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eugenio anieghin | 121 |
“Dite, dov’è il vostro amico!” domandò la padrona di casa. “Egli ci ha del tutto dimenticati.”
Taziana a quelle parole arrossì e tremò.
“Ci ha promesso di venire oggi,” disse Lenschi alla vecchia. “Credo che abbia lettere da scrivere....”
Qui Taziana atterrò lo sguardo come chi ode una rampogna amara.
Incominciava a far buio. Il samovar di rame1 splende sulla tavola, e riscalda la tettiera di porcellana chinese, intorno alla quale s’aggira un sottile vapore. Il tè odoroso mesciuto dalle manine di Olga scorre nelle tazze a flutti verdeggianti un valletto porge la panna. Intanto Taziana, astratta, ritta davanti alla finestra, soffiava sui cristalli e vi segnava col suo bel ditino, l’adorato monogramma: un E accoppiato a un A. E l’anima di Taziana era mesta e gli occhi suoi traboccavan di lacrime. Tutto a un tratto, s’ode un rumore. Il sangue le si agghiaccia nelle vene. Qualcheduno giunge, scende.... è Eugenio. Entra nel cortile. Taziana si slancia al vestibolo, quindi al verone, balza nel cortile e sparisce nel giardino. Sembra aver ali ai piedi. Non ardisce volger l’occhio indietro. In un attimo, varca gli argini, i ponti, i fossi, il viale che conduce al lago, il boschetto. Si dirige al ruscello per mezzo ai parterre, calpesta e schiaccia gli stipiti dei lilla, e anelante e spossata si lascia cader sopra un sedile.
“Egli deve esser qui.... Dio mio, che penserà di me!” Abbacinata dalla passione, essa si pasce di speranza, palpita, geme e aspetta.... Quando verrà
- ↑ Macchina che serve a scaldar l’acqua per il tè. Samovar significa che bolle da sè, αὐτοζέων.