Eugenio Anieghin/Capitolo Secondo
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CAPITOLO SECONDO.
La terra ove s’annoiava1 Eugenio era un delizioso asilo nel quale un amante dei piaceri semplici avrebbe goduto una perfetta felicità. La casa signorile si ergeva isolata sul margine d’un fiumicello a piè d’un monte che la riparava da’ venti del norte. Intorno intorno verdeggiavano e fiorivano ameni campi indorati di mèssi e prati ubertosi ove spaziavano gli armenti. Qua e là un villaggetto o un vasto giardino abbandonato che spandeva un’ombra fresca ove venivano le Driadi a meditare.
Il venerabile castello era costrutto come devono essere tutti i castelli; straordinariamente solido e tranquillo, secondo l’uso dei nostri giudiziosi avi. Sale ampie ed alte, arazzi appesi alle pareti, ritratti d’antenati e stufe di maiolica in ogni camera. Tutto ciò ripugna al gusto odierno, io non comprendo perchè. D’altronde, l’amico badava pochissimo all’architettura e alla mobilia, atteso che sbadigliava nei saloni moderni come negli antichi.
Anieghin si domiciliò nella stanza in cui suo zio per quaranta anni di seguito s’era affacciato alla finestra, aveva quistionato colla governante e acciaccato mosche.
Nessun lusso nelle suppellettili, pavimento di quercia, due scaffali, un tavolino, un divano di più ma senza alcuna macchia d’inchiostro. Anieghin aprì gli armadi: in uno trovò il quaderno della spesa; nell’altro una collezion di bottiglie di liquori e di cidro e un lunario dell’anno 1808. Il buon vecchio, aggravato da mille faccende, non leggeva altri libri.
Solo, in mezzo alle sue proprietà, Eugenio per accorciare il tempo, determinò di stabilire un ordine nuovo nella azienda del suo dominio. Filantropo segregato fralle selve, egli convertì in un lieve tributo annuo gli oblighi feudali;2 e il servo redento benedì il nuovo signore. Ma un possidente spilorcio e inumano sbuffò di rabbia all’annunzio di tale azione che considerava come una enormità. Un altro invece ne rise malignamente e ambedue s’accordarono in dichiarare Eugenio un matto pernicioso.
Dapprima tutti i vicinanti vennero a fargli visita; ma siccome tosto che udiva un droschi per la strada maestra Eugenio inforcava la sella d’un focoso stallone, i vicinanti sdegnati d’un tal comportamento ruppero l’amicizia. “Il nostro compare,” borbottavano essi, “è un ignorante, uno scapestrato, un frammassone. I suoi vini fini se li tracanna tutti lui; non bacia la mano alle signore; dice sempre sì e no; non v’aggiunge mai signore o signora.” Tale era l’opinione della gente intorno ad Anieghin.
Giunse allora nel villaggio un altro possidente che diede un nuovo pascolo alle chiacchiere degli oziosi. Chiamavasi Vladimiro Lenschi. Allievo di Gottinga, fautore di Kant, scriveva in poesia, era giovine e bello. Recava dalla lugubre Germania i frutti dei suoi studi: dei principii liberali, un’anima ardente e un po’ bizzarra, un linguaggio esaltato, e capelli lunghi sparsi sulle spalle. Non ancora gangrenato dalla fredda perversità del mondo, il cuore di Lenschi gongolava alla lieta accoglienza d’un amico e alle carezze delle vaghe zittelle. Era Lenschi d’una grande ingenuità di spirito, si lasciava facilmente illudere dalla speranza, dalle apparenze e dalle fanfaronate della gente. Svagava i suoi dubbi a forza di auree e gioconde menzogne. La vita umana gli sembrava un enimma interessante; si rompeva la testa a scrutarlo, e si figurava che dalla soluzione di quello dovesse scaturire qualche miracolo. Andava in cerca dell’anima sorella della sua, di quell’anima che, secondo egli credeva, anelava d’unirsi alla compagna destinatale dal cielo, e, aspettando quel fortunato istante, languiva nel dolore. Supponeva che gli amici fosser capaci d’ogni sacrifizio per l’amico; che fosser pronti a incorrer per lui la prigionia e la morte, e non esitassero mai a rintuzzare le calunnie....
L’indignazione, la pietà, il sacro amore del bene, la sete della gloria, sin dai primi anni, gli fecero palpitare il cuore. Sen giva peregrino per la terra senza altra compagnia che la sua cetra. Ammiratore di Schiller e di Goethe, traeva da essi la scintilla poetica, e quantunque dovizioso, non arrossiva di coltivar le muse. Celebrava nelle sue rime i generosi sentimenti, l’entusiasmo giovanile e l’aurea semplicità; suddito d’amore, cantava l’amore; e i suoi canti eran puri come i pensieri d’una vergine candida, come il sonno d’un fanciullo nella culla, come, in un ciel sereno, il raggio della luna, regina dei sospiri teneri e misteriosi. Egli cantava la separazione, la melancolia, la crudele assenza, la fragranza delle rose, il fiore di sua gioventù appassito in sulla diciottesima primavera e i lontani paesi ove in seno della solitudine egli aveva sparso tante amare lacrime.
In quelle triste campagne, Eugenio solo poteva valutare i meriti di Lenschi, il quale fuggiva con premura i tumultuosi banchetti dei possidenti circonvicini, le loro conversazioni serie intorno al vino, alla raccolta del fieno, ai loro cani e alla loro famiglia. Dalla natura degli argomenti, si può desumere che i discorsi di quei barbassori non ridondavano nè di estro poetico, nè di delicatezza, nè di acume, nė di lepidezza, nè di urbanità; ma il consorzio delle loro carissime mogli era molto più sciocco ancora.
Ricco dei beni della fortuna, e leggiadro della persona, Lenschi veniva accolto in ogni casa come s’accoglie un genero futuro. Tale è la consuetudine dei villaggi moscoviti. Tutti i padri serbano le figlie per il signorino mezzo russo.3 Subito che egli entrava, la compagnia si metteva a ragionare degli incomodi della vita celibe. Se invitavano Lenschi a prendere una tazza di tè, la Dunia era incombensata di mescerlo. Il padre le soffiava all’orecchio: “Dunia, attenzione!” Quindi un servitore recava una chitarra, e Dunia incominciava a miagolare:
Oh! vieni a me, nel mio palazzo d’oro!4
Ma Lenschi non voleva ancora lasciarsi impególare alle panie del matrimonio, e niente altro ambiva che contrarre più stretta familiarità con Eugenio. L’onda e il sasso, il verso e la prosa, il ghiaccio e la brace, non son più diversi fra loro di quello che fossero Lenschi e Anieghin; eppure divennero amici sviscerati. A prima giunta, quel reciproco contrasto cagionò qualche urto; ma l’incontrarsi ogni giorno a cavallo o a piedi, fece sì che divennero compagni inseparabili. Così, pur troppo è vero, la scioperatezza è il nodo che ravvicina e unisce gli uomini.
Ma fra noi nemmeno tale legame esiste. Accecati dall’orgoglio, reputiamo noi stessi come tante unità e gli altri come tanti zeri. Tutti ci crediamo nuovi Napoleoni, e consideriamo le migliaia di bipedi nostri simili, come gli istrumenti dei nostri capricci; ogni affetto ci sembra cosa stramba e stolta. Eugenio era più tollerante; conosceva gli uomini e li disprezzava in genere, ma faceva in particolare alcune eccezioni. Ve n’erano alcuni che egli stimava e dei quali rispettava l’opinione. Ascoltava Lenschi con un sorriso; quel linguaggio colorato ed eloquente, quello spirito incerto nei suoi giudizi, quell’occhio sempre lampeggiante d’entusiasmo, erano cose nuove per Anieghin. Si asteneva da ogni parola che potesse agghiacciar quell’ardore, pensando fra sè: sarei insano e barbaro, se volessi rapirgli quella felicità momentanea. Pur troppo l’esperienza lo disingannerà. Lasciamogli quella sua fiducia nella perfezione umana e non estinguiamo anzi tempo quel fuoco giovenile; non dissipiamo senza necessità quei deliziosi errori.
Non v’era cosa che non servisse loro di testo a qualche controversia e che non li portasse alla riflessione. Le gesta delle generazioni antiche, i frutti della scienza, il bene e il male, i pregiudizi dei secoli, i funebri misteri della tomba, il destino e la vita, porgevano a vicenda ésca alle loro disquisizioni. Lenschi, nel calore della disputa, leggeva a modo di citazioni alcuni squarci di poemi nordici, e l’indulgente Anieghin li ascoltava con attenzione, sebbene da gran tempo li conoscesse.
Ma il più delle volte, soggetto dei loro trattenimenti erano le passioni. Eugenio, già da qualche tempo sfuggito a quella insolente tirannia, ne ragionava con un involontario sospiro di rincrescimento. Beato chi provò la violenza delle passioni e finalmente seppe sottrarsi al loro impero! Ma più felice colui che non le conobbe mai, che vinse l’amore colla fuga, e l’odio colla maldicenza! Di quando in quando egli sbadiglia cogli amici e colla moglie, non si lascia trasportare da gelosia e non mette a repentaglio sopra un asso il capitale tramandatogli dagli avi.
Quando stanchi della agitazione del mondo ci ricovriamo prudentemente sotto l’insegna della calma e del riposo; quando la fiamma che ci consumava è spenta; quando la febbre delle passioni, le loro estasi, le loro ubíe, i loro richiami tardivi, non ci incutono più che disprezzo; tranquilli alfine non senza fatica, ci dilettiamo talvolta d’udire la descrizione delle passioni altrui. Pare che tal pittura ci rinverdi e ci ringiovanisca. Così il vecchio invalido obliato in fondo al suo tugurio, porge volentieri orecchio ai racconti dei militi novizi che tornano dalla guerra.
La bollente gioventù non sa celar nissuna cosa; è sempre pronta a confidare i suoi odii e i suoi amori, i suoi affanni ed i suoi gaudi. Anieghin, veterano dell’esercito d’amore, accoglieva a muso serio le confessioni del poeta, il quale, devoto alla religione del cuore, svelava con ingenuità ogni ripiego della sua coscienza. Eugenio in breve fu istruito di tutti i suoi secreti teneri e dolci, secreti che già da un pezzo ci son noti.
Lenschi amava come più non s’ama, come i poeti soli sono ancora capaci d’amare. Sempre, dappertutto, un sol pensiero, un sol desire, un sol tormento gli occupava l’animo. Nè il gelo della lontananza, nè i lunghi anni dell’assenza, nè le ore dedicate alle muse, nè la vista dei paesi forestieri, nè lo strepito delle feste, nè lo studio delle scienze, poterono alterare i sentimenti suoi puri e virtuosi.
Appena adulto, ancora ignaro dei perigli delle passioni, s’invaghì della vezzosa Olga di cui divideva le cure e i trastulli infantili sotto il baldacchino dei boschetti ombrosi. I parenti e gli amici, vedendo il mutuo affetto dei due pargoletti, già li predicevano e incoronavano sposi.5 Olga, tutta spirante bellezza e innocenza, fioriva nella solitudine, fra le soglie avite e sotto gli occhi paterni, come un mughetto ascoso che brilla fra l’erba densa e oscura, ignoto alle farfalle e alle api.
Essa concesse al poeta le primizie del di lei vergine cuore, ed egli, trasumanato da quel caro dono, sacrò alla vezzosa i primi lai della cetra. Addio, aurei sollazzi fanciulleschi! D’allora in poi egli ricercò le selve opache, i deserti, il silenzio, la notte, le stelle, la luna — la luna, face del cielo, cui ci rivolgevamo altre volte come ad una fida amica per offrirle le nostre lacrime, grato sfogo dell’interno affanno...... Adesso, divenuti seri e savi, abbiamo per confidenti, invece della luna, i lampioni delle cantonate.
Sempre modesta, sempre obediente, allegra come l’aurora, sincera e semplice come l’anima d’un poeta, buona e timida come un bacio d’amore.... occhi cerulei come il firmamento, bocca piena di sorrisi, capelli di seta inanellati, mosse leggiadre, voce soave, Olga insomma.... Prendi, o lettore, un romanzo odierno qualunque, vi troverai il di lei ritratto esatto e perfetto. Io stesso ve l’ho veduto e ammirato; ma a lungo andare mi seccò. Per la qual cosa, lettore benevolo, ti chiederò licenza di parlare di Taziana6 sorella maggiore di Olga. Sarà la prima volta che simil nome comparirà nelle pagine di un romanzo sentimentale. Ma che? È un nome piacevole e sonoro. So bene che sa un po’ di vieto, e che finora appartenne più alle serve che alle padrone. È forza confessare che non mettiamo molto gusto nella scelta dei cognomi (per non dir nulla del poco gusto che mettiamo nei versi). Fra noi non abonda l’istruzione, ma soltanto l’affettazione e le smorfie di quella.
Si appellava dunque Taziana. Nè la sua carnagione di ligustri e rose, nè la bellezza di Olga sua sorella, avevan finora potuto attrarre sopra di lei l’attenzione della gente. Schiva, taciturna, melancolica, paurosa come una damma selvatica, l’avresti creduta straniera nella propria famiglia. Non sapeva, a forze di lusinghe, cattare la buona grazia dei genitori. Non si associava alle danze nè ai giuochi delle fanciulle della sua età, e preferiva starsene sola e muta, per giorni interi, nel cantuccio d’una finestra; o ascoltare, di sera, novelle orribili e strane.
Meditabonda fin dalla sua nascita, Taziana sapeva animare colle finzioni della vivace fantasia i suoi solitari ozi. I delicati suoi diti non avevan mai toccato un ago. Non si chinò mai a un tamburo per screziar la tela di fogliami e figure di seta.
Sintomo certo di uno spirito dominatore è veder una ragazza che si esercita colla docile sua bambola alle ipocrisie, alle etichette della società, e ripete a quel pezzo di legno le riprensioni che ha ricevute dalla mamma. Taziana non volle mai divertirsi colle bambole nè conversar con loro dei pettegolezzi della città o delle ultime mode. Quando la balia adunava in uno spazioso giardino tutte le fanciulle del vicinato per giocare alla sbarre con Olga, Taziana se ne andava altrove. Quel ridere romoroso, quei sollazzi frivoli, l’annoiavano. Ad essa piaceva più anticipare sopra un balcone lo spuntar dell’alba, quando a poco a poco le stelle si ritirano dall’emisfero scolorato; quando la terra gradualmente s’illumina; quando lo zeffiretto messaggero del giorno aleggia e scherza sulle onde e sui prati. Nelle notti d’inverno, quando il pigro Oriente riposa sotto i raggi smorti della luna annuvolata, Taziana sempre desta all’ora solita esciva da letto al chiaror d’una lucerna.
Ben presto si diede a divorar romanzi, e questi le tennero luogo di tutto. In special maniera s’affezionó ai racconti di Richardson e di Rousseau. Il padre di Taziana, galantuomo addietrato d’un secolo, non leggeva mai. Considerava i libri come innocui giocattoli, nè si curava di scoprire quali insidiosi volumi si appiattassero sino al mattino sotto il guanciale di sua figlia. La madre poi, venerava altamente Richardson, non già per averlo letto, non già perchè anteponesse Grandisson a Lovelace; ma perchè sua cugina, la principessa Alina di Mosca, citava molto spesso i nomi di quei personaggi. In quell’epoca, il signor Larin non era ancora che suo pretendente, ma senza speme. Essa ardeva per un altro, del quale stimava più assai il cuore e lo spirito. Questo fortunato Grandisson era un sergente della guardia, famoso damerino e giocatore. Essa, ad esempio di lui, andava sempre vestita di moda e con gran fasto. Ma un bel mattino i parenti della fanciulla la fecero sposa senza nemmeno chiederle il suo consenso. L’assennato marito, volendo dissipare il di lei cordoglio, si trasportò immantinente nelle sue possessioni, e lì la povera signora, circondata da Dio sa chi, s’arrabbiò da principio, pianse, e fu quasi in procinto di piantar li lo sposo. Poi si addiede alle cure domestiche, s’avvezzò al suo nuovo stato, si placò e s’ammansò. L’abitudine è un gran tesoro largitoci dal cielo, in iscambio della felicità. L’abitudine adunque sopì quella angoscia, che nulla poteva mitigare. Una grande scoperta che essa fece terminò di consolarla. In mezzo alle faccende e agli ozi della villa, trovò un ottimo secreto per governare autocraticamente il consorte, e d’allora in avanti ogni cosa camminò a meraviglia.
Essa spezionava i lavoranti, salava i funghi per l’inverno, teneva il conto delle spese, radeva la testa ai giovani coscritti,7 andava al bagno il sabato, e quando era di mal umore picchiava le serve, senza mai chieder licenza al marito.
Scriveva col suo sangue negli album delle giovini amiche, cangiava per vezzo il nome di Prascovia in quello di Paolina; portava fascette molto strette, parlava con una cantilena, pronunziava la N russa col naso, come una N francese;8 ma tosto smesse tutto ciò, e dimenticò gli album, i versi teneri, la principessa Paolina e le fascette; chiamò bonariamente Aculca, la cameriera che prima chiamava Celina, e in somma, incominciò a far uso di scuffie semplici, e di gonnelle ovattate.
Il suo signore l’amava cordialmente; non s’immischiava mai nei di lei negozi, e aveva messa in lei una fiducia scevra d’ogni sospetto. Pranzavano ambedue in veste da camera. La vita loro scorreva in perfetta quiete. Talvolta, verso sera, i vicinanti s’adunavano a veglia, per pungersi fra loro, per dir male del prossimo, e ridere un poco di questo e di quello. Così passava il tempo. Si pregava Olga di preparare il tè; poi veniva l’ora di cena, poi l’ora di dormire, ciascun se ne tornava a casa propria.
Essi osservavano nella loro placida esistenza gli usi e i costumi antichi. In tempo di carnevale facevano le frittelle. Il cvas9 era la loro unica bevanda, e a mensa, offrivano i piatti a ciascun convitato, secondo la sua qualità e il suo rango. In tal guisa invecchiarono insieme. La porta del sepolcro si aprì poi per essi, e il fortunato sposo riceve allora una nuova corona. Morì un’ora avanti desinare. I figli e la moglie fedele lo piansero più sinceramente degli altri parenti. Era un uomo schietto e buono; e nel posto ove giacciono le sue ossa, si erge un monumento funebre, con questa iscrizione: Sotto questa lapida riposa in pace Demetrio Larin, umile peccatore, servitore del Signore, e brigadiere.
Reduce nei suoi penati, Vladimiro Lenschi visitò il modesto monumento dell’amico, diede un sospiro alla sua memoria, e rimase un istante pensoso e afflitto. Poi sclamò: “Poor Yorick!10 egli mi tenne fralle sue braccia! Come io mi divertiva colla sua medaglia d’Occiacoff!11 Mi promise Olga in isposa, dicendo: Quando verrà quel giorno?...” E oppresso dall’affanno, Vladimiro tracciò sulla pietra un funereo madrigale. Siccome poi continuava in quella vena poetico-sepolcrale, improvvisò iscrizioni analoghe per suo padre e per sua madre.... Ahi che le generazioni, quasi mèssi caduche, germogliano, per voler della Provvidenza, nei solchi della vita, maturano, si inaridiscono, periscono! Altre poi subentrano a quelle.... La nostra razza fragile e fugace, cresce, si agita, ferve, e precipita al fine nell’abisso funesto, in che la spinge senza cessa il tempo. E verrà un momento, in cui i nostri nepoti ci cacceranno dal mondo per occupare il nostro posto.
Frattanto inebriatevi, amici, di questa labile esistenza! Io ne fo poca stima, perchè ne conosco tutta la vanità. Son ceco alle illusioni, ma talvolta le speranze remote mi abbagliano ancora la vista, e mi rimescolano il sangue.... Oh quanto mi dorrebbe d’escir di vita, senza lasciar nel mondo orma del mio passaggio! Non scrivo già per la fama: vorrei poter narrare il mio tristo destino, affinchè qualche amico serbasse nel cuore l’eco dei miei lamenti e del mio amore. — Forse troverò quell’amico; e questa strofa da me composta, non piomberà in grembo a Lete. Forse, o lieta idea! l’avvenire serberà il mio ritratto, e lo mostrerà dicendo: “Questi, questi era poeta!” Accogli dunque le mie grazie, o cultore delle pacifiche Pieridi, o tu la cui mano pietosa adunerà le mie sparse rime, e cingerà il mio crin canuto di sempre verdi allori!
- ↑ “Il n’y a que les sols qui s’ennuient” dice Beaumarchais (Barbier de Sèville, atto I, scena II), e ha ragione. Puschin vuol significare che la scioperatezza genera la noia, e che i dandy si annoiano perchè sono scioperati. Ma perchè scioperati? Perchè stolti.
- ↑ In russo barsccinu, in francese corvée.
- ↑ Cioè che per educazione è francese o tedesco.
- ↑ Primo verso d’un canto popolare russo.
- ↑ Nella cerimonia del matrimonio, secondo il rito greco, si mette una corona di fiori sul capo degli sposi.
- ↑ Nome in uso nelle classi popolari soltanto.
- ↑ È uso in Russia di tagliare parte dei capelli ai giovinotti che devono arruolarsi.
- ↑ Cioè secondo la pronunzia viziosa di molti francesi.
- ↑ Bevanda fermentata che bevono le povere genti.
- ↑ I beccamorti scavando una fossa (nel quarto atto dell’Amleto di Shakespeare) ravvisano il cranio d’un buffone del re chiamato Yorick. Amleto piange sopra di esso perchè l’aveva veduto in vita rallegrare con le sue celie i conviti del re, ed esclama: Poor Yorick!
- ↑ Luogo famoso per una battaglia fra i Russi e i Turchi nella quale questi ebbero la peggio.