Diario di un privilegiato sotto il fascismo/Prodromi al diario
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prodromi al diario
Leo non si occupò mai di politica. Quando a dodici anni, allo scoppio della guerra, Jean Luchaire cercò di attrarvelo e lo fece Presidente della Lega Latina della Giovinezza, riluttante Leo accettò perchè consigliato dal padre. Non sentiva per il potere e le relative responsabilità alcuna attrazione. Le passioni della massa, gli obblighi, gli artifici, le piccole furberie necessarie a tenere insieme un gruppo che vuol avere un’azione comune, gli ripugnavano: l’azione gli ripugnava. Già dalla prima infanzia ciò che lo attirava era «la vita interiore», la scoperta di quel che c’è dentro di noi e degli altri, la speculazione filosofica, l’arte, la pittura, la scultura, la musica, la poesia.
A diciasette anni, quando i giovani cominciano ad occuparsi di politica, egli si infervorò assai delle idee di Mazzini, ne lesse le opere con grande commozione e fervore. Ma, come suo padre non era iscritto ad alcun partito, egli non si iscrisse a nessun partito. D’altronde l’Italia era ormai sotto un regime «totalitario», non c’era più che un partito, quello «fascista» quello della violenza. Leo non vi si poteva iscrivere. Ma la sua sete di amore e di conciliazione era tale, che pur essendo contrario per principio e per temperamento al partito totalitario, non si appartò in una solitudine sdegnosa.
Mite d’animo, avido di affetti e incline all’ammirazione, egli cercò sempre di prodigare affetti ed ammirazione a quanti erano intorno a lui, soprattutto ai suoi compagni di lavoro nel mondo artisticoletterario. «Mettere in luce quel che c’è di male nell’opera compiuta dagli altri — soleva dire — è facile; ma non porta ad alcun risultato. Mettere in luce invece quanto c'è di bene, indicare la linea da seguire è più difficile, ma assai più utile; è ad ogni modo l'unico mezzo per indurre gli altri ad intensificare quanto di buono hanno in sè».
Tenendosi rigorosamente a questa direttiva e nella critica letteraria e nelle amicizie personali, egli fu amato malgrado il fascismo. Nel 1924 quando rappresentò a Roma «Campagne senza Madonna» i critici teatrali dei giornali romani, fascisti tutti, simpatizzarono assai con lui, ne fecero i più sinceri elogi, e Pirandello lo invitò a fondare con lui il «Teatro dei Dieci».
Sino al 1926 d’altra parte neppure noi, suo padre e sua madre, avevamo avuto personalmente a soffrire dell’avvento del fascismo. Vero è che rispetto al fascismo noi eravamo dei privilegiati fra i privilegiati.
Noi eravamo economicamente indipendenti dal governo. I nostri beni non erano in commerci o in industrie su cui il governo potesse avere una qualunque presa, e pur non essendo ricchi avevamo un tenore di vita tale da poterlo conservare anche al di fuori di proventi esterni.
Ma anche per i guadagni quotidiani eravamo del tutto indipendenti dal governo; i nostri cespiti regolari provenivano da libri o da corrispondenze a giornali politici francesi o americani, a cui il governo poteva difficilmente arrivare. In Italia avevamo, è vero, il «Secolo». Per togliercelo il governo fece comprare il giornale da una società che eliminò il nostro nome dalle sue colonne. Fu un colpo duro, ma duro in questo senso, che ci impediva di «dare», non di «ricevere». Il «Secolo» era per Guglielmo Ferrero una delle sue tribune, non la maggiore, non una fonte di guadagno.
Indipendenti ancora dal governo erano i contatti fra noi e il pubblico. Guglielmo non era e non era mai stato nè professore, nè deputato, nè senatore, nè sindaco, nè consigliere; non dirigeva nè riviste, nè giornali, nè case editrici. Le Università italiane che si erano rifiutate di accoglierlo nel proprio seno non avevano mai ammesso i suoi libri fra i loro testi, non gli avevano concesso alcun premio, alcun riconoscimento ufficiale, alcuna onorificenza; mio marito non aveva alcun titolo, non apparteneva ad alcuna accademia. Nè io nè lui eravamo membri di alcuna società nè scientifica, nè letteraria, nè artistica. E’ difficile togliere qualcosa a qualcuno a cui non si è mai dato niente.
Difficilmente attaccabile era la nostra condotta politica. Io non appartenevo ad alcun partito, ad alcuna associazione; Guglielmo non apparteneva ad alcun partito, non aveva mai coperto cariche pubbliche e neppure era mai stato candidato ad alcuna carica. Era irppossibile rimproverargli ambizioni passate o mire per il futuro.
Presa anche minore, se possibile, offrivamo dal lato familiare e sociale. Come temperamento, come educazione, come tradizione familiare eravamo entrambi alieni dai compromessi; noi quattro membri della famiglia formavamo insieme un nucleo così concorde e affiatato da poterci reggere da soli anche staccati dal mondo intero, senza sentirci isolati; avevamo dietro a noi dei parenti, fratelli, sorelle, madri, cognati con noi concordanti e come noi indipendenti. Non frequentavamo alcuna società; veniva da noi molta gente, ma erano quasi tutti forestieri. Noi non andavamo da nessuno. La nostra società era tutta epistolare.
Impossibile poi era attaccarci di sorpresa con la forza. Non uscivamo mai di sera, abitavamo, anche a Firenze, fuori della città, non appartenevamo ad alcun club, non andavamo mai a teatro, al caffè o al cinema o in alcun luogo pubblico in cui fosse possibile una provocazione o una aggressione improvvisa.
Erano venuti anche da noi sovente — specie all’Ulivello e prima dell’istituzione della milizia — gruppi di fascisti a chieder denari in modo insolente ora per delle sagre ora per le loro squadre. Suonavano con violenza. Guglielmo dava ordine di farli entrare nel suo studio. Procedevano con spavalderia, i manganelli roteanti... ma non appena entrati nello studio, davanti a tanti libri cominciavano a sentirsi a disagio. A Guglielmo che li interrogava esponevano in modo confuso il motivo della loro visita. Dopo di che, se la richiesta era per una sagra, Guglielmo consegnava loro un’offerta, se chiedevano denari per le squadre, Guglielmo prendeva il codice. «Articolo ...: E’ proibito a chiunque organizzare corpi armati per qualsiasi motivo, salvo che al Governo. Pena ...». Davanti al codice i fascisti restavano un po’ confusi... «Ma se ce n’è necessità»... balbettavano. «Se ce n’è necessità — rispondeva Guglielmo — bisogna modificare il codice. Finché il codice non è modificato, quel che mi chiedete di fare è un reato...».
Io credo che se tutti i cittadini italiani avessero conosciuto il codice e l’avessero adoprato, il fascismo non si sarebbe affermato. Comunque sia, davanti al codice e a questi ragionamenti i fascisti abbassavano i loro manganelli e se ne andavano senza torcerci un capello, con grande soddisfazione dei contadini che dalle loro case spiavano il nostro cancello per vedere cosa sarebbe successo.
Così era avvenuto che fino al 1926 non eravamo stati ancora — e Leo con noi — vittime dirette e neppure testimoni oculari degli abusi e delle violenze che da sei anni il fascismo prodigava alla povera Italia. C’è una grande differenza fra chi ha visto e patito le ingiustizie di un sistema e chi le ha soltanto «sentite raccontare».
Nel 1923, è vero, poco era mancato che all’apertura dell’anno accademico all’Università Leo fosse vittima degli studenti fascisti che, armati, avevano assalito coi pugni e coi calci dei moschetti gli studenti antifascisti, fra i quali Leo, che, inermi, in segno di disapprovazione erano usciti dalla sala dove il ministro della istruzione aveva cominciato a parlare. Ma l’affetto di un fascista suo antico compagno di scuola lo aveva salvato, ed essendo uscito incolume dalla baruffa, l’episodio non aveva lasciato gravi impronte nella sua anima.
Più dura per lui fu, nel 1924, la questione del Secolo. Il Secolo era un giornale quotidiano di Milano, uno dei più influenti in Italia, che da trent'anni pubblicava ogni settimana un articolo di Guglielmo. Avevamo al Secolo molti amici. Era una tribuna su cui fin da bambino Leo si era abituato a contare, in cui aveva pubblicato con pseudonimo i suoi primi articoli. Ora, nel 1924, il Secolo fu venduto per forza a una società amica del governo che esentò immediatamente Guglielmo da ogni collaborazione... e naturalmente anche Leo. Ma tanto il padre che il figlio potevano ancora nel 1924 trovare, sia pur con fatica, altre tribune, in cui scrivere, e quindi neanche questo avvenimento lo rattristò troppo.
Per quanto agli effetti pratici di minor conto, più impressionante fu per Leo l’assistere, nel luglio 1925, al processo Salvemini.
Si pubblicava da qualche anno clandestinamente a Firenze un foglio antifascista: «Non mollare». Il giornale era assai ben fatto, commentava con arguzia e brio, settimana per settimana, le sopraffazioni fasciste, diceva quel che si era fatto e quel che si sarebbe dovuto fare, metteva in luce i pericoli di certe misure decretate dai fasci, ecc. Il giornaletto faceva ampia propaganda soprattutto fra i fascisti. Ogni otto giorni il Questore trovava sul suo tavolo il «Non mollare», ma per quante ricerche la Questura avesse fatto non era riuscita a scoprire nè la tipografia, nè Veditore, nè gli autori. Su piste di stile puramente letterario l’ onrevole Gaetano Salvemini, deputato, era stato indiziato e malgrado l’immunità parlamentare, arrestato. Salvemini, molto amico di Bissolati, dirigeva un giornale non clandestino: l’Unità, centro di giovani forze e pieno di energia. Egli venne condotto in giudizio. Il processo fu grandioso. Figura originale, appassionato, imaginoso, parlatore divertentissimo, professore erudito, difensore di ogni idea nuova che gli studenti esponessero, Salvemini era odiatissimo dai fascisti e amatissimo dagli studenti, dai colleghi, da una parte considerevole del pubblico fiorentino. Al processo erano convenuti molti suoi allievi, molti deputati, molti professori colleghi di Salvemini. Vi erano anche parecchi giornalisti, parecchi avvocati, folla di curiosi, qualche fascista e molti simpatizzanti per l’antifascismo: Ugo Ojetti, corrispondente e critico d’arte del Corriere della Sera, Ansaldo, direttore del Lavoro di Genova; Rossetti, medaglia d’oro, affondatore della Viribus Unitis; Gonzales, capo del partito socialista di Milano; l’avvocato Nino Levi, difensore di Salvemini, ecc. C’era Leo e c’ero io.
In fondo alla lunga sala nuda, stranamente illuminata da una larga finestra in alto, vi erano il palco dei giudici e la gabbia degli imputati. Nella gabbia Salvemini, grosso, irsuto, tozzo, con la barba grigia ispida che gli copriva la faccia, gli occhi vivissimi, andava in su e in giù. con movimenti impacciati: pareva un orso alla catena.
Da più di tre mesi Salvemini era stato arrestato e nessuno aveva saputo più nulla di lui. Il pubblico era tutto in piedi. Era un avvicendarsi continuo di amici e conoscenti alla gabbia per augurare, compiangere, congratularsi; un chiedere e dare notizie. Salvemini era di ottimo umore, contento del carcere: «Ci si sta benissimo, perfetti riguardi da parte del direttore e dei compagni...», e giù a raccontare storielle dei suoi compagni di carcere, come se fosse stato a casa sua.
Alle undici cominciò il dibattito. Le testimonianze di accusa erano così vaghe e le arringhe di difesa così forti, che, per quanta buona volontà ci mettesse, il Tribunale dovette assolvere l’imputato. Alle dodici il processo era finito e l’accusato libero. Tutti gli amici andarono a congratularsi con Salvemini e tutti gaiamente si ripromisero di dargli la sera e l’indomani banchetti e riunioni. Quando uscimmo, Leo ed io tra i primi, vedemmo che il Palazzo del Tribunale era circondato da Camicie nere armate di manganelli, che Camicie nere a tutti gli angoli della piazza squadravano a uno a uno coloro che uscivano dal Tribunale, e li minacciavano o li bastonavano. Come Leo e io non fossimo bastonati, non so, ma molti altri lo furono.
Le Camicie nere urlavano che avrebbero ammazzato Salvemini e gli amici rimasti con lui quando fossero usciti. Questi si asserragliarono nel Tribunale sperando che quegli energumeni se ne sarebbero andati e telefonarono in Questura, ma in Questura nessuno rispose e sulla piazza era un continuo affluire di nuovi squadristi con manganelli. A guardia del Tribunale vi era un sottile cordone di gendarmi che avevano ordine di «non tirare».
Il Tribunale di Firenze si apre su una piazza lunga e irregolare — Piazza S. Firenze — a cui confluiscono molte stradine che provengono da quartieri popolari e dalla Piazza della Signoria. C’erano parecchie porte nel Tribunale, una dava su una via laterale dove c’era un negozio di uccelli. Tutti sapevano che questo negozio aveva due uscite. Dopo alcune ore di attesa gli amici di Salvemini furono fatti passare dai carabinieri in questa bottega. Ma i fascisti sorvegliavano l’altra uscita; allora i carabinieri chiusero le porte e fecero cordone dinanzi ad esse; ma i fascisti accorsero a centinaia e li soverchiarono, forzarono le porte e ferocemente si gettarono, in mezzo allo strepito degli uccelli, sui malcapitati anch’essi in gabbia, riducendoli in uno stato pietoso. Un’ambulanza venne a salvarli e a condurli all’ospedale, dove dovettero restare chi cinquanta, chi novanta giorni, senza che agli assalitori venisse infitta alcuna punizione.
Restava Salvemini sempre dentro il Tribunale. Gli uscieri insistevano perchè uscisse. Il Questore lo sconsigliava dal tornare nella sua casa e il proprietario ne lo scongiurava: «Le Camicie nere si erano appiattate al terreno della casa, con delle bombe, pronti a scagliarle non appena Salvemini fosse entrato».
Salvemini telefonò al direttore della prigione perchè lo riprendesse. Il direttore rispose che non poteva farlo senza ordini. Accettò però di mandarlo a prendere col carrozzone delle prigioni e di tenerlo fino a mezzanotte. E così fecero. A mezzanotte Salvemini uscì e accettò l’ospitalità che i Rosselli gli avevano offerta; e questo gli salvò la vita poiché per tre giorni le Camicie nere lo aspettarono a casa sua.
Sempre di notte, dopo tre giorni egli partì per Napoli dove fu ospite di Giustino Fortunato, il quale lo accolse nella sua villa di Sorrento. Di là Salvemini potè poi abbandonare l’Italia. Tutto questo naturalmente lo sapemmo alcune settimane più tardi. Sapemmo però, il terzo giorno dopo il processo, che la casa dei Rosselli, amici carissimi di Leo, era stata devastata: pianoforte, quadri, statue rotti a martellate, libri, mobili bruciati. Questa devastazione, che Leo vide il giorno dopo, era impressionante; e non meno impressionante fu in seguito uno spettacolo di miseria morale, quando amici, professori, studenti, giornalisti, che avevano ossequiato Salvemini in tribunale, si affrettarono a smentire a uno a uno di averlo mai visto, conosciuto e approvato!
Per fortuna Leo non ebbe ad essere spettatore dei tragici eventi del 29 settembre dello stesso anno (era andato soldato il 1° settembre) quando furono in maniera orrenda ammazzati l’avvocato Consolo e l’ingegnere Pilati: col quale eccidio Leo pensò più tardi di aprire il suo romanzo sull’Italia nuova. Pilati e Consolo non erano degli antifascisti militanti, per quanto Consolo fosse stato preso di mira al tempo del processo Salvemini perchè si erano trovate nel suo studio copie del «Non mollare». In verità a Firenze si disse che il loro principale torto era di essere l’uno, Consolo, un avvocato, e Pilati un costruttore, integerrimi. Il Consolo era stato nominato tutore di uno scemo ricchissimo. Coloro che ne avevano avuto la tutela in precedenza avevano sfruttato, si diceva, in modo indegno il povero infermo. Questi possedeva delle case nel centro della città. Gli antichi tutori e gli inquilini si erano tacitamente accordati per fitti irrisori che venivano completati con sussidi dati brevi manu ai tutori stessi. L’avvocato Consolo si era opposto a questa combinazione e aveva rialzato assai i fitti agli inquilini e tolto di mezzo chi aveva organizzato l’imbroglio.
Pilati era un grande mutilato di guerra; gli mancavano un braccio e una gamba; era amico di Mussolini. Egli era stato incaricato di far costruire delle case popolari per i combattenti, e siccome non lucrava sulle forniture e non lasciava lucrare, le sue case, meglio costruite, costavano assai meno delle altre case popolari e potevano concedersi a fitti minori. Questo aveva provocato le ire degli altri costruttori, tutti fascisti della prima ora. Consolo e Pilati erano stati avvertiti che i fascisti tramavano contro di loro, ma non vi credettero, e furono nello stesso giorno barbaramente assassinati nelle loro case, mentre le mogli invocavano indarno la questura col telefono.
Leo fu invece spettatore nel giugno del ’26, appena tornato dal servizio militare, di un incidente di pochissimo conto in se stesso, ma di grave insegnamento psicologico.
Erano abituali allora le «spedizioni punitive». Senza una ragione apparente, comparivano a un tratto nelle strade squadre di fascisti, entravano nelle case, bastonavano coloro che vi si trovavano, gettavano dalla finestra quadri, arredi, mobili, che bruciavano insieme ai libri e alle carte delle vittime. Queste «spedizioni punitive» erano divenute tanto abituali (i Rosselli ne avevano già subìte tre), che le Assicurazioni di Venezia avevano aperto categorie speciali di assicurazioni contro i «moti popolari». Noi ci eravamo assicurati e Guglielmo alla formula solita aveva fatto aggiungere: «col consenso delle autorità superiori».
Un giorno del mese di giugno Guglielmo stava «limando» il secondo volume del suo romanzo «Le due verità» (il primo volume era già uscito), quando salirono da noi alcuni amici spaventati ad avvertirci che «una squadra punitiva» avanzava lungo il viale con minacciose intenzioni.
Guglielmo prende allora il manoscritto del romanzo e incarica Leo di portarlo al nostro padrone di casa e amico, Maestro Franchetti (autore della «Germania» e dell’ «Israel»), pregandolo di tenerlo per qualche ora finchè la minaccia sia passata. Il Franchetti — che abitava una palazzina nello stesso giardino (la missione di Leo non poteva quindi in alcun modo essere sospettata dall’esterno) — fa una scenata a mio figlio, rifiuta di prendere il manoscritto, e poco dopo ci manda a dire dal portinaio (spia della Questura) che egli si meraviglia assai che Ferrero gli mandi delle «carte compromettenti»; che ricordi bene di non seppellirle in giardino, perchè egli stesso, barone Franchetti, denuncerebbe la cosa alla Questura.
Le squadre devastatrici non entrarono nella nostra casa e il manoscritto fu salvo. Questo atto però di incredibile viltà da parte di un intellettuale, che sapeva quale importanza avesse per uno scrittore un opera a cui da dieci anni lavorava; questa vigliaccheria da parte di un amico, il figlio del quale era stato per noi un secondo figlio, impressionò Leo, come prova sopratutto di quella bassezza morale che la tirannia improvvisamente rivela e favorisce in tutti gli ambienti.
Bisogna aggiungere che un altro intellettuale, questa volta povero, il professor Mengin, si incaricò in altre circostanze di tenere presso di sè quello stesso manoscritto, d’altronde non compromettente, poichè si trattava di un romanzo.
Fin qui si trattava di incidenti senza grande importanza personale; gli attachi personali dovevano cominciare solo nel novembre dello stesso anno.
C’erano stati nel ’26 vari attentati più o meno autentici contro Mussolini, quello della Gibson in aprile e quello di Lucetti in settembre. Questi attentati erano stati occasione di molti arresti sensazionali e di una intensificazione di spedizioni punitive, che non avevano cambiato però la linea generale del regime.
Il 31 ottobre del ’26 a Bologna un misterioso colpo di fucile sarebbe stato tirato contro il duce (dico «misterioso» perchè nessuno sentì lo sparo), e il colpo fu attribuito a un ragazzo, quattordicenne appena, certo Zaniboni che non aveva mai manifestato truci propositi contro il duce ed era avanguardista. Il presunto reo fu ucciso sul posto, dilaniato e portato in corteo per Bologna issato sulle picche. Dato che il reo era stato riconosciuto e trucidato e il duce era indenne, tutto faceva presumere che l’attentato sarebbe finito, come le altre volte, con qualche arresto e qualche assassinio. E gli assassina e le distruzioni non mancarono. Non solo i giornali antifascisti come il «Mondo» di Roma, «Il Lavoro» di Genova, l’«Unità» di Firenze e «La Cultura» ebbero distrutte le sedi e bastonati a sangue i redattori, ma anche il «Gazzettino di Venezia», «Il Cittadino di Brescia» e una quantità di giornali di provincia che non facevano della politica, ebbero le sedi assalite e distrutte. Non solo le sedi e le cooperative dei partiti popolare e socialista furono messe a ferro e a fuoco, ma preti, rabbini e personaggi eminenti di tutte le categorie e i partiti furono malmenati, ebbero le case bruciate, le suppellettili distrutte.
Fin qui niente di nuovo. Il nuovo, lo strano fu che si trasse partito da questo presunto attentato per fare una rivoluzione nella tattica fascista. Si sostituì alla tattica a base di violenza — manganelli, bombe, incendi, censura, espulsioni, assassinii — il cui effetto era visibile e controllabile, che lasciava ancora la possibilità di lotta a chi voleva rischiare la propria vita e la propria situazione, e che permetteva ad ogni modo qualche reazione nel pubblico, la tattica a base di calunnie, di silenzi, di menzogne, di spionaggi, di soppressioni, contro cui non era più possibile nessuna reazione pubblica o privata. Proibito esporre nei giornali le violenze compiute dai fascisti, proibito pubblicare nei giornali resoconti di libri o critiche di quadri di autori antifascisti, di esporre libri e quadri in Vetrina, ecc. Era la tattica dei gas asfissianti che penetrano dappertutto, che ammazzano senza permettere alla vittima di lanciare un grido, senza che gli amici possano conoscere che l’amico è morto e perchè è morto.
Ciò si ottenne con le «leggi eccezionali» stabilite subito dopo l’attentato, le quali accordavano di diffidare, condannare e mandare al confino chi l’autorità voleva, senza aver da render ragione alla vittima del proprio operato, e più tardi con le leggi sulla stampa che permettevano di sopprimere giornali, riviste, libri che non piacessero al regime, senza specificare la causa della soppressione, con l’istituzione di un Tribunale Speciale che poteva condannare un cittadino incensurato, al di fuori delle leggi civili e penali esistenti, senza che ai giornali fosse consentito di dare neppure il nome delle vittime; con le misure che imponevano il silenzio assoluto alle vittime e agli amici delle vittime, sotto pena di inasprimento della condanna di queste; con leggi retroattive che facevano delitto di azioni lecite fino al giorno avanti; con provvedimenti i quali permettevano ai fascisti di fare quanto loro pareva comodo contro gli antifascisti, senza alcuna limitazione legale.
Prima del presunto attentato vi era una censura rigorosissima; i giornali uscivano qualche volta lardellati di bianco, le sedi dei giornali antifascisti e il loro macchinario erano continuamente esposti ad assalti e distruzioni, i giornalisti antifascisti correvano il rischio di essere bastonati, olioricinati, mandati in un altra città o anche all’altro mondo, ma i giornali d’opposizione esistevano ancora, e se le squadre fasciste li bruciavano, numerose copie arrivavano ancora a destinazione, e vi erano ancora dei giornalisti che potevano esprimere le proprie idee.
Dopo, i giornali antifascisti furono soppressi, i giornalisti liberi furono mandati al confino o processati «per pederastia o per truffa».
Prima di questo attentato, se i giornali d’opposizione erano censurati vi era ancora la risorsa dei libri. Guglielmo aveva potuto pubblicare l’anno avanti «Da Fiume a Roma» e «La Democrazia in Italia», in cui indirettamente criticava il governo e avvertiva gli italiani dei pericoli della dittatura.
Prima del supposto attentato, se gli esponenti dei partiti socialista e popolare erano spesso bastonati e qualche volta ammazzati, se talora venivano loro rasi i capelli e la barba, se per dileggio venivano portati in processione con i connotati così cambiati o anche nudi..., essi potevano ancora proclamarsi a «antifascisti», «socialisti », o «popolari»; e il pubblico sapeva di questi dileggi e poteva compatire o ammirare chi ne era oggetto, e se le vittime erano espulse dalla loro città, dai loro affari, dal loro giornale, esse potevano ancora nella nuova città in cui forzatamente si trasferivano, entrare in un altro studio, in un altro giornale o alla peggio farsi facchini o bigliettari dei tram, com’era avvenuto di parecchi avvocati o ingegneri oppositori del regime; ma dopo le nuove leggi fu vietato sotto le pene più severe di dar lavoro agli espulsi.
Fino al presunto attentato, l’antifascista che non aveva più la forza di vivere aveva ancora la risorsa di suicidarsi e di far sapere agli amici perchè si era suicidato, e l’antifascista bastonato poteva parlare della sua bastonatura con gli amici al caffè. Ai letterati ed ai professori antifascisti restava ancora la risorsa di scoprire nelle antiche storie persecuzioni simili a quelle di cui erano vittime e di far parte delle loro scoperte agli amici e qualche volta agli allievi, alle riviste, e i professori potevano ancora nelle scuole parlare di Mazzini, leggere passi di Seneca, di Tacito, di Platone, che biasimavano quando succedeva di analogo nei loro tempi.
Prima dell’ attentato i direttori di teatro potevano ancora presentare commedie di antifascisti o almeno di afascisti come Leo o come Bracco, e potevano riesumare le opere di Cavallotti, e nelle esposizioni potevano ancora figurare delle Madonne o dei ritratti dipinti da antifascisti o da afascsti. E i passanti potevano leggere nelle strade le antiche lapidi ricordanti le gesta dei grandi liberali del secolo XIX che avevano ben meritato dalla patria, come Giuseppe Ferrari o Cattaneo. Ma dopo l’attentato non più. Le strade intitolate ai nomi di liberali antichi, che «si supponeva» sarebbero stati antifascisti, furono ribattezzate, le lapidi smurate, i monumenti avulsi; gli espositori non fascisti non ebbero più il permesso di esporre, nè gli scrittori di pubblicare...
Prima del presunto attentato restava ancora — suprema risorsa per i perseguitati, i bastonati, gli spiriti liberi e intraprendenti — la via dell’esilio volontario, e furono decine di migliaia gli intellettuali liberali o repubblicani, gli operai e i contadini socialisti o popolari che partirono per terre libere. L’emigrazione era allora facile, tutti i paesi reclamavano braccia per aiutarli nella ricostruzione dopo le rovine della guerra, e l’idea che si potessero negare i permessi di lavoro pareva un’infamia del medio evo. Che si potessero poi negare i permessi di soggiorno non era neppure concepibile.
Certo la vita non è mai stata facile per gli esuli, nè era agevole per gli intellettuali all’estero trovare un lavoro intellettuale. Ma restava tuttavia ad essi la risorsa di trovarsi un lavoro manuale, e così fecero parecchi, Rossetti e Schiavetti in testa, professore il secondo, ingegnere, medaglia d’oro il primo, che divennero tipografi in Francia.
Ma dopo il presunto attentato più niente. Gli italiani anche afascisti furono letteralmente chiusi in una gabbia di filo spinato, furono tolti i passaporti, e uscire dall’Italia divenne un reato che poteva costare la vita.
In quel tempo Leo cominciò a scrivere il suo diario, che faccio precedere e seguire da due lettere ad amici, le quali riassumono meglio ancora del diario stesso il suo atteggiamento dinanzi agli avvenimenti.