Diario di un privilegiato sotto il fascismo/Prefazione
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prefazione
Leo Ferrero, figlio dello storico Guglielmo e nipote di Cesare Lombroso, morì il 26 agosto 1933 in una sciagura automobilistica, mentre conduceva nel Nuovo Messico un’inchiesta per La Dépêche, a trent’anni, dopo aver mostrato di tener fede alle promesse e quando gli spiriti più attenti incominciavano a riconoscere in lui una forza chiarificatrice. Egli apparteneva a quella aristocrazia europea dell’ingegno dalla quale in quegli anni, mentre gli orizzonti si andavano oscurando, attendevamo ciò che Bacone chiamò partus masculus aetatis nostrae, la dimostrazione che la civiltà non è stata una fragile contingenza della storia.
Leo possedeva i mezzi necessari alle opere durevoli: indagine metodica e forza di sintesi, quella disposizione cordiale che costringe la vita a rivelarsi, magnifica cultura e consapevolezza della «realtà effettuale», e le qualità letterarie comunicative: la leggerezza del dire e del sottintendere, l′immagine pronta e nuova, la virtù di giungere rapidamente al fondo delle questioni e delle anime. Il suo ingegno si alzava sopra un solido fondo morale; era onesto come lo sono gli uomini insensibili alla carriera, riscuoteva, immediate simpatie perchè possedeva la virtù più invocata e più rara in epoche tempestose, la capacità di liberamente prescriversi una disciplina e di osservarla anche col sacrificio di qualunque interesse pratico. La sincerità e vivacità del suo senso morale fornivano sostrato e controllo alla sua ispirazione.
Non si trova nelle recenti generazioni italiane un secondo esempio di così straordinaria precocità; a tredici anni, nel 1916, Leo era presidente della «Lega latina della giovinezza associazione destinata, in piena guerra, a organizzare la collaborazione intellettuale e morale delle nuove generazioni italiane e francesi, ed esordiva come articolista bilingue nel le riviste Vita e Jeunes Auteurs, a diciotto anni pubblicava La palingenesi di Roma, saggio erudito sulla storiografia romana e la sua varia fortuna dal medio evo al Rinascimento sino a Machiavelli, a diciannove i suoi primi drammi erano rappresentati con fortuna a Roma, richiamando l'attenzione e il favore di autori come Pirandello e di critici come Tilgher. Ma il giovanissimo scrittore non impiegò mai la propria fede di nascita come un comodo passaporto o come uno stendardo di fatuità.
Nel tempo in cui si trasferivano in Europa le muraglie della Cina, e si spolveravano le ossa dell′antropoide di Neanderthal per scodellare con inaudita sicumera spropositi decrepiti, egli sentí la necessità di recarsi oltremonte e oltremare, non alla maniera dei redattori viaggianti, ma per capire l’uomo a tutte le longitudini. Il volume su Parigi, il saggio su Londra, gli articoli inviati alla Dépèche da Nuova York e dal Messico sono il documento della sua agile attitudine a osservare, assimilare, conchiudere. In questa corrispondenza, troncata sul principio dalla sciagura che lo uccise, vi è una maniera spigliata di alto giornalismo, la prontezza a cogliere l′episodio significativo, uno sguardo penetrante che ricerca nel caotico groviglio dei fatti le ermetiche correnti della storia, le suggestioni di un temperamento visivo che rende pittoricamente cose persone folle paesaggi.
Da alcuni tra coloro che resero pubbliche onoranze alla memoria di Leo si parlò di lui come d’una figura del Rinascimento, nel senso di eclettica versatilità, e invero sembra che nella sua breve vita egli abbia voluto rapidamente esplorare tutti i settori della propria intelligenza nei momenti della creazione lirica e della riflessione critica: poesia teatro romanzo critica d’arte studio politico saggio storico, e le opere che ha lasciato, il cui pregio è per noi accresciuto dall’esser rimaste sole, sono altrettante impostazioni e prese di possesso in ciascuno di questi dominii. Egli voleva rispondere alla vita e operare su di essa con tutti i mezzi a disposizione dello scrittore. I drammi La chioma di Berenice e Le campagne senza Madonna, esili come azione, contengono gli abbandoni musicali ed elegiaci della sua adolescenza toscana. Nati, come accento, nell’atmosfera del «crepuscolarismo», essi hanno uno stile fresco, saporito, e rivelano già una vigile coscienza d’artista, un dominio della parola, di tutte le sue risonanze gradazioni ed echi, che non è piccolo acquisto in una lingua, e che Leo estese rapidamente dall’italiano al francese e all’inglese.
Il Leonardo o dell’arte (Ed. Buratti, 1929) preceduto da uno studio del Valéry su Leonardo e i filosofi, è una ricerca, compiuta attraverso il Trattato della pittura, del principio estetico di Leonardo in rapporto agli altri artisti del Rinascimento. Mentre per gli altri artisti il quadro doveva essere una imitazione della natura, veduta come opera d’arte in se stessa o pittura in profondità, per Leonardo il quadro doveva essere continuazione e commento della natura, nel quale fosse presente quella medesima legge di necessità o del minimo mezzo, operante nella vita. Esaminata la differenza tra il bello nel vero e in arte, e il criterio del giudizio estetico, Leo mette acutamente in luce l’idea centrale del Trattato, secondo cui la superiorità dell’arte sul vero è risposta in ciò che la natura è un infinito ottenuto con mezzi infiniti, mentre l’arte è un infinito ottenuto con mezzi finiti. Ma a prescindere dalle sue stesse conclusioni teoretiche, questo studio è interessante per il rigore ostinato con cui è condotto, per i concetti chiarificatori che contiene e per l’intellettuale amore del bello, l’ardore di comprensione da cui è nato.
Più d’ogni altro il problema politico urgeva al suo spirito. Il saggio Paris dernier modèle che l’Occident (Ed. Rieder 1932), è uno studio e giustaposizione delle civiltà italiana e inglese, accompagnato da un’ indagine su Parigi come punto d’interferenza delle due temperie storiche. La preoccupazione di difendere la civiltà occidentale contro il pericolo di un ricorso barbarico anima queste pagine, nelle quali il carattere della capitale francese con la sua élite secolare e la sua moltitudine cosmopolita, con la funzione sociale degli intellettuali nei cenacoli, delle dame nei salotti, della burocrazia negli uffici, è definito in una serie di notazioni precise e aderenti, molte delle quali hanno sapore o valore di scoperta.
Di ispirazione politica è anche il dramma Angelica, ov’è prospettata in forma favolistica la lotta politica del nostro tempo. Gli uomini, le ragioni e gli impulsi che muovono gli uomini ad agire, le istituzioni e i loro contrasti sono qui guardati col distacco dello scrittore sazio di storia, dotato di vista lontana. Nella visione plastica e spirituale dell'Italia, negli accenti coi quali nell'ultima scena il protagonista morente rievoca la sua Patria si sente che l’autore ha versato i propri sentimenti, vibra in essi la commozione di un patriota poeta esule dalla sua dolce terra, e a questo dramma, uno di quei capolavori di piccola mole che sono il sale delle letterature, sarà affidato nei secoli il nome di Leo Ferrero.
Oltre ad alcune opere minori, pubblicate postume a cura della madre Gina Lombroso in edizioni francesi o nelle edizioni italiane di Capolago e di Lugano, rimangono i Quaderni, ove Leo annotava letture conversazioni progetti: la messa a punto della vita d'ogni giorno; e, tra questi, il presente Giornale di un privilegiato sotto il fascismo, corredato dalla madre d'una introduzione che ne chiarisce la genesi, assume il valore d’una testimonianza storica.
Il Diario va dall'ottobre 1926 al dicembre dell'anno seguente, allorché Leo abbandonò l'Italia ove la vita gli era resa impossibile dalle condizioni di meticolosa ostilità o di aperta persecuzione riservate dal regime agli intellettuali indipendenti. Per noi, sopravvissuti ad altre tragedie, quegli anni e quegli eventi acquistano nel ricordo le loro giuste proporzioni prospettiche, ma ciò non toglie nulla all'interesse d'una rievocazione in cui vediamo sferrarsi i primi assalti contro una civiltà che tutti gli uomini civili credevano allora pacificamente e fermamente acquisita.
Il regime si consolidava di giorno in giorno eliminando le superstiti resistenze sempre più incerte e sporadiche. Nell’ottobre del ’26, dopo il presunto attentato di Bologna contro Mussolini, cominciano i «giri di vite», sorge il Tribunale Speciale, spinta dalla sua inevitabile logica interna la dittatura s’inoltra nel suo pericoloso cammino.
Fin dal principio Leo vede lucidamente che la forza del dittatore risiede sopratutto in una deficienza morale degl'italiani, nella loro mancanza di principi, di fede, di coerenza, onde l’universale docilità alla sopraffazione isola i rari oppositori in un vuoto torricelliano e ne fa agevole bersaglio del potere. La dittatura non degrada il carattere di nessuno, come tutti stoltamente ripetono, ma rivela la generale mancanza di carattere, e in questo senso essa è crudelmente chiarificatrice, poiché mette a nudo quale sia il vero animo di ciascuno, quale sia per ciascuno, nel momento decisivo, la scelta tra ragioni ideali e ragioni pratiche. Il più delle volte la paura va molto più in la dei pericoli reali, il conformismo supera i calcoli di ogni ragionevole prudenza, l’acquiescenza al sopruso che colpisce il vicino diviene tacito e non sempre inconscio invito a calcare su di esso la mano.
Ed ecco, cominciando la vigilanza poliziesca intorno all'abitazione della famiglia Ferrero, prima in città, quindi nella campagna dell'Ulivello, scomparire amici e conoscenti sino allora assidui, i quali sorridenti e deploranti si ripresentano se la vigilanza vien tolta, e di nuovo si ecclissano quando ricompaiono sul cancello gli agenti col taccuino, sicché il contegno degli amici è per i Ferrero il barometro delle disposizioni nutrite verso di loro dall'Olimpo fascista. Ecco le innumerevoli miserie piccole e grandi, comiche o pietose, dalle quali l’animo di alcuni fra noi fu segnato di una tristezza che nessuna «liberazione» potrà mai dissipare.
Rimangono gli amici stranieri, stupefatti e costernati, ma anch’essi incapaci di porgere un efficace aiuto, dinanzi ai quali Leo sente che la crisi non è soltanto italiana, ma interessa la intera civiltà occidentale e prelude al suo tramonto.
Questo Diario è un atto d’accusa; e insieme al suo valore di documento storico e psicologico esso acquisterebbe un rilievo educativo se ogni lettore avesse buona memoria e scorrendone le pagine sinceramente interrogasse se stesso e il proprio passato, se ognuno si convincesse che l’amore per la libertà si misura solo quando essa è in pericolo, verità tanto lapalissiana quanto ignorata. Scrivendolo, l’autore non pensava certo alla pubblicazione; nei ritagli di tempo o in brevi minuti prima del sonno egli fissava fatti pensieri incontri, sottraeva alla dispersione un materiale grezzo, quale sussidio della memoria per eventuali elaborazioni, e infatti l’ispirazione vitale del Diario fu poi Versata in Angelica, ma anche così nudo e frettoloso esso è l’opera d’uno scrittore, ogni parola del quale, scritta o pronunciata, può resistere al tempo. Pur senza il fren dell’arte, molte di queste pagine, scritte a matita e non rilette, entrano di pieno diritto nel dominio dell’arte, specie ove Leo abbozza velocemente tipi di questori, agenti, ospiti, compagni di scuola, figure vive e respiranti che non usciranno più dalla memoria del lettore.
Uno scrittore è restio a mettere in mano di altri i propri manoscritti non riveduti, come una donna a mostrarsi prima della toeletta; tuttavia con Leo questa indiscrezione non riserba sorprese, come non ne riserba una donna naturalmente bella. Ma per giudicare Leo artista e pensatore abbiamo le altre sue opere nelle quali consapevolmente egli diede la misura di sè; qui ci interessa il proprio dell'uomo, che vale più dello stesso ingegno, ci interessa la sua onestà, il coraggio senza gesti, la prontezza a pagare il prezzo che nelle ore cruciali all'onestà e al coraggio viene richiesto.
Egli comprese che il fascismo non era la causa bensì l’effetto d’un crollo di valori morali, e da buon lottatore lavorò senza tregua alla loro restaurazione. Presentì le dimensioni e la profondità della nostra tragedia? Noi che ne siamo sommersi avvertiamo nel Diario accenti più amari di quelli ispirati dalla preparazione all’esilio; e più doloroso diviene il nostro rimpianto, perchè egli era una forza su cui si poteva contare per l’avvento di quel nuovo onde la voce della Casa Bianca ebbe talora prestigiose assonanze con la voce del Vaticano: oggetto di un aspettazione delusa. Un conforto ci viene nondimeno sentendo ancora una volta circolare nelle sue pagine le correnti del suo pensiero e vedendo disegnarsi attraverso la trasparenza della parola la sua immagine familiare al nostro affetto e insieme misteriosa per la luce diversa che il destino stende su di lui e che si comunica ai nostri ricordi.
Leo apparteneva all’esiguo manipolo di giovani i quali in ogni paese respinsero e respingono gli adescamenti delle comodità e secondo il monito dell'Evangelista scelgono la porta stretta, quella del pensiero.
Quando morì, unanime fu in Europa e in America il compianto; in Italia fummo due a parlare di lui, Nello Rosselli, suo compagno di studi a Firenze, in Nuova Rivista Storica, e io in Solaria. Ora tutti possono farlo, ed è un debito che l'Italia ha verso se stessa, poiché essa deve ricuperare i suoi scrittori perduti durante il ventennio, deve soprattutto accogliere le parole di verità e d’amore che i suoi figli più chiaroveggenti le rivolsero, amanti delusi, dalle solitudini dell' esilio.
PIERO OPERTI
Torino, marzo 1946.