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52 | grazia deledda |
so giudicheremo la cosa. — Il padrone della rosticceria già si fregava le mani sicuro di mandare Giaffà in prigione. Giaffà era mesto e non capiva nulla: la sua ingenuità era veramente compassionevole.
Il giudice si passò la mano sulla bocca, perché era un po’ bavoso, come tutti i saggi, e sentenziò:
— Rosticciere! Giaffà ha usufruito della parvenza del tuo arrosto, cioè il fumo: così tu hai diritto di usufruire della parvenza del denaro che ti deve: cioè il suono. Giaffà, fagli sentire il suono di questa moneta. —
Giaffà non se lo fece dire due volte e batté la grande moneta sul pavimento. Tutti i presenti risero. Ed era giusto. Chi non rise fu il rosticciere che dovette pagare a Giaffà trenta monete per calunnia e se ne andò scornato. Ma qui viene il bello. Quelle monete, come ho detto, erano grandi, pesanti, del diametro di venti centimetri: così si usava. Giaffà era stanco e uscito dal tribunale, fra gli applausi, con quel carico di mezzo quintale chiamò un facchino perché gli portasse il famoso risarcimento.
— Andiamo in un albergo — gli disse.
Quando arrivarono Giaffà chiese: