Eugenio Anieghin/Capitolo Quarto
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CAPITOLO QUARTO.
La morale est dans la nature des choses.
Meno amiamo una donna, più siam certi di andarle a genio e di acchiapparla al vischio della seduzione. Fu un tempo in cui l’empio libertinaggio si spacciava impudentemente per vero amore; insidiava e tradiva con fredda premeditazione e con impunità. Ma tali scherzi licenziosi van lasciati ormai a quei vecchi scimmiotti decantati dai nostri antichi; gli allori di Lovelace1 si sono avvizziti e sbiaditi insieme coi tacchi rossi e le perrucche a buccoloni.
Come può un uomo assoggettarsi a una eterna ipocrisia, ripetere senza fine le medesime nenie, affaticarsi a persuadere cose di cui tutti son da gran tempo persuasi; combatter sempre le stesse obiezioni, sempre confutare quelli stessi pregiudizi che non esisterono mai nemmeno presso le bambine di tredici anni? Chi non ha provato quanto son cosa dura le minacce, le suppliche, le imprecazioni, le paure imaginarie, le bugie, le calunnie, gli anelli, le lacrime, i sospetti delle zie e delle madri, l’amicizia insoffribile di un marito? Così appunto pensava il mio Eugenio. Nella sua prima gioventù, fu in balía di fatale smarrimento e di indomabili passioni. Effemminato dalla mollezza e dal lusso, illuso per un poco dagli uni, disingannato tosto dagli altri, consumato dal desiderio, disgustato dei suoi successi efimeri; sempre occupato a trasformare i suoi sbadigli in sorrisi, e sentendo sempre in mezzo allo strepito e al silenzio la voce della coscienza che lo rimbrottava: così visse Eugenio per ben due lustri; così lasciò perire il più bel fior degli anni suoi.
Ora, egli non circonveniva più le fanciulle; tendeva le reti alle donne. Se lo ributtavano, tosto si consolava; se lo gabbavano, godeva di prender qualche sosta. Le corteggiava senza fanatismo, e le abbandonava senza rammarico, appena memore dei loro favori e de’ loro furori.... In simil guisa, uno straniero indifferente, invitato a una partita di whist, si pone a sedere, gioca, e quando finisce il trattenimento, se ne torna a casa passo passo e s’addormenta senza saper dove anderà a conversazione la sera susseguente.
Comunque sia, il biglietto di Taziana commosse profondamente Anieghin. L’ingenua manifestazione di quel sogno virginale sconvolse tutti i suoi pensieri. Si raffigurò subito Taziana, e quel sembiante scolorato e quell’aria melancolica; e l’anima sua piombò in una molle e vaga contemplazione. Forse sentì risvegliarsi l’antico ardore e l’antica baldanza; ma la rintuzzò; chè non volle tradir la fiducia d’una fanciulla inesperta.
Ora, vi ricondurrò, lettore, al luogo ove i nostri personaggi s’incontrarono.
Per ben due minuti tacquero. Quindi Anieghin s’appropinquò a Taziana dicendo:
“Voi mi avete scritto un biglietto. Non dite di no. Ho fra mano la confessione d’un’anima credula e ingenua.
“Il vostro candore mi è caro. Il vostro affetto ridestò quasi l’agitazione in un petto da gran tempo tranquillo. Ma non voglio lusingarvi; voglio contraccambiare la vostra schiettezza con una schiettezza non minore. Datemi ascolto un momento. Io mi sottometto alla vostra sentenza.
“Se io potessi circonscrivere la mia esistenza nella sfera domestica; se il destino propizio mi volesse fare sposo e padre; se gli onesti piaceri della vita di famiglia potessero un istante affascinarmi; io non prenderei per certo altra consorte che voi. Vi dichiaro senza nessuna iperbole poetica che trovo in voi quel tipo ideale che mi son dipinto nella mente, e che vi sceglierei qual socia dei miei tristi giorni, quale simbolo e modello d’ogni cosa bella. E credo che con voi io sarei felice quanto mi sia concesso di essere.
“Ma io non son nato per la felicità! Quando la buona ventura mi si para davanti, io le volto le spalle. Ammiro il vostro merito, bramerei goderlo; ma ne son indegno. Credetemi, il matrimonio sarebbe per noi un vero martoro. Più vi avrei amato prima di possedervi, meno vi amerei dopo. Vi mettereste a piangere. Le vostre lacrime non mi moverebbero, anzi mi accanirebbero sempre più. Queste son alcune delle rose di cui ci cingerebbe l’imeneo per molti e molti anni.
“Non credo v’ abbia al mondo spettacolo più tristo di quello d’una povera moglie che geme dì e notte nell’abbandono e aspetta il marito, il quale, sebbene conosca la virtù e i pregi di lei, si mostra sempre barbaro, accigliato, arrabbiato, freddamente geloso, e sempre bestemmia il suo destino. Questo è il mio ritratto. Cercavate voi un tale sposo, o anima casta e pura, quando mi scriveste con tanto senno e tanta grazia? No, vi risparmi il cielo una tale sciagura. Le illusioni sono come le ore; passano e non tornan più. Le mie non possono rivivere. Vi amo come s’ama una sorella e forse anche con maggior fervore. Uditemi dunque senza ira. Spesso accade che una fanciulla sostituisce a un errore un altro errore, come l’albero all’aura di primavera rinnovella le foglie. Così prefisse il fato. Amate ancora, ma.... sappiate moderarvi; non tutti intenderebbero il vostro linguaggio come l’ho inteso io. L’inesperienza, può condurre ad un abisso....”
In tal modo finì la predica d’Eugenio. Taziana l’ascoltò col respiro interrotto dall’angoscia, cogli occhi accecati dalle lacrime, nè ardi fare una sola osservazione. Egli le porse la mano. Essa la prese mestamente o meccanicamente (come dicon taluni), e vi si appoggiò in silenzio. Poi fece il giro del viridario, e se ne tornò a casa colla testa bassa. Entrarono insieme nel salone, e nessuno fiatò parola. La vita di campagna ha le sue franchige e i suoi cari privilegi come la città di Mosca.
Confesserete meco, lettore, che il nostro amico agì molto garbatamente colla misera Taziana. Non era la prima volta che egli dava saggio di generosità, sebben la malizia della gente lo accusasse d’ogni vizio. I nemici e gli amici (espressioni quasi sinonime) gareggiavano di zelo a diffamarlo. Ciascun di noi in questo mondo ha i suoi nemici; ma Dio ci liberi dagli amici!2 Io ne ho avuti tanti, o amici miei! E sa il cielo se la loro amicizia mi fu cara!
Ma procuriamo di sbandire le larve insane e funebri che ci assediano. Intanto, fra parentesi, noterò una verità. Non havvi ciarla assurda e plateale; non havvi calunnia vile e sucida nata nel fango dei postriboli e ampliata dalla scelleraggine del gran mondo,3 che il vostro amico non ripeta le mille volte in un crocchio di persone oneste, senza la menoma malizia nè perfidia; anzi con un sorriso di benevolenza; imperocchè egli, in fatti, vi è devoto, e vi ama come un prossimo consanguineo.
Hem! Hem! Pregiatissimo lettore! Sta sana tutta la vostra famiglia?... Ma forse gradireste sapere che cosa io intenda per famiglia. Ve lo definirò in poche righe. Nostra famiglia sono coloro cui ci corre obligo di adulare, di accarezzare, di venerare con tutto il cuore; coloro che, secondo l’uso di questo paese, dobbiamo abbracciare nel giorno di Natale, o ai quali dobbiamo mandare a capo d’anno un biglietto di visita per la posta, affinchè durante i dodici mesi seguenti essi non pensino più a noi.... Che Dio conceda loro lunga vita!
L’affezione d’una tenera fanciulla è più salda di quella degli amici e dei parenti. In mezzo alle peripezie più dolorose essa ti conserva i tuoi diritti e ti conforta. È vero. Ma il torrente della moda, l’incostanza della natura, l’opinione tiranna della società.... e poi, il bel sesso è mobile qual piuma al vento.4 Sicchè la vostra fedele compagna, al fin dei conti, cede alla tentazione, e il diavolo manda a spasso la vostra felicità!
Chi dunque dovremo amare? A chi dovremo credere? Chi non ci tradisce? Chi pesa tutti i nostri atti, tutti i nostri detti, con esattezza, alla nostra bilancia? Chi non semina calunnie sui nostri passi? Chi non ci lusinga con assiduità? Per chi non sono i nostri difetti un flagello? Chi non ci secca mai? Onorevolissimo mio lettore, non perdere i momenti a inseguire fantasmi fuggitivi e inarrivabili: ama te medesimo come si conviene. Non troverai al mondo oggetto più degno della tua carità.
Quale fu il seguito dell’abboccamento? Ahimè! Si può facilmente indovinare. Gli stimoli della passione non cessarono di travagliare quell’anima gentile avida di tempeste. La fiamma che pur prima divorava Taziana, crebbe anzi che scemare. L’ala del sonno più non blandì le sue palpebre. La salute, fragranza e miele della vita, il sorriso, la calma infantile sparirono come una meteora. La gioventù di Taziana languisce nell’affanno. Così talvolta l’orror d’una procella aduggia le prime ore d’un giorno di primavera. La bellezza di Taziana si sfiora e muore. La vaga verginella si scolora, si spenge e tace. Non v’ha più cosa alcuna che possa rallegrarla nè interessarla.5 I vicinanti crollando la testa con aria d’importanza, ripetono fra loro: “Sarebbe tempo che le si desse marito.” Ma lasciamola stare per adesso, e passiamo a descrivere le delizie d’un amore fortunato. La compassione quasi mi tronca il respiro; scusate, cari lettori, voglio tanto bene alla povera Taziana!
D’ora in ora più allacciato dalla vezzosa Olga, Vladimiro si abbandona tutto a quella piacevole schiavitù. Sempre sta presso ad essa. La sera siedono insieme nell’angolo più oscuro della di lei camera; la mattina errano nel giardino colle mani giunte e intrecciate. Vladimiro, ebro d’amore, ma paralizzato dal rispetto, appena alcune volte ardisce, imbaldanzito dal sorriso d’Olga, scherzare coi di lei biondi ricci e baciarle il lembo della vesta.
Di quando in quando, le legge un romanzo morale, il cui autore conosce la natura umana meglio che non la conosca Chateaubriand. Vladimiro arrossendo salta talvolta due o tre pagine di seguito, perchè piene di fandonie insulse, di fantasticaggini pericolose per una giovinetta. Oppure, lontani da tutta la gente, seduti col gomito appoggiato sulla tavola, assorti in profonde riflessioni, giocano a scacchi; e Lenschi, preoccupato d’altro che del gioco, prende l’alfiere per una pedina.
Se torna a casa, anche li pensa unicamente alla sua Olga. Orna d’imagini i fogli volanti del di lei Album. Vi rappresenta colla penna e coi colori, ora un tratto di paese, ora un monumento funebre, ora il tempio di Citerea, ora una colomba sopra una lira. Talvolta, fra mezzo ai nomi e ai ricordi, egli introduce furtivamente un distico amoroso, timido attestato dei suoi sospiri, indizio d’una speme, sempre eguale dopo tanti anni di costanza.
Ti è accaduto mai, lettore, di vedere l’album di qualche signorina provinciale tutto coperto di scarabocchi, in principio, in mezzo e in fine? A ogni pagina inciampi in versi tradizionali intorno a una amistà fedele, zeppi di sgrammaticature, e troppo lunghi o troppo corti. Sul frontispizio si legge: Qu’écrirez vous sur ces tablettes? Poi al basso: t. à. v. Annette. In fondo al volume ti si presenta questa frase trita e triviale: «Scriva più di me chi ti ama più di me.» Non morranno mai i due cuori accompagnati da faci e da fiori; le promesse di affetto invariabile «sino all’orlo della tomba,» e qua e là una facezia inserita da qualche gioviale militare.
Vi protesto, amici, che volentieri metterei due versi in un tale album, essendo io persuaso che tutti i ghiribizzi del mio cervello meritano uno sguardo indulgente, e che i posteri non sederanno a scranna per decidere con un sogghigno acerbo se ci sia o non ci sia livore in quei miei strambotti.
In quanto a voi, tomi scompagnati della biblioteca del Diavolo, patiboli dei rimatori di moda, album sontuosi, fregiati dal maraviglioso pennello di Tolstoi o dalla penna di Baratinschi,6 v’incenerisca il fulmine di Giove! Quando una magnifica signora mi consegna il di lei in-quarto, avvampo di stizza e d’ira, e aguzzo in fondo al cuore un epigramma; ma intanto convien ch’io schiccheri un madrigale.
Lenschi non tornisce madrigali per l’album della sua diletta. Il suo stile non sfavilla di sottili concetti, ma solo spira amore. Nota quanto di bello ode e mira in Olga, e l’elegia scaturisce limpida, serena, improntata di verità. Così, o Sascoff, canti le smanie del tuo cuore, e le attrattive di una incognita diva, e un giorno, il ciclo dei tuoi carmi ti offrirà un diario compiuto degli eventi di tua vita.
Ma zitto! Che è stato? Un aristarco arcigno ci ordina di buttare nella fogna la ghirlanduccia dell’elegia, e grida a’ nostri fratelli in Apollo: — Cessate omai l’eterno piagnisteo. Cessate di gracchiar sul tempo che passò. Addatevi a qualche altro esercizio! — Bravo! E ci additi una tromba, una maschera, un pugnale, e ci esorti a risuscitare le idee morte da due mila anni. Non è questo che brami? — Oibò! — Che dunque? — Sciorinate odi, odi pindari che come quelle dei nostri antichi. — Capisco; odi solenni trionfali! Rimembra ciò che dice il satirista: lirico esimio, preferiresti forse una dottrina straniera a quella dei nostri scoraggiti rimatori? — L’elegia non ha nulla di buono. Il suo scopo è miserabile. L’ode al contrario ha uno scopo nobile e sublime. ― Qui potremmo attaccar lite, ma io me ne sto zitto: non voglio armar due secoli l’un contro l’altro.
Forse l’estro poetico di Vladimiro, secondato dall’entusiasmo, avrebbe partorito una ode. Ma Olga non l’avrebbe letta. È mai accaduto a un poeta elegiaco di declamare i suoi versi alla sua Fillide? Dicesi che l’uomo non possa provar gioia maggiore di quella. Beato, infatto, colui che confida i suoi canti alla persona che li ha ispirati. Beato colui.... ma chi sa? Forse la giovinetta languida sta pensando a tutt’altro.
In quanto a me soglio communicare i frutti delle mie poetiche fatiche alla mia vecchia governante, che mi guidò e nutrì fanciullo. Oppure incontrando un vicinante a qualche desinare seccagginoso, lo afferro per la falda del vestito, lo blocco nel vano d’una finestra e gli faccio ingozzare una tragedia. Finalmente (e questo è la pretta verità) sazio di tristezza e di rime vo a costeggiare la spiaggia del lago ove si trastulla un branco d’anatre salvatiche, le quali al suon delle mie strofe scappano via a rotta di collo.
Che fa Anieghin? A proposito, amici: abbiate un poco di pazienza: io vi descriverò le sue occupazioni quotidiane. Egli vive come un anacoreta. D’estate si alza alle sei e immantinente scende, in maniche di camicia, sul margine del fiumicello che bagna il piede alla collina. Emulo del cigno di Gulnara,7 egli varca quell’altro Ellesponto; poi sorbisce la sua tazza di caffè, dà una scorsa a una smunta gazzetta e quindi si veste. Il passeggio, la lettura, il sonno, il rezzo degli alberi; talvolta i saporiti baci d’una candida ninfa dalle pupille nere; un cavallo impetuoso docile al freno; un convito bizzarro; una bottiglia di vino chiaro; la solitudine; il silenzio; tali sono i pii oggetti che solleticano i sensi e appagan le voglie d’Anieghin. Affezionato a quel tenor di vita, lasciava passare i dì senza contarli; dimenticava in seno alla indolenza la città e gli amici e la noia delle gale e delle feste.
Nel nostro emisfero boreale, l’estate, caricatura dell’inverno d’Italia, appena è comparsa, che già è sparita. Ognuno lo sa, e lo sappiamo noi stessi sebben non lo vogliamo confessare. Già il vento d’autunno mugghia sul nostro capo; già il sole si mostra men sovente; già i giorni divengon più corti; la corona frondosa dei boschi si sfoglia con un lugubre gemito; le atre nebbie s’accumulano sulla terra; una stridula caravana di cicogne s’invola verso l’austro. S’approssima la stagion molesta; novembre è alle nostre spalle.
L’aurora sorge in mezzo a densi e gelidi vapori; il suono dei lavori agresti cessò nelle campagne; il lupo corre per le strade colla lupa affamata; il destriero lo annusa da lontano e nitrisce; il viaggiatore scaltro volge frettolosamente il corso verso i monti. Il mandriano non mena più le vacche sin dall’alba alla pastura, e non le chiama più a raccolta col corno verso l’ora del meriggio; la contadinella fila e canta, e una lucernina8 sua sola compagna nelle lunghe notti illumina la sua povera cameretta.
La brina ingemma i prati e screpola sotto i passi del camminante. Più liscio d’un impiantito alla francese, il ruscello luccica incrostato di ghiaccio. Uno stormo di monelli striscia con gran chiasso su quel cristallo unito. Una grossa oca che si strascina appena sulle zampe rosse, volendo mettersi a nuoto sull’acqua, s’avanza con cautela, sdrucciola e casca. Facciamo lietissimo viso ai primi fiocchi di neve; ci par vedere piover dal cielo un nembo di candide stelle. Che si può fare allora in una villa isolata? Forse passeggiare? Ma la monotona nudità della natura funesta e dismaga la vista. Cavalcare per le steppe disabitate? Ma ad ogni passo il cavallo può scivolare e stramazzare al suolo col cavaliero. Sedere a tavolino e accingersi a legger De Pradt9 e Walter Scott? — Non vuoi? — Verifica i tuoi conti; adírati; bevi; e la lunga serata ti parrà breve. Così pure ti parrà quella di domane, e per tal modo passerai l’inverno assai giocondamente.
Anieghin, come un altro Childe Harold, si diede alla meditazione e all’ozio. Ogni mattina fa un bagno freddo; poi prende una stecca mezza rotta e gioca da sè solo al biliardo con due palle d’avorio, fino al far della sera. Allora lascia il biliardo e la stecca; fa apparecchiare davanti al caminetto, e aspetta. Ecco Lenschi in una troica10 di cavalli bigi.... — Presto! la cena!
In onore del poeta si è messa in ghiaccio una preziosa bottiglia della vedova Cliquot o del Moët.11 Il vino di Sciampagna è il vero Ippocrene. Coi suoi schizzi e colla schiuma somiglia a tante cose! Io gli son schiavo. Quante volte gli ho sacrificato il mio ultimo denaro! Ve ne ricordate, amici? Quante migliaia di baie, di facezie, di versi, di dispute e di gai progetti zampillavano da quelle magiche bottiglie! Ma adesso l’effervescenza di quel petulante liquore offende la debolezza del mio stomaco e preferisco alla Sciampagna pazza il prudente Bordò. Coll’Ai12 io sto in fiera guerra. L’Ai somiglia a una ganza briosa, instabile, vana, e che ha mille grilli in testa. Ma tu, o Bordò, somigli ad un sincero amico, che ci riman fedele così nell’avversa come nella prospera fortuna; che ci segue in ogni luogo, sempre pronto a giovarci e a rallegrarci. Io bevo alla tua salute, o Bordò, nostro Acate e nostro Pilade!
Il fuoco si estingue. Il rosso carbone impolverato di cenere manda appena un cenno di fumo leggero, ed esala le sue ultime vampe. Il vapore delle pipe si fa strada per la cappa del camino. Un boccale rilucente bolle tuttora sul tavolino. La caligine notturna si spande sulla terra.... A quell’ora che si chiama fra cane e lupo mi diletta oltre modo il cicalio d’un amico e un bicchiere di buon vino.... il perchè poi nol so.
Adesso i due compagni discorrono col cuore in mano: “Che fanno i nostri vicinanti? Che fa Taziana? Che fa la tua graziosa Olga?”
“Mescimi ancora un mezzo bicchiere di quel néttare.... Così.... basta.... Tutta la famiglia sta bene, e ti saluta. Come divengon belle le spalle di Olga! Che busto! Che anima!... Andremo un giorno da loro; te ne saranno grati. Ci sei comparso di volo, due volte appena: non lasci loro più vedere la punta del tuo naso. Ma che scapato io sono!... Ti invitano a conversazione per sabato prossimo.”
“Me?”
“Sì, è il giorno onomastico di Taziana. La Olga e sua madre ti pregano di andarvi e non ammettono scusa nè rifiuto.”
“Vi sarà molta gente, molta feccia.”
“Nessuno, te l’accerto. Cioè, ci saranno i loro parenti. Andiamoci. Fammi questa finezza!”
“Va là, io acconsento.”
“Come sei garbato!”
Così dicendo, Vladimiro fece un brindisi alla sua bella, e vuotò il suo bicchiere. Poi ricominciò a parlare..... di che?.... d’Olga! Così sono fatti gli innamorati. Vladimiro ansava di giubilo. Il beato istante veniva fra due settimane. La corona fiorita d’amore, il misterioso talamo d’imeneo dovevano guiderdonare la sua costanza. Egli non scorgeva in prospettiva gli impicci, le brighe del matrimonio padre d’infiniti sbadigli. Mentre noi altri aderenti dell’avita celibe ci raffiguriamo la vita coniugale come una trista serie di scene formidande, come un romanzo sul genere di quelli di Augusto Lafontaine...13 il mio povero Lenschi era nato e destinato a quella sorta di esistenza.
Fu amato.... o almeno credè d’essere amato.... e fu felice. Avventuroso colui che crede; colui che sbandisce la fredda ragione e s’addormenta nella calma della fede come un viandante ubriaco sulle piume, ovvero (per usare similitudine più vaga) come una farfalletta sul fiore di cui pur ora ha delibato il succo! Ma guai a colui che tutto prevede, che non si lascia mai abbagliar dalle illusioni, che da ogni atto, da ogni parola fa distillare un sospetto, un delitto! Guai al cuore che l’esperienza del mondo agghiaccio e il di cui adito è chiuso al soave oblio, al grato errore!
Note
- ↑ Il seduttore di Clarissa Harlowe in un romanzo di Richardson.
- ↑ Questo pensiero pare tolto da un distico trovato scritto sopra un muro dei pozzi di Venezia:
Da chi mi fido mi guardi Dio,
Di chi non mi fido mi guarderò io. - ↑ Gallicismo inevitabile.
- ↑ Pensiero antico quanto i mondi e che Puschin esprime esattamente nelli stessi termini del Viscardello.
- ↑ Altro gallicismo necessario.
- ↑ Poeta lirico, amico di Puschin.
- ↑ Personaggio del Corsaro di Lord Byron. Ognun sa che Lord Byron volle attraversare a nuoto lo stretto dei Dardanelli, ad imitazione di Leandro che lo varcava per andar da Ero.
- ↑ In russo luccinca che è propriamente un pezzetto di legno che serve ai contadini di candela.
- ↑ Famoso pubblicista.
- ↑ Equipaggio con tre cavalli. Tri, tre.
- ↑ Che fabbricano il miglior vino di Sciampagna.
- ↑ Vino d’Ungheria.
- ↑ Autore tedesco la cui famiglia era oriunda francese. Scrisse molti romanzi d’argomento domestico.