Eugenio Anieghin/Capitolo Terzo
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CAPITOLO TERZO.
Elle ètait fille, elle ètait amoureuse.
“Dove corri? Ahi, poeti! poeti!.....”
“Addio, Anieghin, è tempo che io vada.”
“Non ti trattengo. Ma dove passi la serata?”
“Dai Larin.”
“Mi fa specie. Come mai non t’incresce di perdere in tal guisa i tuoi istanti?”
“Niente affatto.”
“Non so capire il tuo gusto. Mi pare di vederli. Non è così?... Una sempliciotta famiglia russa; gran cordialità per gli invitati; tortelli di panna; i soliti ragionamenti intorno alla pioggia, al lino e al bestiame”
“Non ci vedo nessun male.”
“Il male, caro amico, è la noia.”
“Io fuggo le vostre riunioni eleganti; preferisco una società senza pretensione ove posso....”
“Ecco daccapo la bucolica!... Basta, basta per amor del cielo. Tu parti.... ma odi, Lenschi! non potrei vederla io questa Fillide, oggetto dei tuoi pensieri, delle tue lacrime, delle tue rime, eccetera? Presentami.”
“Tu mi beffi.”
“Oibò.”
“Acconsento.”
“Quando?”
“Adesso subito.”
“Le donne ci accoglieranno con piacere. Andiamo.”
I due amici entrano, e si presentano. La famiglia li colma di tutte le gentilezze proprie dell’antica ospitalità. Si imbandiscono i tortelli nei piattini, e si colloca una brocca d’acqua di mirtillo sopra un desco incerato.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Tornano a casa nel loro droschi per la strada più corta, e con gran fretta.
Ora, ascoltiamo di nascosto il dialogo dei nostri due personaggi.
“Che hai, Anieghin? Tu sbadigli?”
“È un vizio, Lenschi.”
“Sei forse più annoiato di prima?”
“No, sempre allo stesso modo.... Fa buio per la campagna. Cammina più presto, cocchiere! Che brutti posti! A proposito: la Larin è una buona vecchiotta molto amabile.... ma ho paura che quell’acqua di mirtillo m’abbia a danneggiare lo stomaco.... Dimmi, chi è Taziana?”
“È quella ragazza melancolica e taciturna come Svetlana....1 quella che è entrata e s’è messa a sedere alla finestra.”
“Come mai ti sei innamorato della minore?”
“Perchè?”
Io avrei prescelto la maggiore, se fossi poeta come sei tu. Non v’è vivacità nella fisonomia d’Olga. Rassomiglia alla Madonna dei Van Dyck. Ha il viso tondo e rosso come quella stolta luna, laggiù su quello stolto orizzonte.”
Vladimiro rispose seccamente, e non fiatò più parola per tutto il resto del cammino.
Frattanto l’apparizione di Anieghin nella casa dei Larin produsse una grande impressione, e diede che ciarlare a tutti i vicinanti. Si almanaccarono mille congetture; ognuno chiacchierò, burlò, giudicò senza giudizio, e pronosticò un marito alla Taziana. Alcuni persino asserirono, che il matrimonio era già stabilito, ma differito per il motivo che non si era potuto trovare un anello di moda. In quanto allo sposalizio di Lenschi, i vicinanti l’avevan già da gran tempo combinato.
Taziana, non poteva udire senza stizza quei pettegolezzi; eppure in secreto, provava una certa dolcezza nel pensarvi. L’idea del matrimonio le s’innesto nel cuore, e poco a poco involontariamente s’innamorò. Così il seme caduto nel seno della terra, germoglia sotto i raggi di primavera. Da un pezzo di già, l’imaginazione di Taziana, maturata dall’ozio e dalla tristezza, appetiva un pascolo costante; da gran tempo, una inquietezza profonda angustiava quel giovine petto; e quell’anima inesperta aspettava qualcheduno.
Egli venne. Taziana aprì gli occhi, esclamò: È desso! Ormai i giorni e le notti, il sonno e la veglia, sono pieni di lui; tutto parla di lui senza posa all’animo della gentil giovinetta. Il resto le viene a noia, e l’aura dei complimenti, e le cure premurose dei servitori. Immersa nella meditazione e nel dolore, non attende più agli amici di casa; maledice la loro venuta inopportuna, e la loro dimora prolungata.
Con che ardore essa legge ora i romanzi sentimentali! Con che voluttà gusta ora i raggiri e gli inganni dei seduttori famosi! Tutti quei caratteri ideali foggiati dai poeti, l’adoratore di Giulia Volmare,2 Malec Adel, De Linard, il martire Werther, e l’impareggiabile Grandisson, che sembra a noi un eroe soporifico, si condensarono tutti, nella mente di Taziana, in un solo tipo, si fusero tutti nella persona di Anieghin.
Taziana, figurandosi essere la protagonista dei suoi romanzi prediletti, ora Clarice, ora Giulia, ora Delfina,3 passeggia sola pei boschi con quei pericolosi libri. In essi cerca e trova l’espressione della fiamma secreta che nutre in seno, e di quei sogni che provengono da una troppa pienezza di vita. Essa sospira, e appropriandosi le estasi e gli strazi altrui medita e compone sconsideratamente una lettera diretta al caro idolo suo.... Ma il nostro amico, comunque egli la pensi, non è un Grandisson.
Gli antichi scrittori di romanzi, in uno stile che consuonava al tuon dell’argomento, ci rappresentavano il loro protagonista come un vero modello di perfezione, dotato d’un cuore sensibile, d’un ingegno sublime, d’un aspetto incantatore, ma contuttociò perseguitato dall’iniquità del mondo. Acceso d’una passione sincera e illibata, animato d’un continuo entusiasmo, egli era ognor pronto a sacrificar sè stesso per gli altri; e verso l’ultimo capitolo del libro, il vizio vedevasi sempre punito, e la virtù sempre ricompensata.
Ma oggidì come siam decaduti! La morale ci fa l’effetto d’un narcotico. Il vizio solo ci sembra piacevole in sè stesso e nei romanzi nei quali trionfa. Le chimere della Musa britannica turbano il sonno delle fanciulle di men di dodici anni, che han sempre presente al pensiero o il fantastico Vampiro, o Melmoth l’oscuro avventuriere, o il Giudeo errante, o il Corsaro, o il misterioso Sbogar.4 Almeno Lord Byron con lodevole audacia improntò di romantica mestizia l’egoismo disperato.
Amici cari, qual ne sia la cagione? Forse un dì io cesserò di verseggiare, se così vuole il cielo. — Un altro demone s’impossesserà di me, e sprezzando le minacce di Febo, mi umilierò fino a trattar la vile prosa. Farò succedere ai miei poemi arditi un romanzo modesto. Non dipingerò in stile orrendo, nè tormenti atroci, nè delitti secreti, — ma vi racconterò con semplicità le tradizioni di qualche famiglia russa, le illusioni ridenti dell’amore, e i costumi dei nostri antenati. Vi riferirò i saggi consigli d’un buon padre, o d’un buono zio; gli incontri dei giovanotti in riva a un ruscello, sotto un vecchio tiglio; gli spasimi crudeli della gelosia e della separazione e le lacrime della riconciliazione.... Attraverserò l’amore dei miei personaggi con ogni sorta d’ostacoli, poi finalmente li cingerò del sospirato serto nuziale. Mi ricorderò allora le espressioni appassionate, le dichiarazioni eloquenti che mi scaturivan dal cuore nei tempi andati quando mi ponevo ginocchioni davanti alla mia bella, ma che adesso mi sono tutte quante uscite dalla mente.
Taziana, diletta Taziana! ora io piango teco che hai rimesso il tuo destino in poter d’un tiranno alla moda. Perirai, mia cara; ma frattanto ti pasci di speranze, invochi una tragica felicità, assapori il soave veleno della passione e del desiderio; mille voluttuose visioni ti svolazzano intorno; ogni luogo ti comparisce un ricetto propizio agli amorosi colloqui; e ovunque porti i passi hai davanti agli occhi la soave imagine del tuo astuto tentatore.
In preda a una tristezza ineffabile, Taziana va a gemere nel giardino. Tutto a un tratto abbassa i cigli a terra, e non può andar più oltre. Il seno suo ondeggia, il cuore palpita, le guance si tingono di porpora, il respiro vien meno sulle labbra, le orecchie ronzano, le luci si oscurano....5 Soprarriva la notte; la luna fa la ronda nella volta cerulea del firmamento; il rosignolo esala i suoi melodici trilli nella caligine dei boschi. Benchè sia tardi, Taziana non riposa, ma confavella a bassa voce colla balia.
“Non posso dormire, balia; fa così caldo qui!... Apri la finestra e pónti a sedere accanto a me.”
“Che hai, Taziana, che hai?...”
“Sono inquieta; discorriamo un poco del tempo passato....”
“Che ti dirò mai?... Sapevo molte istorie d’orchi, di malvagi spiriti e di fanciulle, ma mi son fuggite dalla mente.... quel che sapevo non lo so più.”
“Raccontami gli anni di tua gioventù. Sei mai stata innamorata?”
“Ti pare, Taziana! In quei tempi non si parlava ancora d’amore; e se ci avessi pensato, mia matrigna buon; anima m’avrebbe ammazzata.”
“Come dunque facesti per maritarti?”
“Non ne so nulla; Dio volle che così fosse. Il mio Gianni, era più giovine di me.... io avevo tredici anni. Una comare venne dai miei genitori, e finalmente mio padre benedì la nostra unione. Io piansi tanto, tanto, dalla paura! Mi intrecciarono i capelli ad onta dei miei urli, e mi menarono cantando in chiesa. Così entrai in una nuova famiglia.... Ma, Taziana, tu non mi ascolti....”
“Ahimė, balia mia, io smanio, io spasimo, io sto per singhiozzare, per prorompere in pianto.”
“Figliuola cara, sei incomodata.... Dio ci aiuti e ti conservi! Domandami quel che gradisci.... Lascia ch’io ti spruzzi il viso d’acqua santa.... Sei tutta bollente....”
“Non sono ammalata, balia, no.... io.... sai, balia.... io sono.... innamorata....
“Dio ti guardi, figliuola mia!”
E borbottando una orazione, la buona vecchia colla sua mano grinzosa, benedì la giovinetta.
“Sono innamorata,” ripetė Taziana con veemenza.”
“Ma, carina, ti dico che stai male di salute.”
“Lasciami; io sono innamorata.”
Frattanto la luna rischiarava col tremolo barlume il pallido volto, i capelli snodati, le calde lagrime di Taziana, e insieme la vecchia canuta la quale stava a sedere vicino alla fanciulla sopra uno sgabello con un fazzoletto in capo e una fascetta indosso. La natura intera raccolta e silenziosa sembrava meditare ai raggi della luna. Taziana collo sguardo fisava quell’astro e col pensiero volava chi sa dove...... Le salta in testa una idea:
“Vattene,” grida alla balia, “lasciami sola. Dammi carta e calamaio; approssima il tavolino, fra poco mi ricoricherò.... Buona notte.”
Taziana è sola. Ogni cosa tace. La luna la illumina. Colla testa puntellata sul gomito, Taziana scrive. Eugenio le sta sempre presente. Trasfonde in una imprudente epistola tutto l’innocente amore che le ferve in petto. La lettera è bella lesta.... Taziana, per chi codesta lettera?
Ho conosciuto delle belle inaccessibili, fredde e pudiche come l’inverno, inesorabili, incorruttibili, incomprensibili. Io ammirava il loro orgoglio di moda, la loro naturale virtù, e confesso che le scansavo e fuggivo con orrore perchè parevami legger scritto sulla loro fronte: Lasciate ogni speranza.... come sulla soglia dell’inferno. Ispirare amore lo stimano una calamità; e loro diletto è spaventare i cuori. Può darsi che abbiate incontrato di cotali donne sulle sponde della Neva.
Ho veduto fra una turba di adoratori obedienti altre dee capricciose, egoiste, ed indifferenti ai sospiri e alle lodi. Ma qual fu il mio stupore quando m’avvidi che se colla loro severità tremenda scacciavano l’amante timido, tosto lo richiamavano indietro a forza di finezze, e di promesse! E il credulo giovinetto, accecato dall’amore, tornava a ripigliare le antiche catene.
Perchè sarebbe Taziana più colpevole? Forse perchè, nella sua cara semplicità, essa non s’accorge del suo fallo e confida pazzamente in un dolce errore? Perchè essa ama da novizia e cede all’attrazione del primo sentimento? Perchè le largi il cielo imaginazione inquieta, ingegno fervido, volontà risoluta e ostinata, cuore tenero e ardente? Non le perdonerete forse la sua imprudenza?
Le civette giudicano con sangue freddo. Taziana ama per davvero, e da bambina che è, s’abbandona all’amore senza riserva nè condizioni. Essa non calcola; non dice “Aspettiamo. La dilazione accresce pregio ai favori. Ritardando, lo prenderemo più sicuramente al laccio. Prima di tutto stimoliam la vanità col pungolo della speranza; sbraniamo poi il cuore col dubbio; e incendiamolo finalmente di gelosia. Senza di ciò, il prigioniero, tosto satollo di voluttà, cercherebbe ad ogni istante di rompere i suoi ceppi.”
Ecco ch’io mi imbatto in una difficoltà. Per salvar l’onore del mio paese natío, io dovrò tradurre nel nostro idioma la lettera di Taziana. Questa fanciulla non leggeva i nostri giornali e durava gran fatica ad esternare i suoi concetti nella lingua materna; quindi è che essa scriveva in francese.... Che ci ho che fare io? Convien ch’io lo confessi. Finora le nostre signore non han mai espresso il loro amore in volgare russo e questa superba favella è rimasta fin qui estranea allo stile epistolare. So che si vogliono obligare le donne a legger libri russi. In coscienza ciò mi sgomenta. Come mai figurarsi una bella signora col Bene intenzionato fra mano?6 Lo domando a voi, giovani poeti; non è egli vero che tutte le leggiadre seduttrici alle quali, pei vostri peccati, dirigete di nascosto le vostre rime, capiscono a stento e stroppiano deliziosamente la lingua moscovita? Non è egli vero che una lingua straniera è divenuta loro più familiare della propria?
Dio mi liberi dall’incontrare in una festa di ballo o sul verone, all’ora della partenza, un seminarista con uno scialle giallo o un accademico con una scuffia da dama. Siccome aborro un bel labbro vermigliuzzo privo di sorriso, così detesto il parlar russo senza solecismi. Forse un dì fia, in cui, per mia sventura, una nuova generazione di figlie d’Eva, cedendo alla supplice voce della stampa, si degnerà di studiar la grammatica. Allora i versi saranno di moda. Ma io?... che importa! Io rimarrò affezionato agli usi antichi. Un balbettío scorretto e indolente, una pronunzia incerta e tremebonda mi ecciterà nel seno la stessa emozione di prima. Niente potrà guarirmi di tal difetto. I gallicismi mi son cari come i primi errori di mia gioventù, come i poemetti di Bagdanovis.7 Ma basta così. È tempo ch’io mi occupi della lettera di Taziana. Ho impegnato la mia parola, — eppure, eppure — sto in dubbio se la manterrò. So che le molli elegie di Parny8 non godon più la stima comune.
Cantor dell’allegria e della melancolia, o Baratinschi! Se tu fossi qua, ti farei una domanda indiscreta. Ti pregherei di tradurre in armoniosi metri la bizzarra prosa d’una fanciulla innamorata. Dove sei? Avánzati. Io ti cedo riverente ogni mia prerogativa. Ma divezzato dagli elogi, egli erra solo sotto il cielo finnico, e non ode il mio appello.
Lo scritto di Taziana è li innanzi a me. Io lo conservo come una reliquia; lo leggo con un secreto affanno e non so saziarmi di scorrerlo. Chi potè insegnare a Taziana quella eloquenza piena di venustȧ e di calore? Chi le ispirò quello stile grazioso e patetico, persuasivo e funesto? Non saprei indovinarlo. Ecco intanto una traduzione insufficiente e imperfetta, un fievole eco di quella musica del cuore; insomma il Freischuetz,9 cantato da una compagnia di principianti.
Lettera di Taziana a Anieghin.
«Io vi scrivo. Che posso io far di più? Che posso io dire di più? Ora, voi avete il diritto di disprezzarmi. Ma spero che compatirete alla mia misera sorte e che non mi ci abbandonerete. Da prima, io voleva tacere. Credetemi: non vi avrei svelato la mia debolezza, se avessi potuto lusingarmi di vedervi nella nostra villa di quando in quando; per esempio una volta per settimana, e di udire almeno la vostra voce, di scambiar qualche parola e poi pensare sempre, sempre a voi, a voi solo, sino al nuovo incontro. Ma si dice che siete misantropo, che la campagna vi tedia, che la società vi importuna. Si dice che noi non vi siamo cari punto, sebbene vi amiamo con sincerità. Perchè ci veniste a visitare? In questa nostra solitudine io non vi avrei conosciuto e non avrei provato le pene che provo. Col tempo avrei domato forse le ribellioni di questa anima irrequieta e inesperta, avrei trovato un amico veritiero; sarei stata sposa fedele e virtuosa madre...
»Un altro.... no; a nessuno altro donerò io il cuore. Così sta scritto nel libro del destino; così vuole la mia stella; io son tua.... tutta la mia vita è stata la preparazione di questo affetto per te. — So che Dio a me ti invia per esser mio protettore fino alla tomba.... già da gran tempo mi apparivi in visioni notturne.... prima di vederti già ti conoscevo e t’amavo, — il tuo penetrante sguardo, il tuo accento soave mi sconvolgeva il petto.... E non era un sogno! Appena ti scorsi, io ti riconobbi; rimasi immota e muta, arsi tutta e dissi fra me: è desso! Non è egli vero? Io ti ho udito più volte, più volte mi hai parlato mentre io andava a soccorrere i poveri o quando in chiesa mi sforzava di sedare le mie angosce alzando preghiere all’Eterno. Non sei tu che sovente spazi intorno a me nelle ombre trasparenti della sera e ti chini pietoso sul mio letto? Non sei tu che mi susurri all’orecchio parole di speranza e d’amore? Chi sei tu? Il mio angelo tutelare o il mio perfido tentatore? Dissipa la mia incertezza. Forse tutto ciò è menzogna vana, allucinazione d’una fantasia esaltata. E così sia. D’ora innanzi, io rimetto la mia sorte nelle tue mani. Ho sparso le mie lacrime nel tuo seno e imploro il tuo sostegno.... qui, sono sola.... nessuno mi comprende; la mia ragione vacilla; io perirò tacendo. Ti aspetto. Ravviva col tuo sguardo le mie speranze o sperdi le mie illusioni tacciandole di delitto.
»Finisco. Vi sembrerà strano il mio linguaggio — mi sento svenire dalla vergogna e dal terrore — ma la vostra onoratezza mi rassicura e in essa confido.»
Taziana ora geme, ora sospira. La lettera trema nella di lei mano. L’ostia rosata si secca sulla sua lingua inaridita. La vezzosa piega il bel capo e a quell’atto la sua camicia cade dalla bianca spalla. In quel punto, la luna si ritira sotto un velo di vapori. Taziana guarda e ascolta. La valle s’ammanta di nuvole; il torrente risplende come un nastro d’argento; il corno dei pastori desta i contadini; l’alba brilla tutti si alzano. Taziana non bada all’aurora. Sta seduta colla testa bassa. Non si sa risolvere a stampare il suo sigillo sulla lettera. La serva Filippevna dal crin grigio, arreca il tè sopra un vassoio.
“Lèvati,” sclama, “lèvati, figliuola cara; è tardi.... ma che miro? sei bell’e vestita! O cara lodo letta mattutina! Che paura mi mettesti ieri sera! Ma grazie al cielo, sei sana.... non riman segno del tuo incomodo.... hai il volto rosso che pare proprio un papavero.”
“O balia, fammi un piacere....”
“Due, figliuola. Comanda pure....”
“Non credere già.... non sospettar mica.... non dir di no, veh!”
“Come è vero il vangelo, io ti servirò.”
“Dunque, manda di nascosto il tuo nipotino dal.... dal vicinante A.... con questo biglietto.... e in timagli che non mi nomini, che non dica....”
“Ma a chi mai? cara padroncina.... sono divenuta così smemorata e ci son tanti vicinanti intorno a noi che non li saprei nemmeno contare.”
“Come sei poco furba, balia mia!”
“Dolce figliuolina, io son vecchiotta; mi si è affievolito l’ingegno.... nei tempi andati ero vispa anche io; indovinavo il volere dei padroni a un cenno, a un alito....”
“O balia mia, che mi cianci? Che ho io bisogno del tuo ingegno.... To’; questo biglietto è per Anieghin.”
“Ho capito, ho capito. Non ti riscaldare, anima mia; sai che son dura di zucca.... ma perchè torni ad esser così pallida?”
“Non sarà niente, non sarà niente. Manda presto il tuo nipotino.”
Un giorno passa; non vien risposta. Un altro giorno arriva, egual silenzio. Smorta come un fantasma e vestita sin dall’alba, Taziana aspetta: quando verrà la risposta? Giunge intanto l’amante di Olga.
“Dite, dov’è il vostro amico!” domandò la padrona di casa. “Egli ci ha del tutto dimenticati.”
Taziana a quelle parole arrossì e tremò.
“Ci ha promesso di venire oggi,” disse Lenschi alla vecchia. “Credo che abbia lettere da scrivere....”
Qui Taziana atterrò lo sguardo come chi ode una rampogna amara.
Incominciava a far buio. Il samovar di rame10 splende sulla tavola, e riscalda la tettiera di porcellana chinese, intorno alla quale s’aggira un sottile vapore. Il tè odoroso mesciuto dalle manine di Olga scorre nelle tazze a flutti verdeggianti un valletto porge la panna. Intanto Taziana, astratta, ritta davanti alla finestra, soffiava sui cristalli e vi segnava col suo bel ditino, l’adorato monogramma: un E accoppiato a un A. E l’anima di Taziana era mesta e gli occhi suoi traboccavan di lacrime. Tutto a un tratto, s’ode un rumore. Il sangue le si agghiaccia nelle vene. Qualcheduno giunge, scende.... è Eugenio. Entra nel cortile. Taziana si slancia al vestibolo, quindi al verone, balza nel cortile e sparisce nel giardino. Sembra aver ali ai piedi. Non ardisce volger l’occhio indietro. In un attimo, varca gli argini, i ponti, i fossi, il viale che conduce al lago, il boschetto. Si dirige al ruscello per mezzo ai parterre, calpesta e schiaccia gli stipiti dei lilla, e anelante e spossata si lascia cader sopra un sedile.
“Egli deve esser qui.... Dio mio, che penserà di me!” Abbacinata dalla passione, essa si pasce di speranza, palpita, geme e aspetta.... Quando verrà egli? Mira, e nulla vede. Le serve della villa, sparse per le aiuole, colgono le fravole fralle siepi e i dumeti, cantando in coro per ordine dei padroni. Ingegnoso ripiego trovato dall’astuzia signorile per impedire alle serve di mangiare i frutti mentre li vanno staccando dalla pianta.
canto delle serve.
Sull’erba folta
Delle campagne,
Andiam, compagne,
Alla raccolta.
Per le viottole,
Narrando favole,
Cantando frottole,
Cogliam le fravole
E l’uva spina
Carca di brina.
Dal nostro canto
Sedotti, intanto,
I garzoncelli
Leggiadri e snelli
Verranno a tresca
Sull’erba fresca.
A lui che amiamo,
Al nostro rege,
In sen gettiamo
Fiori e ciriege,
Nero mirtillo,
Verde serpillo!
Il canto dolce
Le pene molce;
Al cuor che geme
Rende la speme;
I voti appaga;
Sana ogni piaga.
Cantiam, cantiamo!
Così cantano le serve. Taziana non presta attenzione a quelle rustiche melodie; ma s’aggira impaziente. Vorrebbe che si placassero i palpiti del suo cuore e che si dileguasse il rossore delle sue guance. Ma più l’ora s’avanza, più il turbamento della giovinetta va crescendo. Tale vediamo la farfalletta dibattere le ali variegate tralle mani di un protervo scolare; tale la lepretta timida rabbrividisce fralle biade quando scorge il cacciatore che s’inginocchia in mezzo ai cespugli, per appuntare l’arme.
Finalmente essa respira e s’alza. S’incammina verso il viale, ma non vi aveva fatto dieci passi allorchè s’imbattè in Eugenio. Questi le parve in quel momento non già quel ch’era prima, ma uno spettro minacccioso, con occhi rutilanti di sdegno. Taziana si ferma quasi percossa dal fulmine. Ma non mi basta l’animo di narrarvi oggi il seguito di quell’incontro. Questo capitolo è già troppo lungo. Sono stanco di lavorare e convien ch’io vada a passeggiare e a riposarmi un poco. Terminerò poi l’istoria in un modo qualunque.
- ↑ Svetlana è una fata rinomata per la sua bianchezza e per la sua potenza.
- ↑ Giulia Volmare nella Nuova Eloisa di G. G. Rousseau; Malec Adel, romanzo di Madama Cottin; Gustavo de Linard, romanzo di Madama di Krudner, la celebre amica di Alessandro I e istigatrice della Santa Alleanza.
- ↑ Delfina, romanzo di Madama di Stäel.
- ↑ Il Vampiro, romanzo del Polidori, medico di Lord Byron; Melmoth, di Mathurin; Giovanni Sbogar, di Carlo Nodier.
- ↑ Imitazione della famosa ode di Saffo, il cui senso è questo:
Agli immortali Dei simil mi sembra
L’avventuroso che ti siede a lato,
E a sè vicino ode suonar la tua
Voce soave,
E il tuo soave riso. A me nel seno
Quando m’appari, il cuor ferve e rimbalza;
E il labro ansante, quando ti rimiro,
Non trova accento.
Muta è la lingua e come rotta. Fiamma
Sottil mi corre su per ogni vena;
Fugge la luce dalle mie pupille,
Ronzan gli orecchi.
Freddo sudor m’inonda tutta; un brivido
Tutta m’invade; qual recisa pianta
Mi discoloro, e, come s’io morissi,
Perdo il respiro. - ↑ Giornale morale e seccante.
- ↑ Poeta anacreontico.
- ↑ Poeta elegiaco francese.
- ↑ Freischuetz, è il capo lavoro del gran componista Maria Weber.
- ↑ Macchina che serve a scaldar l’acqua per il tè. Samovar significa che bolle da sè, αὐτοζέων.