Giaffà/Prime avventure di Giaffà

Prime avventure di Giaffà

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Prime avventure di Giaffà
Ultime avventure di Giaffà

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Prime avventure di Giaffà.

Sedetevi in circolo, miei piccoli amici, e state attenti. Non fate baccano, non vi urtate, altrimenti io non racconto nulla. Sentite che pace, che silenzio, intorno per il giardino?

Mentre io racconto, odorate il profumo delle rose e dei gigli più alti di voi. Nei vostri occhi è un limpido splendore azzurro: è il riflesso del cielo, o la gioia per il promesso racconto?

Dunque, immaginiamoci che il fatto succeda in Cina, un paese un po’ lontano da qui, ma assai di moda. Cominciamo.

C’era una volta in Cina — in una città bianca vicina al mare, governata da un Mandarino1 [p. 8 modifica] che aveva gli occhi storti, un codino lungo come una serpe, e una veste di raso rosso a rose gialle, — una povera vedova. Il Mandarino si chiamava Sci-teu, la povera vedova Pan-a. Il marito negoziante aveva lasciato a Pan-a solo una pezza di tela e una croce di figlio, che tutti, a ragione, chiamavano lo scemo, benché il suo vero nome fosse Giaffà. Questo Giaffà era il più bel tipo di matto che si possa immaginare: ogni giorno ne faceva una, tanto che sua madre doveva usare grande pazienza per sopportarlo. Ella diceva, che vivevano nell’estrema miseria per colpa di Giaffà, il quale a vent’anni giocava ancora coi monelli delle vie. Con quel suo codino arruffato e le vesti sporche, sembrava un gatto arrabbiato.

Un giorno, in cui mancava il necessario per pranzare, la povera donna si decise di vendere la pezza di tela che custodiva religiosamente in memoria del defunto marito. Ma la fame, a quanto pare, costringe anche a disfarsi dei ricordi cari: quindi Pan-a chiamò Giaffà e gli disse:

— Figlio mio, va e vendi questa tela; ma bada, non farne una delle tue; vendila a chi meno ciarla, perché chi chiacchera molto non compra mai. Se hai fortuna, compreremo anche il thè. Va, e [p. 9 modifica] che Sciang-ti ti aiuti — (Sciang-ti vuol dire Dio; ricordàtelo).

Giaffà si caricò la tela sulle spalle, e per le strade gridava a squarciagola:

— Comprate tela! comprate... comprate tela! Ehi, comprate tela!...

— Giaffà, Giaffà, — tutti gli chiedevano. — A quanto vendi la tela? Vieni qua che la compro io.

— La vendo a chi non ciarla! — rispondeva, e tirava dritto.

Siccome tutti parlavano, egli che, al solito, aveva compreso a modo suo l’avvertenza di Pan-a, arrivò fuori di città senza aver venduto un solo palmo di tela.

Ed ecco che fuori delle mura, in un vecchio giardino, fra le rose inselvatichite, vide una statua di stucco a cui il vento faceva dondolar la testa mezzo staccata dal busto.

— Buona donna — disse Giaffà, rivolgendole seriamente la parola, col volto sollevato — comprate tela qualche volta?

— Sí — accennò col capo la statua mossa dal vento.

— E quanto me la pagherete, voi? — riprese [p. 10 modifica] Giaffà, lieto di aver trovato finalmente chi comprava senza ciarlare.

— Sí — continuò a fare l’impassibile e vecchia testa bianca.

— Ah, volete dire che me la pagherete bene.

— Sí.

— Avete molti denari, voi?

— Sí.

— Mi pagherete oggi, o domani?

— Sí.

— Ah, volete dire che pagherete domani? Allora lascio qui la tela, e tornerò domani alle dieci. Venite col denaro - sapete, voglio trenta monete d’oro con l’immagine di Confucio2.

— Sí, sí.

— Bene, siamo intesi: tornerò domani. Che brava donna siete voi, mia cara! — conchiuse Giaffà, deponendo la tela ai piedi della statua che continuava a far sempre sí sí. — Mi darete il denaro e compreremo il the.

— Sí, sí, sí. —

Giaffà tornò allegro a casa e raccontò ogni [p. 11 modifica] cosa alla madre. La povera donna impallidí mortalmente.

— Sciang-ti! Sciang-ti! — si diede a gridare, con le mani fra i capelli: — Lo sapevo che avresti fatto cosí! Povera me! Come farò io? E intanto non abbiamo di che mangiare, non abbiamo una goccia d’olio per il lume! Va’ presto e riprendi la tela, subito va’! Sei lí, incantato? Che i sorci ti rodano il codino, sei ancora lí? Bada Giaffà, io ti sono madre e ti voglio bene, ma questa volta non ti perdono. Se non riporti la tela, ti accuso al Mandarino e ti faccio dare cento colpi di bastone. Va’ presto.

— Ooooh! — fece Giaffà senza scomporsi, sicuro del fatto suo. — Andrò domani e porterò un canestro di monete. —

Pan-a si mise a piangere: Giaffà per quel giorno non volle andare: entrambi poi, rimasero tutto il giorno senza mangiare. L’indomani Giaffà munito d’un piccolo canestro tornò nel vecchio giardino. La tela naturalmente era sparita, ma la statua c’era ancora e col capo faceva sempre . Ma per quante richieste e minacce Giaffà le rivolgesse, non accennava a sborsare le trenta monete d’oro. Lo scemo allora cominciò ad alterarsi, [p. 12 modifica] pensando con terrore al Mandarino dalla veste rossa a rose gialle, e soprattutto ai cento colpi di bambù.

Riempí allora di ciottoli il canestro, e rivolto alla statua le fece quest’ultima ingiunzione:

— Sentite un po’, buona donna, o mi pagate con le buone o mi pagate con le cattive. Mia madre ha minacciato d’accusarmi al Mandarino e farmi dare cento bastonate che io non voglio ricevere. Perciò pagatemi. Non tornerò a casa senza il denaro. Pagate sí o no, subito?

— Sí, sí.

— Sí! Sto fresco io col vostro sí, se non vi muovete piú. Restituitemi almeno la tela. L’avete mandata a farvi delle camicie? Ebbene, datemi i danari, allora! Siete stupida? Ve la darò io la vostra stupidaggine maligna! Avanti mia cara, vedete questi ciottoli? Li vedete sí o no? Sí? Ebbene, io conto sino a trenta, e se, arrivato a quel numero, voi non sborsate le trenta monete d’oro, io vi rompo la testa con questi qui. Avete inteso sí o no? Sí? — E cominciò a contare: Uno, due, tre, quattro, cinque, sei...

La statua diceva sempre sí, ma denari non ne sborsava. Arrivato a trenta, vista inutile ogni buona ragione, Giaffà cominciò a lanciar furiosamen[p. 13 modifica]te i ciottoli sul bianco volto della povera statua.

Era verde d’ira, e si meravigliava come neppure allora la statua parlasse o pagasse. Ma a un tratto il viso di Giaffà s’illuminò di gioia, e i suoi occhietti obliqui, color rame, brillarono. A furia di picchiare, la testa della statua si era fracassata, e cadendo al suolo aveva sparso un tesoro nascosto in lei; una grande quantità di monete d’oro che avevano precisamente per effigie la testa del santo filosofo Confucio.

Giaffà le raccolse con calma, le mise entro il suo paniere, mormorando:

— Ero sicuro che doveva pagarmi! — Sopra le monete pose una manata di spine, coprí tutto con un fazzoletto, e col prezioso paniere al braccio s’avviò allegramente a casa.

— Giaffà, Giaffà, — tutti gli chiedevano, — che cosa hai dentro quel paniere?

— Toccate, toccate! — rispondeva sogghignando.

Tutti toccavano, e punti dalle spine saltavano indietro gridando:

— Ahi! la mia mano!

— Eh, ve lo dicevo io di non toccare! — [p. 14 modifica] esclamava Giaffà ridendo scioccamente. Ma non permetteva che si scoprisse il paniere.

Cosí arrivò a casa. Vedendolo senza la tela Pan-a si disponeva a sgridarlo nuovamente, quando Giaffà, che rideva sempre, lasciò cadere al suolo il paniere e le monete si sparpagliarono, rotolando e splendendo.

— Ve lo avevo detto io che quella donna pagava oggi? — strepitava Giaffà. Pan-a si chiedeva se tutto ciò non fosse un sogno.

— Come, come è accaduto?

Giaffà raccontò ogni cosa, mentre, china al suolo, Pan-a raccoglieva tremando le monete d’oro.

Quando le ebbe tutte raccolte, abbracciò il figliuolo raccomandandogli:

— Non dir nulla a nessuno, figlio mio. Tieni la bocca chiusa. Se il Mandarino viene a sapere che abbiamo trovato un tesoro, ci piglierà le monete e ci farà anche bastonare.

Nascose bene il paniere, e uscì per comprare qualche cosa.

Intanto Giaffà, che si era trattenuto due monete, scese nella strada e giocando coi compagni le mostrava a tutti, raccontando minutamente l’avventura. [p. 15 modifica]

Pan-a quel giorno comprò fave e le cucinò con lardo; ma giunta l’ora del pranzo, invano chiamò Giaffà dalla finestra. Egli giocava ancora; e non volle salire a nessun costo.

— Ebbene, — gli disse Pan-a dalla finestra, — avvicinati almeno ch’io possa gettarti una fava e un pezzetto di lardo.

Giaffà si pose sotto la finestra, col viso sollevato e la bocca aperta, — e la fava e il pezzetto di lardo gli caddero giusto in bocca.

Il gioco gli piacque, e volle quindi che sua madre continuasse a gettargli fave e lardo.

Pan-a, figuratevi, quel giorno era in vena di contentarlo, e così seguitarono per quasi un quarto d’ora, finché egli fu sazio. Poi riprese a correre per le vie, narrando a chi vedeva e a chi non vedeva, l’avventura della tela.

Cosí accadde ciò che Pan-a temeva.

Il Mandarino dalla veste rossa a rose gialle, venne a sapere che Giaffà aveva trovato un tesoro, e siccome i tesori appartenevano all’Imperatore della Cina, tosto un ufficiale si presentò in casa di Pan-a ordinandole di recarsi il domani col figlio dal Mandarino.

Pan-a indovinò subito di che si trattava; [p. 16 modifica] nascose ancor meglio il paniere, e si avviò con Giaffà dal Mandarino.

— Tira la porta, e vienimi dietro — disse al figliuolo, nell’uscir di casa.

Invece di chiuder la porta, come Pan-a aveva voluto dire, l’idiota la tirò dai cardini e caricatasela sulle spalle andò dietro sua madre. La povera donna s’accorse di questa nuova sciocchezza solo quando furono nella sala ove il Mandarino, tutto avvolto nella sua veste rossa a rose gialle, faceva pubblica giustizia.

Dopo mille inchini di Pan-a, che mormorava umilmente:

— Von-fo! Von-fo!3, cominciò l’interrogatorio.

Naturalmente la povera vedova negò recisamente d’aver trovato un tesoro; — negò anche Giaffà, che pure aveva una pazza voglia di raccontar tutto; ma quando il feroce Mandarino minacciò di mettergli il kia, specie di collare di legno che si usa in Cina in segno di disonorante punizione, l’amico spifferò ogni cosa con i minimi particolari. [p. 17 modifica]

Pan-a si vide perduta.

Il Mandarino la fulminava coi suoi occhietti storti, ed era cosí sdegnato che il codino gli andava su e giú come una coda di gatto arrabbiato. Invano la povera vedova faceva osservare come Giaffà fosse idiota, come era impossibile che una statua comprasse tela, e via via: alla fine accennò al modo col quale Giaffà aveva chiuso la porta, e il Mandarino, vistala davvero appoggiata alla parete della sala, fece una smorfia che poteva esser un sorriso. Ma tutto ciò non lo convinse.

Stava anzi per pronunziare la terribile sentenza, annunziando che se le monete non venivano consegnate, avrebbe esiliato, oltreché bastonato, madre e figlio, quando una strana risposta di Giaffà salvò tutto.

— Dimmi, — domandò il Mandarino, — sai precisarmi il giorno in cui hai trovato il tesoro? —

Giaffà pensò: poi rispose con sicurezza:

— Sí! Era il giorno che pioveva fave cotte e lardo! —

Il Mandarino fece una serie di smorfie una piú orribile dell’altra — rideva a piú non posso — e pienamente rassicurato della stoltezza di Giaffà, rimandò liberi Pan-a, piú morta che viva, e il [p. 18 modifica] figlio che si caricò tranquillamente la porta sulle spalle.

* * *

E da quel giorno madre e figlio ripresero la loro vita oscura, calma nei giorni in cui Giaffà si contentava di giocare coi monelli delle vie. Ma un bel giorno egli ne fece una piú grossa delle altre.

Da quando avevano il famoso panierino, Pan-a e il figliuolo si permettevano di tanto in tanto qualche pranzo di lusso.

Ora, un giorno comparve sulla loro mensa un magnifico gallo, che la vedova aveva squisitamente cucinato. A Giaffà, cui la carne di gallo era del tutto ignota, piacque tanto che chiese alla madre cosa mai fosse.

— È un canta-di-notte, — rispose Pan-a scherzando.

Giaffà comprese a suo modo: non disse nulla, e continuò a mangiare avidamente, senza mai potersi saziare di quella squisita carne. Perché dovete sapere che agli altri difetti egli univa la [p. 19 modifica] ghiottoneria e l’ingordigia. Mangiando pensava: — Bisogna che di questi «Canta-di-notte» io ne procuri uno che ci duri una settimana. È cosí buono... cosí buono! Ha uno speciale sapore!... —

Venuta la notte, cosa fa? S’arma di un grosso randello e di un coltello affilato, e si apposta dietro la porta di casa.

Ogni notte era abituato a passare per quella via un giovinotto da poco sposo, che abitava un po’ piú in là della casa di Pan-a: e cantava, cantava, per annunziar da lontano alla sposa il suo ritorno. Si chiamava Sciú-cia-ciau. Cosa significa questo nome? chiedete. Ma, veramente sono imbarazzata nel rispondervi. Forse qualche cosa di poco allegro, nonostante quell’ultimo ciau. Ad ogni modo quel giovinotto era un disgraziato.

Sentite che gioco gli fece Giaffà. Egli era dunque dietro la porta. Appena udí la voce di Sciú-cia-ciau, sbucò sulla via e atterrò col randello il misero cantatore. Poi lo trascinò entro casa, e chiamò ridendo la madre.

— Pan-a, Pan-a! Ecco un bel canta-di-notte! Ne avremo per una settimana.

— Che hai tu fatto, che hai tu fatto! — [p. 20 modifica] cominciò a gridare la povera donna. — Ah, noi siamo perduti!

— Come? — disse Giaffà con meraviglia. — E non è un canta-di-notte? E voi non ne avete ucciso uno?

— Sciang-ti! — gemeva Pan-a strappandosi i capelli: — aiutami tu, dammi forza e pazienza! Che cosa ho fatto io per procurarmi l’ira tua? E seguitava a lamentarsi disperatamente, mentre l’idiota la guardava a bocca spalancata. Pensava:

— Mia madre è matta! Invece di rallegrarsi per un cosí bel colpo! —

Intanto il baccano cominciava a svegliare qualche vicino.

Pan-a se ne accorse, e la paura del pericolo che correva, le ridonò un po’ di sangue freddo. Chiuse bene la porta e comandò a Giaffà di caricarsi il morto sulle spalle e gettarlo in un profondo pozzo che era nel cortile; Giaffà obbedí, poi andò a letto mormorando: — Pan-a è matta. Ne avremmo avuto per una settimana! —

Pan-a intanto lavò le macchie di sangue, e gettò nel pozzo una capra.

Pan-a era una donna astuta, e sapeva quel che faceva. Spuntava appena l’alba quando la [p. 21 modifica] porta tremò di sonori pun! pun! La vedova aprí, e non senza terrore si trovò di fronte il Mandarino dalla veste rossa a rose gialle, molti ufficiali, e quasi tutti i vicini — che avevano fatto la spia, — e la vedovella di Sciú-cia-ciau che piangeva e gridava:

— È qui, è qui, l’hanno assassinato! —

I vicini confermavano l’accusa, quindi il Mandarino, nonostante le proteste e i salamelecchi di Pan-a, ordinò di perquisire la casa. Non trovarono nulla. Ma restava da ispezionare il pozzo. Il Mandarino chiamò a sé Giaffa e gli chiese:

— L’avete gettato nel pozzo?

— L’abbiamo gettato nel pozzo, — disse Giaffà.

Ora, chi entrava nel pozzo? Nessuno volle entrare. Giaffà disse:

— Entro io.

— Tu non entri! — gridò Pan-a, fíngendo paura.

Ma Giaffà, legato con una corda, vi scese. Le due vedove piangevano di comune accordo.

— L’ho trovato! — gridò Giaffà dal fondo del pozzo.

— Oh, lo sposo mio, lo sposo mio! — piangeva la vedovella. [p. 22 modifica]

Il Mandarino spiegò le falde della sua veste rossa a rose gialle, e disse:

— Ora bisogna che tu dica i connotati.

Tutti ascoltavano intenti. Giaffà gridò:

— Tuo marito quanti occhi aveva?

— Mio marito aveva due occhi.

— Anche questo. Tuo marito aveva naso?

— Mio marito aveva naso.

— Anche questo. Tuo marito quante zampe aveva?

— Mio marito aveva gambe, e ne aveva due.

— E questo ne ha quattro.

Tutti sorrisero, ma pensarono: saranno comprese le braccia.

— Tuo marito era peloso?

— Mio marito non era peloso.

— E questo è peloso. Tuo marito aveva le corna?

— Sciang-ti! Sciang-ti! — la donna urlò battendosi i pugni sul viso. — Che ho mai udito? Mio marito avere le corna?

— E questo qui ha le corna! —

E tutti risero: solo Pan-a continuò a piangere, la vedova a urlare, il Mandarino a fare smorfie.

Ora, quale non fu la generale meraviglia [p. 23 modifica] quando Giaffà venne fuori con la capra morta? Il Mandarino rimase convinto dell’innocenza di Pan-a e del figliuolo, — ma quest’ultimo non seppe mai capacitarsi come in poche ore il corpo di un uomo si fosse trasformato in quello d’una bestia.

* * *

Un’altra volta la madre di Giaffà preparò per il desinare un magnifico sanguinaccio di montone. Giaffà se ne leccò le dita tanto gli piacque; e un giorno che si trovava solo in casa andò al mercato, comprò un sanguinaccio e lo mise a bollire cosí sporco com’era. Al ritorno sua madre guardò che cosa bolliva dentro il pajolo, e vedendo quell’orrore si mise a gridare.

— Povero il mio pajolino! bisognerà andare sulla riva del mare per pulirlo!

— Ci vado io, ci vado io! — rispose Giaffà.

— Bene, va, e che tu lo pulisca finché ci si veda rispecchiato il viso.

— Finché ci si veda il viso, finché ci si veda [p. 24 modifica] il viso... — ripeteva Giaffà, per non scordarsene, avviandosi verso il mare.

Là giunto si curvò, prese dell’arena e cominciò a sfregare. Sfrega che ti sfrego, finí col far distaccare il fondo del pajolino: allora se lo accostò al volto, in modo che il suo viso appariva tutto nel circolo del pajolino sfondato, e si toccò il naso.

— Credo che ci si veda, — pensò, ma non ne fu ben sicuro.

Passava una barca di pescatori.

— Approda! approda! — gridò Giaffà; — e quando la barca, credendolo i pescatori un naufrago, fu vicina, egli chiese:

— Si vede il mio volto attraverso questo pajolino?

— Bestia! — gli gridarono i pescatori: — per questo ci hai fatto approdare?

E uno dei pescatori saltò sulla riva, diede a Giaffà un buon numero di schiaffi, e gli disse:

— Un’altra volta devi dire: buona corsa! buona corsa!

Giaffà se n’andò via tristemente. Di lí a poco vide un cacciatore che puntava l’arco contro una lepre. [p. 25 modifica]

— Buona corsa; buona corsa! — gridò. La lepre fuggí: il cacciatore s’avvicinò a Giaffà, gli diede tanti calci, e gli disse:

— Un’altra volta ti devi fermare e dire a bassa voce: — Cento come questo! cento come questo! —

Giaffà andò via quasi piangendo, col suo pajolino sfondato infilato al braccio.

Cammina, cammina, vide un funerale; si fermò e cominciò a mormorare:

— Cento come questo, cento come questo!

Qualcuno lo udí, gli si fermò vicino, e quando il funerale fu lontano, prese Giaffà per le orecchie, gliele tirò sino a farlo diventar rosso, e gli disse:

— Sacrilego, cuore di pietra, quando un’altra volta ti capita, devi inginocchiarti e pregare. —

Il disgraziato si mise a piangere e andò via deciso in cuor suo di non lasciarsi piú bastonare né tirar le orecchie. E vide un povero cane morto, buttato su un letamajo: subito s’inginocchiò e si mise a pregare. E rimase così finché passò un contadino, che si mise a ridere.

— Perché ridi? — chiese Giaffà.

— Tu sei un matto — disse il contadino — [p. 26 modifica]ed io non ti bastono per ciò, ma in verità te lo meriti.

Giaffà s’alzò e si mise a fuggire.

— Va, va, — gli gridò il contadino — se un’altra volta ti capita, devi scavare una fossa e seppellirlo: altrimenti avrai molte bastonate.

Giaffà restò talmente convinto di quanto gli diceva il contadino che quando, dopo circa mezz’ora di viaggio, vide un frate dormire all’ombra d’un albero, in una campagna coltivata, prese una vanga che si trovava lí accanto e scavò una fossa.

Al rumore il frate si svegliò: era un missionario cristiano, e domandò con dolcezza a Giaffà che cosa faceva. Avuta la risposta, sorrise benevolmente; poi volle accompagnar Giaffà a casa sua. Chiese alla madre dell’idiota se permetteva che Giaffà vivesse un po’ di tempo nella Casa dei Missionari, ove sarebbe stato istruito o almeno dirozzato.

Figuratevi! A Pan-a non parve neanche vero; e cosí Giaffà andò ad abitare dai frati, che lo convertirono alla fede cristiana.


  1. Il Mandarino è una specie di Prefetto o di Sindaco.
  2. Un santo filosofo cinese.
  3. Mille felicità! Mille felicità!