Atto terzo

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Atto secondo

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ATTO TERZO

SCENA I

Portico della reggia, corrispondente alle sponde del mare, con barca e marinari pronti per la partenza d’Alceste.

Olinto e poi Alceste e Fenicio.

Olinto. Sarò pure una volta

senza rival. Da questo lido alfine
vedrò Alceste partir. La sua tardanza
però mi fa temer. Si fosse mai
pentita Cleonice! Ah! non vorrei...
Ma no: di sua dimora
cagion gli estremi uffici
forse saran degl’importuni amici.
Alceste. Signor, procuri indarno (a Fenicio, nell’uscire)
di trattenermi ancor.
Olinto.   Son pronti, Alceste,
i nocchieri e la nave, amico è il vento,
placido è il mar.
Fenicio. (ad Olinto) Taci, importuno. Almeno
differisci per poco (ad Alceste)
la tua partenza. Io non lo chiedo invano.
Resta. Del mio consiglio
non avrai da pentirti. Infino ad ora
sai pur che amico e genitor ti fui.
Olinto. (Mancava il padre a trattener costui!)
Alceste. Ah! della mia sovrana al tuo consiglio
il comando s’oppone.
Olinto. Alceste, a quel ch’io sento, ha gran ragione.

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Fenicio. E puoi lasciarmi? E vuoi partir? Né pensi

come resta Fenicio? Io ti sperai
piú grato a tanto amor.
Alceste.   Deh! caro padre,
ché tal posso chiamarti
mercé la tua pietá, non dirmi ingrato,
ché mi trafiggi il cor. Lo veggio anch’io
che attender non dovevi
questi del tuo sudor frutti infelici.
Anch’io sperai, crescendo
su l’orme tue per il sentier d’onore,
chiamarti un dí sul ciglio
lagrime di piacer, non di dolore.
Ma chi può delle stelle
contrastare al voler? Soffri ch’io parta.
Forse, cosí partendo,
meno ingrato sarò: forse talvolta
comunica sventure
la compagnia degl’infelici. Almeno,
giacché in odio son io tanto agli dèi,
prendano i giorni miei
solamente a turbar: vengano meco
l’ire della fortuna,
e a’ danni tuoi non ne rimanga alcuna.
Fenicio. Figlio, non dir cosí. Tu non conosci
il prezzo di tua vita; e questa mia,
se a te non giova, è un peso
inutile per me.
Alceste.   Signor, tu piangi?
Ah! non merita Alceste
una lagrima tua. Questo dolore
prolungarti non deggio. Addio! restate.
  (in atto di partire)
Olinto. (Lode agli dèi!)
Alceste.   Vi raccomando, amici,
l’afflitta mia regina. Avrá bisogno

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della vostra pietá nel caso amaro.

Chi sa quanto le costa
la sua virtú! fra quante smanie avvolto
è il suo povero cor! Trovarsi sola;
disperar di vedermi; aver presenti
le memorie, il costume, i luoghi... Oh Dio!
Consolatela, amici. Amici, addio!
  (nel partire, s’incontra in Cleonice)

SCENA II

Cleonice e detti.

Cleonice. Férmati, Alceste.

Alceste.   Oh stelle!
Olinto.   (Un altro inciampo
ecco alla sua partenza.)
Alceste.   A che ritorni
regina, a rinnovar la nostra pena?
Cleonice. Fenicio, Olinto, in libertá lasciate
me con Alceste.
Olinto.   Il mio dover saria
coll’amico restar.
Cleonice.   Tornar potrai
per l’ultimo congedo.
Olinto. Tornerò. (Ma ch’ei parta io non lo credo.) (parte)
Fenicio. Giungi a tempo, o regina. A caso il cielo
forse non prolungò la sua dimora:
di renderlo felice hai tempo ancora.
          Pensa che sei crudele,
     se del tuo ben ti privi;
     pensa che in lui tu vivi,
     pensa ch’ei vive in te.
          Rammenta il dolce affetto
     che ti rendea contenta,
     ed il candor rammenta
     della sua bella fé. (parte)

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SCENA III

Cleonice ed Alceste.

Cleonice. Alceste, assai diverso

è ’l meditar dall’eseguir le imprese.
Finché mi sei presente,
facile credo il riportar vittoria,
e parmi che l’amor ceda alla gloria.
Ma, quando poi mi trovo
priva di te, s’indebolisce il core,
e la mia gloria, oh Dio! cede all’amore.
Alceste. Che vuoi dirmi perciò?
Cleonice.   Che non poss’io
viver senza di te. Se Alceste e il regno
non vuol ch’io goda uniti
il rigor delle stelle a me funeste,
si lasci il regno e non si perda Alceste.
Alceste. Come!
Cleonice.   Su queste arene
rimaner non conviene. Aure piú liete
a respirare altrove
teco verrò.
Alceste.   Meco verrai! Ma dove?
Cara, se avessi anch’io,
sudor degli avi miei, sudditi e trono,
sarei, piú che non sono,
facile a compiacere il tuo disegno;
ma i sudditi ed il regno,
che in retaggio mi die’ sorte tiranna,
son pochi armenti ed una vil capanna.
Cleonice. Nel tuo povero albergo
quella pace godrò, che in regio tetto
lunge da te questo mio cor non gode.

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Lá non avrò custode,

che vegliando assicuri i miei riposi;
ma i sospetti gelosi
alle placide notti
non verranno a recar sonni interrotti.
Non fumeran le mense
di rari cibi in lucid’oro accolti;
ma i frutti, ai rami tolti
di propria man, non porteranno, aspersi
d’incognito veleno,
sconosciuta la morte in questo seno.
Andrò dal monte al prato,
ma con Alceste a lato;
scorrerò le foreste,
ma sará meco Alceste. E sempre il sole,
quando tramonta e l’occidente adorna,
con te mi lascerá,
con te mi troverá quando ritorna.
Alceste. Cleonice adorata, in queste ancora
felicitá sognate,
amabili deliri
d’alma gentil che nell’amore eccede,
oh come chiaro il tuo bel cor si vede!
Ma son vane lusinghe
d’un acceso desio...
Cleonice.   Lusinghe vane!
Di ricusare un regno
capace non mi credi?
Alceste.   E tu capace
mi credi di soffrirlo? Ah! bisognava
celar, bella regina,
meglio la tua virtude e meno amante
farmi della tua gloria. Io fra le selve
la tua sorte avvilir? L’anime grandi
non son prodotte a rimaner sepolte
in languido riposo; ed io sarei

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all’Asia debitor di quella pace,

che, fra tante vicende,
dalla tua man, dalla tua mente attende.
Deh! non perdiamo il frutto
delle lagrime nostre
e del nostro dolor. Tu fosti, o cara,
quella che m’insegnasti
ad amarti cosí. Gloria sí bella
merita questa pena. Ai dí futuri
l’istoria passerá de’ nostri amori,
ma congiunta con quella
della nostra virtude; e, se non lice
a noi vivere uniti
felicemente infino all’ore estreme,
vivranno almeno i nostri nomi insieme.
Cleonice. Deh! perché qui raccolta
tutta l’Asia non è? ché l’Asia tutta
di quell’amor, che in Cleonice accusa,
nel tuo parlar ritroveria la scusa.
Io vacillai; ma tu mi rendi, o caro,
la mia virtude, e nella tua favella
quell’istessa virtú mi par piú bella.
Parti; ma prima ammira
gli effetti in me di tua fortezza. Alceste,
vedrai come io t’imito:
seguimi nella reggia. Il nuovo sposo
da me saprai. Dell’imeneo reale
ti voglio spettator.
Alceste.   Troppa costanza
brami da me.
Cleonice.   Ci sosterremo insieme,
emulandoci a gara.
Alceste.   Oh Dio! non sai
il barbaro martír d’un vero amante,
che di quel ben, che a lui sperar non lice,
invidia in altri il possessor felice.

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Cleonice.   Io so qual pena sia

     quella d’un cor geloso;
     ma penso al tuo riposo:
     fidati pur di me.
          Allor che t’abbandono,
     conoscerai chi sono;
     e l’esserti infedele
     prova sará di fé. (parte)

SCENA IV

Alceste e poi Olinto.

Alceste. Di Cleonice i detti

mi confondon la mente. Ella desia
ch’io la rimiri in braccio ad altro sposo,
e poi dice che pensa al mio riposo.
Questo è un voler ch’io mora
pria di partir. Ma s’ubbidisca. Io sono
per lei pronto a soffrire ogni cordoglio,
e il suo comando esaminar non voglio.
Olinto. Sei pur solo una volta! Or non avrai
chi differisca il tuo partir. Permetti
che in pegno d’amistá l’ultimo amplesso
ti porga Olinto.
Alceste.   Un generoso eccesso
del tuo bel cor la mia partenza onora;
ma la partenza mia non è per ora.
Olinto. Come! per qual ragione?
Alceste. La regina l’impone.
Olinto.   Ogni momento
vai cangiando desio.
Alceste. Il comando cangiò: mi cangio anch’io.
Olinto. Ma che vuol Cleonice? È suo pensiero
forse eleggerti re?

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Alceste.   Tanto non spero.

Olinto. Dunque ti vuol presente
al novello imeneo. Barbaro cenno,
che non devi eseguir.
Alceste.   T’inganni. Io voglio
tutto soffrir. Sará, qualunque sia,
bella, se vien da lei, la sorte mia.
          Quei labbro adorato
     mi è grato, — m’accende,
     se vita mi rende,
     se morte mi dá.
          Non ama da vero
     quell’alma, che, ingrata,
     non serve all’impero
     d’amata — beltá. (parte)

SCENA V

Olinto.

Io lo previdi. Una virtú fallace,

per sopire i tumulti,
simulò Cleonice. Ella pretende
col caro Alceste assicurarsi il trono.
Poco temuto io sono,
che ’l duro fren della paterna cura
questi audaci assicura. Ah! se una volta
scuoto il giogo servil, cangiar d’aspetto
vedrò l’altrui fortuna,
e far saprò mille vendette in una.
          Piú non sembra ardito e fiero
     quel leon, che, prigioniero,
     a soffrir la sua catena
     lungamente s’avvezzò.

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          Ma, se un giorno i lacci spezza,

     si ricorda la fierezza,
     ed al primo suo ruggito
     vede il volto impallidito
     di colui che l’insultò. (parte)

SCENA VI

Appartamenti terreni di Fenicio dentro la reggia.

Fenicio, poi Mitrane.

Fenicio. In piú dubbioso stato

mai non mi vidi. Alle mie stanze impone
Cleonice ch’io torni, e vuol che attenda
qui l’onor de’ suoi cenni. Impaziente
le richiedo d’Alceste, e mi risponde
che finor non partí. Qual è l’arcano
che, fuor del suo costume,
la regina mi tace? Ah! ch’io pavento
che sian le cure mie disperse al vento.
Mitrane. Consòlati, o signor. Vicine al porto
son le cretensi squadre. Io rimirai
dall’alto della reggia
che sotto a mille prore il mar biancheggia.
Fenicio. Amico, ecco il soccorso
sospirato da noi. Possiamo alfine
far palese alla Siria
il vero successor. Ritrova Alceste:
guidalo a me. De’ tuoi fedeli aduna
quella parte che puoi. Mitrane amato,
chiedo l’ultime prove
della tua fedeltá.
Mitrane.   Volo a momenti
quanto imponesti ad eseguir. (in atto di partire)

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Fenicio.   Ma senti:

cauto t’adopra, e cela
per qual ragion le numerose squadre...

SCENA VII

Olinto e detti.

Olinto. Di gran novella, o padre,

apportator son io.
Fenicio.   Che rechi?
Olinto.   Ha scelto
Cleonice lo sposo.
Fenicio.   È forse Alceste?
Olinto. Ei lo sperò, ma invano.
Fenicio. Che colpo è questo inaspettato e strano!

SCENA VIII

Alceste, con due comparse che portano manto e corona, e detti.

Alceste. Permetti che al tuo piede... (inginocchiandosi)

Fenicio.   Alceste, oh dèi!
che fai? che chiedi?
Alceste.   Il nostro re tu sei.
Fenicio. Come! Sorgi.
Alceste.   Signor, per me t’invia
queste reali insegne
la saggia Cleonice. Ella t’attende,
di quelle adorno, a celebrar nel tempio
teco il regio imeneo. Sdegnar non puoi
del fortunato avviso
Alceste apportator. So ch’egualmente
cari a Fenicio sono
il messaggier, la donatrice e il dono.

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Fenicio. Né pensò la regina

quanto ineguale a lei
sia Fenicio d’etá?
Alceste.   Pensò che in altri
piú senno e maggior fede
ritrovar non potea. Con questa scelta,
la magnanima donna
mille cose compí. Premia il tuo merto;
fa mentire i maligni;
provvede al regno; il van desio delude
di tanti ambiziosi...
Mitrane.   E calma in parte
le gelose tempeste
nel dubbio cor dell’affannato Alceste.
Fenicio. Ecco l’unico evento a cui quest’alma
preparata non era.
Olinto.   Ognun sospira
di vedere il suo re. Consola, o padre,
gli amici impazienti,
il popolo fedel, Seleucia tutta,
che freme di piacer.
Fenicio.   Precedi, Olinto,
al tempio i passi miei. Di’ che fra poco
vedranno il re. Meco Mitrane e Alceste
rimangano un momento.
Olinto. (Purché Alceste non goda, io son contento.) (parte)
Fenicio. Numi del ciel, pietosi numi, io tanto
non bramavo da voi. Cure felici!
fortunato sudor! Finisco, Alceste,
d’essere padre. In queste braccia accolto
piú col nome di figlio
esser non puoi. Son queste
l’ultime tenerezze. (l’abbraccia)
Alceste.   E per qual fallo
io tanto ben perdei?
Fenicio. Son tuo vassallo, ed il mio re tu sei. (s’inginocchia)

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Alceste. Sorgi! Che dici?

Mitrane.   Oh generoso!
Fenicio.   Alfine
riconosci te stesso. In te respira
di Demetrio la prole. Il vero erede
vive in te della Siria. A questo giorno
felice io ti serbai. Se a me non credi,
credi a te stesso, all’indole reale,
al magnanimo cor; credi alla cura
ch’ebbi degli anni tuoi; credi al rifiuto
d’un’offerta corona, e credi a queste,
che m’inondan le gote,
lagrime di piacer.
Alceste.   Ma fino ad ora,
signor, perché celarmi
la sorte mia?
Fenicio.   Tutto saprai. Concedi
che un momento io respiri. Oppresso il core
dal contento impensato,
niega alla vita il ministero usato.
          Giusti dèi, da voi non chiede
     altro premio il zelo mio:
     coronata ho la mia fede;
     non mi resta che morir.
          Fato reo, felice sorte
     non pavento e non desio;
     e l’aspetto della morte
     non può farmi impallidir.
(parte, seguito da quelli che portano le insegne reali)

SCENA IX

Alceste e Mitrane.

Alceste. Sogno? Son desto?

Mitrane.   Il primo segno anch’io
di suddito fedel... (in atto d’inginocchiarsi)

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Alceste.   Mitrane amato,

non parlarmi per ora:
lasciami in libertá. Dubito ancora.
Mitrane.   Piú liete immagini
          nell’alma aduna:
          giá la fortuna
          ti porge il crine;
          è tempo alfine
          di respirar.
               Avvezzo a vivere
          senza conforto,
          ancor nel porto
          paventi il mar. (parte)

SCENA X

Alceste e poi Barsene.

Alceste. Io Demetrio! io l’erede

del trono di Seleucia! e tanto ignoto
a me stesso finor! Quante sembianze
io vo cangiando! In questo giorno solo,
di mia sorte dubbioso,
son monarca e pastore, esule e sposo.
Chi t’assicura, Alceste,
che la fortuna stolta
non ti faccia pastore un’altra volta?
Barsene. Fenicio è dunque il re?
Alceste.   Lo scelse al trono
l’illustre Cleonice.
Barsene.   Io ti compiango
nelle perdite tue. Ma, non potendo
la regina ottener, piú non dispero
che tu volga a Barsene il tuo pensiero.
Alceste. A Barsene!
Barsene.   Io nascosi

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rispettosa finor l’affetto mio.

Un trono, una regina eran rivali
troppo grandi per me. Ma veggo alfine
giá sposa Cleonice,
Fenicio re, le tue speranze estinte;
onde, a spiegar ch’io t’amo, altri momenti
piú opportuni di questi
sceglier non posso.
Alceste.   Oh quanto mal scegliesti!
          Se tutti i miei pensieri,
     se mi vedessi il core,
     forse cosí d’amore
     non parleresti a me.
          Non ti sdegnar se poco
     il tuo pregar mi move,
     ch’io sto coll’alma altrove
     nel ragionar con te. (parte)

SCENA XI

Barsene.

Era meglio tacer: speravo almeno

che, parlando una volta,
avrebbe la mia fiamma Alceste accolta.
Questa picciola speme
or del tutto è delusa:
sa la mia fiamma Alceste, e la ricusa.
          Semplicetta tortorella,
     che non vede il suo periglio,
     per fuggir da crudo artiglio,
     vola in grembo al cacciator.
          Voglio anch’io fuggir la pena
     d’un amor finor taciuto,
     e m’espongo d’un rifiuto
     all’oltraggio ed al rossor. (parte)

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SCENA XII

Gran tempio dedicato al Sole, con ara e simulacro del medesimo nel mezzo, e trono da un lato.

Cleonice con séguito, e Fenicio accompagnato da due cavalieri, che portano su de’ bacili il manto reale, la corona e lo scettro.

Fenicio. Credimi, io non t’inganno: Alceste è il vero

successor della Siria. A lui dovute
son quelle regie insegne.
Cleonice.   In fronte a lui
ben ravvisai gran parte
dell’anima real.
Fenicio.   So ch’è delitto
la cura ch’io mostrai d’un tuo nemico:
ma un nemico sí caro,
ma il rifiuto d’un trono
facciano la mia scusa e ’l mio perdono.
Cleonice. Quanti portenti il fato
in un giorno adunò! Di pace priva
quando credo restar...
Fenicio.   Demetrio arriva.

SCENA XIII

Alceste, che viene incontrato da Cleonice
e da Fenicio; Mitrane e guardie.

Alceste. La prima volta è questa

che mi presento a te senza il timore
di vederti arrossir del nostro amore.
Fra tanti beni e tanti,
che al destino real congiunti sono,
questo è il maggior ch’io troverò sul trono.

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Cleonice. Signor, cangiammo sorte. Il re tu sei,

la suddita son io;
e ’l timor dal tuo sen passò nel mio.
Va’, Demetrio. Ecco il soglio
degli avi tuoi. Con quel piacer lo rendo,
che donato l’avrei. Godilo almeno
piú felice di me. Finché m’accolse,
cosí mi fu d’ogni contento avaro,
che sol quando lo perdo egli mi è caro.
Mitrane. Anime generose!
Alceste.   Andrò sul trono,
ma la tua man mi guidi; e quella mano
sia premio alla mia fé.
Cleonice.   Sí grato cenno
il merto d’ubbidir tutto mi toglie.
  (vanno vicino all’ara, e si porgono la mano)
Fenicio. Oh qual piacer nell’alma mia s’accoglie!
Alceste e Cleonice.   Deh! risplendi, o chiaro nume,
fausto sempre al nostro amor.
Alceste.   Qual son io, tu fosti amante,
     di Tessaglia in riva al fiume
     e in sembiante di pastor.
Cleonice.   Qual son io, tu sei costante.
     e conservi il bel costume
     d’esser fido ai lauri ancor.
Alceste e Cleonice.   Deh! risplendi o chiaro nume,
     fausto sempre al nostro amor.
Fenicio. Tuona a sinistra il ciel.

SCENA XIV

Barsene e detti.

Parsene.   Tutta in tumulto

è Seleucia, o regina.
Alceste. Perché?

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Barsene.   Sai che poc’anzi

giunse di Creta il messaggiero, e seco
cento legni seguaci...
Cleonice.   E ben! fra poco
l’ascolterò.
Barsene.   Ma l’inquieto Olinto,
non potendo soffrir che regni Alceste,
col messaggio s’uní. Sparge nel volgo
che Fenicio l’inganna,
che sosterrá veraci i detti sui,
e che ’l vero Demetrio è noto a lui.
Cleonice. Aimè, Fenicio!
Fenicio.   Eh! non temer. Sul trono
con sicurezza andate:
si vedrá chi mentisce.

SCENA ULTIMA

Olinto, portando in mano un foglio sigillato, ambasciatore cretense, séguito de’ greci, popolo e detti.

Olinto.   Olá! fermate, (a Cleonice e ad Alceste, incamminati verso il trono)

Il ciel non soffre inganni. In questo foglio
si scoprirá l’erede
dell’estinto Demetrio. Esule in Creta,
pria di morir lo scrisse. Il foglio è chiuso
dal sigillo real. Questi lo vide
  (accennando l’ambasciatore cretense)
da Demetrio vergar; questi lo reca
per pubblico comando; e porta seco
tutte l’armi cretensi
del regio sangue a sostener l’onore.
Cleonice. Oh dèi!
Fenicio.   Leggasi il foglio. (ad Olinto)

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Olinto. Alceste, finirá cotanto orgoglio.

  (Olinto apre il foglio e legge)
«Popoli della Siria, il figlio mio
vive ignoto fra voi. Verrá quel giorno
che a voi si scoprirá. Se ad altro segno
ravvisar noi poteste,
Fenicio l’educò nel finto Alceste.
Demetrio».
Cleonice.   Io torno in vita.
Fenicio. (ad Olinto) A questo passo
t’aspettava Fenicio.
Olinto.   (Io son di sasso!)
Mitrane. Gelò l’audace.
Olinto. (ad Alceste) In te, signor, conosco
il mio monarca, e dell’ardir mi pento.
Alceste. Che sei figlio a Fenicio io sol rammento.
Fenicio. Su quel trono una volta
lasciate ch’io vi miri, ultimo segno
de’ voti miei.
Alceste.   Quanto possiedo è dono
della tua fedeltá. Dal labbro mio
tutto il mondo lo sappia.
Fenicio.   E ’l mondo impari
dalla vostra virtú come in un core
si possano accoppiar gloria ed amore.
  (Alceste e Cleonice vanno sul trono)
Coro.   Quando scende in nobil petto,
     è compagno un dolce affetto,
     non rivale alla virtú.
          Respirate, alme felici,
     e vi siano i numi amici,
     quanto avverso il ciel vi fu.

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LICENZA

Potria d’altero fiume

il corso trattener, Cesare invitto,
chi, nel giorno che splende
chiaro del nome tuo, frenar potesse
l’impeto del piacer, che sino al trono
fa sollevar delle tue lodi il suono.
O non v’è cosa in terra, o è questa sola
difficile ad Augusto; e, se non sei
pietoso a questo error, tutti siam rei.
Sará muto ogni labbro,
se vuoi cosí. Ma non è il labbro solo
interprete del cor. Qual atto illustre
di virtú sovrumana offrir potranno
le scene imitatrici,
che non chiami ogni sguardo
a ravvisarne in te l’esempio espresso?
Ah! che il silenzio istesso,
de’ sensi altrui poco fedel custode,
saprá spiegarsi e diverrá tua lode.
          Per te con giro eterno
     torni dal Gange fuora
     la fortunata aurora
     di cosí lieto dí.
          Ma quella, che ritorna
     dall’onda sua natia,
     sempre piú bella sia
     dell’altra che partí.