vivanda rarissima e costosissima quest’ultima. Poi con le monete che gli erano rimaste andò a giocare a piastrella con i primi ragazzi che ebbe l’occasione d’incontrare. Naturalmente lo truffarono e gli portarono via tutto il denaro: allora sempre piú stanco andò a dormire in un prato verde e vermiglio. Quando si destò vide una curiosa compagnia di uomini bianchi, gravi, che parlavano in una lingua dolcissima: seppe che si trattava di un famoso esploratore italiano chiamato Marco Polo. Si accodò alla compagnia e venne da noi: si sposò, ebbe figli: cosí per le sue discendenze non c’è da meravigliarsi che anche oggi s’incontrino Giaffà piccoli e grandi.