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116 | eugenio anieghin |
Ecco ch’io mi imbatto in una difficoltà. Per salvar l’onore del mio paese natío, io dovrò tradurre nel nostro idioma la lettera di Taziana. Questa fanciulla non leggeva i nostri giornali e durava gran fatica ad esternare i suoi concetti nella lingua materna; quindi è che essa scriveva in francese.... Che ci ho che fare io? Convien ch’io lo confessi. Finora le nostre signore non han mai espresso il loro amore in volgare russo e questa superba favella è rimasta fin qui estranea allo stile epistolare. So che si vogliono obligare le donne a legger libri russi. In coscienza ciò mi sgomenta. Come mai figurarsi una bella signora col Bene intenzionato fra mano?1 Lo domando a voi, giovani poeti; non è egli vero che tutte le leggiadre seduttrici alle quali, pei vostri peccati, dirigete di nascosto le vostre rime, capiscono a stento e stroppiano deliziosamente la lingua moscovita? Non è egli vero che una lingua straniera è divenuta loro più familiare della propria?
Dio mi liberi dall’incontrare in una festa di ballo o sul verone, all’ora della partenza, un seminarista con uno scialle giallo o un accademico con una scuffia da dama. Siccome aborro un bel labbro vermigliuzzo privo di sorriso, così detesto il parlar russo senza solecismi. Forse un dì fia, in cui, per mia sventura, una nuova generazione di figlie d’Eva, cedendo alla supplice voce della stampa, si degnerà di studiar la grammatica. Allora i versi saranno di moda. Ma io?... che importa! Io rimarrò affezionato agli usi antichi. Un balbettío scorretto e indolente, una pronunzia incerta e tremebonda mi ecciterà nel
- ↑ Giornale morale e seccante.