Commedie del Cinquecento, Vol. II/Nota
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NOTA1
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L’AMOR COSTANTE
La prima edizione di questa commedia del Piccolomini (che fu poi ristampata parecchie volte, fino al 1611,in cui se ne fece a Siena l’ultima impressione insieme con le altre commedie degl’Intronati) sembra essere quella procurata a Venezia da Andrea Arrivabene nel 1540. Ma «rarissima» la chiama il Savioli2; né io ho potuto vederla, a causa appunto di questa sua raritá. Pongo, dunque, a base del testo l’altra edizione, pur veneziana, del Bindoni che ha il seguente titolo: L’amor costante. | Comedia | del Signor Stordito Intro- | nato. Composta per la venuta dell’Imperatore | in Siena L’anno del XXXVI. | Nella qual Comedia inter- | vengono varij Abbattimenti di diverse sorte | d’armi & intrecciati, ogni cosa in tem- | pi e misure di Morescha, cosa | dilettevole, quanto alcun’altra | c’hoggidi sia in luce. In Vineg giá per Agustino | Bindoni. L’Anno. M.D.L [e sotto l’ultima scena: Fine della Comedia del S. Alessandro Piccolomini, altrimenti lo Stordito Intronato, intitolata L’Amor costante]. Essa può bene tener luogo della prima stampa da cui direttamente proviene: come attesta in modo non dubbio la lettera di dedica dell’Arrivabene «al molto honorato et magnifico. M. Giovanni Soranzo del Clariss. M. Alvise», in data «Di Venetia. il di. xv. di Novembre, m.d.xl», che va innanzi all’elenco dei personaggi. Ma, a correggerne i non pochi errori, mi valgo di quest’altre due edizioni cinquecentesche: 1a, L’Amor costante. | Comedia del | S. Stordito | Intronato, | composta per la | venuta dell’Imperatore in Siena | l’Anno MDXXXI. | Nella qual comedia intervengono varij abbattimenti di diverse | sorti d’armi & intrecciati, ogni cosa | in tempi e misura di more- | sca, cosa bellissima. | Nuovamente ristampata. | In Venetia [senz’altra nota tipografica]3; — 2a , L’Amor costante | Comedia | del S. Alessandro | Piccolomini. | Nuovamente ristampata, & tutta rivista, | ri- | corretta da gli errori delle stampe, da | Girolamo Ruscelli. In Venetia, per Plinio Pietrasanta, | M.D.LIIII4.
Nella lettera di dedica della prima stampa, riprodotta poi, come ho detto, nell’edizione del Bindoni, l’Arrivacene protesta la sua gran devozione al magnifico Giovanni Soranzo e il suo desiderio vivissimo di mostrargliene «qualche segno o testimonianza». Ma, non potendo, continua,
esser io del mio liberale, mi fa mestieri de l’altrui esser largo. E, per questo, ho sempre aspettato occasione che mi venga qualche cosa alle mani degna in parte de la Magnificenza Vostra. El che, forse, a questa volta, mi verrá fatto: per ciò che, pochi giorni sono, mi fu mandato di Pavia, da un mio amicissimo, alcuni sonetti e canzoni composti, in piú tempi a dietro, nella gloriosissima accademia degli Intronati di Siena; lo ingegno dei quali quanto in ciò vaglia giá si conosce per tutto. Hammi mandato insieme, questo mio amico, una comedia pur medesimamente d’uno di quelli Intronati, lo «Stordito» detto tra loro, altrimenti il Piccolomini, la quale, secondo che questo mio amico mi scrive, gli venne a le mani, non so in che modo, in Milano. Questa comedia ho mostrat’io ad alcuni buonissimi spirti; dai quali mi è stato cosí lodata e posta in pregio che io mi son risoluto che la sia quella la qual, mandandola io in luce e dedicandola alla Vostra Magnificenza, abbia da far fede appresso di Quella de la servitú che le singularissime parti sue mi sforzano a tener seco. E maggiormente perché, essendo Vostra Magnificenza sempre stata affezionatissima e cortesissima verso le persone che meritano, non è dubbio ch’ella avrá caro cotal dono, se non per conto mio, per il merito almeno di chi n’è stato primo autore.
Fuor di queste magre e indeterminate notizie che l’Arrivabene ci offre, null’altro sappiamo circa la pubblicazione dell’Amor costante e circa la parte, diretta od indiretta, che il Piccolomini v’ebbe.
Ecco ora alcune osservazioni spicciole. A. i, se. 3: il verso 5 del madrigale di Ligdonio suona cosí nell’ediz. Bindoni: «A dar luce a ciò ch’ai mondo vedete è de. xi. syllabe» anzi, piú propriamente, «syllab.». Le altre due edizioni sopprimono le parole «è de. xi. syllabe»; e anche io le sopprimo perché non ne vedo chiara la funzione e il significato. Sono esse una postilla marginale (venuta poi ad intrudersi nel corpo del verso) di chi volle ironicamente avvertire, per proprio conto, la bestialitá di Ligdonio che faceva endecasillabi di quella specie? O è lo stesso Ligdonio che, quasi compiacendosi della sua valentia, sospende, per un momento, la recitazione del suo madrigale e ammonisce Panzana •che il verso «a dar luce a ciò ch’ai mondo vedete» è proprio di undici sillabe e musicalissimo e perfettissimo? Non vedendoci chiaro, sopprimo, come ho detto, le parole su riferite; ma le noto qui perché i lettori possano, se ne hanno voglia, risolvere questo piccolo indovinello come meglio credono. — A. 1, se. 12: «Tardi cornò Orlando». Tutt’e tre le stampe hanno «tornò» invece di «cornò». Ma la correzione è sicura: poiché qui si ha, certo, un ricordo del finale episodio della Chanson de Roland; e, d’altra parte, del verbo «cornare» nel senso di «sonare il corno» reca vari esempi la Crusca. — A. 1, se. 12: «Mas cátala a qui que viene». Credo sicura questa mia correzione di fronte alla stampa del Bindoni: «cataldr qui do viene»; a quella veneta senza note tipografiche: «catalda qui do viene»; e a quella, migliore, del Pietrasanta:
«catalda á qui que viene». — A. iv, se. 7: «C’impazzarebbeno i granchi con questo bue» (tutt’e tre le stampe: «... con questo bu»). — A. iv, se. 8: «Io le mannai na mia noveletta, che avea fatto de frisco, la quale era piena de multi casi affettuosi de amore» (tutt’e tre le stampe: «... de multi affettuosi...»).vi
L’ARIDOSIA
Angelo Maria Bandini, illustrando i nuovi manoscritti venuti a far parte della Biblioteca Laurenziana, dopo aver brevemente descritto il cod. Mediceo Palatino 99 ov’è contenuta la presente commedia, lo dichiarò «forte autographus»5: attribuendogli cosí una singolare importanza e costringendo a fare i conti con esso chiunque si proponesse di intraprendere una nuova edizione di quest’opera drammatica di Lorenzino de’ Medici. Quali fossero i motivi di tale sua persuasione il dotto bibliotecario non si curò punto di dire. Ma possiamo, in qualche modo, congetturarli per mezzo dell’esame interno del codice; possiamo, cioè, supporre che egli fosse indotto ad ammetterne l’autografia da certe correzioni, della stessa mano del testo, che vi si trovano sparse qua e lá e che sono, talvolta, di tal natura da sembrare veri e propri pentimenti e ritocchi del medesimo autore.
Ne riferisco qui alcuni esempi. A e. 2 t (le carte non son numerate, ma mi son dato cura io stesso di contarle via via) l’estensore del codice aveva scritto: «Certo è com’io dico che la maggior parte de costumi»; poi cancellò «dico» e vi sostituí «t’ho detto». — A e. 8 aveva scritto: «gli haresti piú compassione che certo gli havete»; poi cancellò «certo» e vi sostituí «non». — A e. 11 aveva scritto: «se ti viene bene dilli la cosa come la sta»; poi, dando un tutto diverso movimento al periodo, cancellò «la cosa come la sta», vi riscrisse sopra «come io te l’ho tolta» e continuò senza interruzione «per forza, ch’io vorrei», ecc. — A e. ut aveva scritto: «non voglio aspettare piú che a venti quattro hore»; poi, cancellato «a», vi sostituí «in sino». — A e. 14 t aveva scritto: «Dunche»; poi lo cancellò e riscrisse accanto «Dunque non»; poi cancellò anche queste parole e riprese, per la terza volta, a scrivere «dunque credete voi che le passioni» ecc. — A e. 17 t aveva scritto: «è la piú gentile non dico di luccha ma d’altro» (a cui doveva, manifestamente, seguire la parola «luogo» o «paese» o altra consimile); poi cancellò «altro» e riscrisse accanto «Italia». — A e. 21 t aveva scritto: «Lo farò se tu voi»; poi, cancellato «voi» e riscrittovi sopra «trovi», prosegui: «un modo che tuo padre», ecc. — A e. 26 t aveva scritto: «ho paura che questo vechio non ci fará qualche tradimento»; poi, cancellato «fará», vi sostituí «voglia fare». — A e. 31 t aveva scritto: «Ell’ha havuto si gran dispiacere di non ti poter venire a vedere»; poi cancellò «vedere» e vi scrisse sopra «parlare». — A e. 43 t aveva scritto: «ecco apunto uno che vien di qua che mi guasta il mio disegnio aspetterò ch’ei sia partito»; poi cancellò «partito» e riscrisse accanto «passato». — A e. 49 t aveva scritto: «Ci vo’ pensare un pocho»; poi cancellò «pocho» e riscrisse sopra «di». — A e. 62 aveva scritto: «quel che voi mi facesti l’altra sera quando io dormii con voi», poi cancellò «sera» e riscrisse sopra «notte». — A e. 66 t aveva scritto: «l’ho paura che costui non diventi» (con l’evidente proposito di continuare «pazzo» o «matto»); poi cancellò «diventi», riscrisse sopra «sia» e prosegui «impazato».
È innegabile che queste ed altre simili correzioni sembrerebbero da prima, come giá dissi, legittimare l’ipotesi del Bandini. Ma, d’altra parte, le fanno vivo contrasto certe omissioni e distrazioni che non par che si possano attribuire alla persona stessa dell’autore. In alcuni luoghi l’estensore del codice dimenticò alcuni periodi o frasi che sono assolutamente necessari perché il senso corra o che, se non proprio necessari, appariscono però cosí opportuni da non potersi dubitare in nessun modo della loro autenticitá. E, una volta, a e. 61 t, riscrisse per intero ciò che aveva giá scritto a e. 59 t: sicché poi, accortosi del suo strano errore, dovè cancellare quella carta superflua con vari freghi longitudinali e trasversali; e riprese, con la prima riga della e. 62 r, il periodo rimasto interrotto all’ultima riga della e. 6r r («I’ li ho portati in sin qui portateli in sin lá voi | et cosí fra noi dua li harem portati»). Intanto, queste omissioni e distrazioni bastano da sole a dimostrare che, in ogni caso, non si ha, nel cod. Laurenziano, il primo originale éeY Arido sia. Potremmo, tutt’al piú, riconoscervi una seconda copia fatta dall’autore medesimo; il quale, mentre si dava cura di correggere, qua e lá, l’opera propria che veniva esemplando, si sarebbe distratto, piú d’una volta, come un qualsiasi disattento amanuense che esemplasse, invece che la propria, l’opera altrui. Ma non par curioso che Lorenzino de* Medici avesse a soffrire di una cosí grande sbadataggine?
Fortunatamente, il problema potè esser risolto mediante il confronto del cod. Laurenziano con una lettera veramente autografa del Medici a Ruberto Strozzi, in data «Di Parigi alli 17 di Luglio 1544», che si conserva nel R. Archivio di Stato di Firenze (Carte Strozzi Uguccioni, filza 135, p. 23) e di cui feci eseguire la fotografia6. Cosí apparve chiaro che il carattere d~! codice non è quello stesso della lettera: poiché, se il tipo generale delle due scritture offre, è vero, qualche somiglianza ingannatrice, vi sono però, fra l’una e l’altra, non poche sostanziali disformitá che impediscono di riconoscerle della stessa mano. Possiamo, insomma, esser certi (e a tale certezza m’indusse anche il giudizio autorevolissimo del prof. Enrico Rostagno che, piú e meglio di me, vide le disformitá suddette e cortesemente richiamò su di esse la mia attenzione) che il cod. Laurenziano, a differenza di quanto suppose il Bandini, non è niente affatto autografo. E, una volta riconosciuto ciò, possiamo anche spiegare piú agevolmente quelle certe distrazioni, a cui piú sopra accennai, che, da parte dell’autore, sarebbero tutt’altro che naturali. Quanto poi agli emendamenti che il cod. Laurenziano presenta e che potevano farci inclinare verso la sua autografia, non è improbabile che essi pure sian prodotti dalla medesima causa; dalla fretta, cioè, e dalla disattenzione del copista: a cui potè accadere talvolta, seguendo lo svolgimento del pensiero piuttosto che la precisa espressione letterale, di sostituire parole sue proprie a quelle che gli stavan dinanzi e di ristabilire poi subito la vera forma quando, nel posar di nuovo l’occhio sull’originale che esemplava, veniva ad accorgersi dell’involontario errore commesso. Questa l’ipotesi che mi sembra piú verosimile per spiegare i suddetti emendamenti: giacché il loro carattere d’immediatezza esclude in modo assoluto, mi pare, che possa trattarsi di una collazione posteriore eseguita su qualche manoscritto diverso da quello sul quale la copia fu condotta.ì
Pur tuttavia, quantunque non possa ritenersi autografo e apparisca offeso, qua e lá, da varie manchevolezze e sia anche lacunoso in due luoghi per lo smarrimento di alcune carte (0, il cod. Laurenziano ci rappresenta, assai meglio delle stampe di cui fra poco dirò, la genuina forma dell’originale: non tanto rispetto alle singole lezioni quanto, piuttosto, per ciò che si riferisce alla totale redazione o sostanza del testo. Avrebbe, dunque, potuto essere posto a fondamento di questa nostra ristampa (salvo, s’intende, a ricavar d’altronde le necessarie correzioni ed integrazioni), se non avesse imperiosamente reclamato questo diritto il cod. Riccardiano 29707: il quale, benché non sia neppur esso autografo8, è però generalmente, se non sempre, piú corretto e piú integro del Laurenziano e non presenta le due lacune che si deplorano in questo. Di altri due manoscritti dell’Aridosia, il Riccardiano 29702 9 e il Magliabechiano vii. 46, che appariscono d’etá piú recente, non ho creduto necessario fare una collazione minuta; ma anche il rapido esame da me fattone è valso ad assicurarmi che, rispetto a quella che chiamai piú sopra totale redazione o sostanza del testo, si accordano entrambi col Laurenziano Medie. Palat. 99 e col Riccardiano 2970 1.
Detto cosi, brevemente, dei codici, passiamo ora a dir qualche cosa delle stampe. Le piú antiche son tre: una uscita a Venezia, 1 senz’anno, per Mattio Pagan10; un’altra venuta in luce a Bologna, senza nome di stampatore, nel 154811; e una terza procurata a Lucca da Vincenzo Busdrago nel 154912. Di esse le prime due, la veneziana e la bolognese, non si accordano proprio in tutto coi manoscritti (parlo sempre della redazione e non delle singole lezioni), ma neppur se ne allontanano soverchiamente: e la concordanza è minore dal principio della commedia fino al termine della scena terza del terzo atto; maggiore, anzi quasi completa, da questo punto in poi. Si tratta, quasi sempre, di proposizioni o periodi che sono nei manoscritti e mancano, invece, nelle stampe; le quali, dunque, ci rappresentano un testo, qua e lá abbreviato, ma non sostanzialmente diverso da quello dei manoscritti, come apparirá chiaro dai seguenti esempi13.
A. I, se. i: «tu lo lasci senza pensieri o di studi o di faccende. Solo attende a’ cavalli, a’ cani o all’amore o, insomma, solo a quelle cose che l’animo gli detta. Onde io mi dubito che, passato questo fervore della sua gioventú...». — A. i, se. 2: € Marc E tu dove vai? a portar qualche imbasciata al munisterio? Lue. Che monasterio? Marc Ohi Fattene nuovo meco, bestia! Lue. E che sapete voi di monasterio?» — A. 1, se. 5: «Erm... Oh Dio! Tu solo puoi fare che la lo facci secretamente e che, ad un tratto, la non vituperi sé e me ed il monasterio. Lue Dio non ha altra faccenda...». — A. 11, se. 4: i Aridosio, perdonatemi: non vi avevo conosciuto. Voi siate, per certo, a toccar li». — Ivi: «Gli è un modo di dire. So bene che la colpa è sua e che, s’ei non volessi, non lo svierebbe persona». — A. il, se. 7: «Erm. E’ sarebbe come raccomandar me a me medesimo, maestra mia. Suor Mar. Però non te l’avevo detto. Erm. Orsú! Andrò dove noi siam rimasti. Suor Mar. Ascolta. Mandaci un po’ di trebbiano...». — A. ni, se. 2: «Ar. Pur per gli spiriti? Skr Iac. Oh! Che vi pensate? Ar. È ella fredda o calda?. Ser Iac Oh! Voi mi domandate delle gran cose!» .
Queste deviazioni delle due stampe di Venezia e di Bologna dalla redazione manoscritta non sono, sicuramente, trascurabili14; ma pur sembrano perdere ogni importanza e ogni significato quando si confrontino con l’altre, ben piú radicali e profonde, che offre la stampa lucchese del Busdrago. La quale, mentre s’accorda con le due stampe suddette nella prima parte della commedia ove esse, di tanto in tanto, non s’accordan coi codici (e ha, dunque, tutte le omissioni del genere di quelle sopra notate), incomincia ad allontanarsene proprio dove meno avrebbe dovuto, proprio, cioè, da quel punto in cui esse tornano, dal canto loro, a ravvicinarsi ai codici stessi; e, in molti luoghi del terzo e del quarto atto, modifica cosí sostanzialmente l’originale da renderlo del tutto irriconoscibile. Quest’edizione lucchese, insomma, riusci quanto mai arbitraria e imperfetta; di che ebbe piena coscienza lo stampatore medesimo, il quale, o che se ne accorgesse da sé o che ne fosse avvertito da altri, provò, ad ogni modo, il bisogno di far seguire immediatamente all’ultima riga del testo della commedia questa, non so se piú ingenua o maliziosa, ma certo singolare, dichiarazione:
Fuor d’ogni mia oppinione è avenuto che due copie di questa comedia che io ho potuto avere, cioè una stampata in Bologna ed un’altra a mano, sono riuscite, nel processo dello stampare, piene di errori molto piú di quello che né io né alcuno che l’avesse discorsa si fusse creduto: per che è stato forza usarvi poi quella diligenzia in correggerla, non che si convenia per far cosa buona, ma che si potea perché uscisse manco cattiva. Però, occorrendo facilmente che vi si trovino dentro degli errori, ho voluto prima, con questa mia piccola scusa, dinanzi a voi, messer Girolamo Girolamo Serdini a cui l’edizione è dedicata, e cosí agli altri che la leggeranno, accusargli che spettare l’accuse che da voi o dagli altri, per lor cagione, a me sarebbeno non immeritamente date: i quali, perché non saranno però forse segnalati molto, se meritano scusa niuna, datenela, poi che si liberamente si confessa l’errore; se non ancora sia mia colpa solamente l’aver confidato in quelle copie che arenno ingannato anco piú savia persona di me. E siate sicurissimo di tanto: che, da questa mia stampa, fin ch’io viverò, non sia per uscir cosa né vulgar né latina o d’altra lingua che non sia per dover essere e piú corretta e piú perfetta che questa stata non è15.
Intanto (e qui è davvero il caso di ripetere «habent sua fata libelli»), mentre le stampe di Venezia e di Bologna, che, in certo modo, rappresentavano, pur con qualche piú o meno grave infedeltá, la redazione manoscritta, restarono isolate e ignorate e non ebber propaggini, la stampa di Lucca, che dalla redazione suddetta s’allontanava stranamente, sopra tutto nel terzo e nel quarto atto,, ebbe una singolare fortuna. E, prima, diede origine all’edizione che dell’Aridosia fecero a Firenze i Giunti nel 159316 e che fu due volte ristampata, nel 1595 e nel 1597. Poi, per mezzo di queste edizioni fiorentine assai piú che direttamente, produsse tutte le successive edizioni: quella apparsa in Napoli verso il 1720 con la falsa indicazione tipografica «In Firenze | Appresso i Giunti | MDCV»17 quelle che, nel secolo scorso, pubblicarono via via il Racheli a Trieste nel 185818, il Tèoli (Camerini) a Milano nel 1862,19 il Biglioni, pure a Milano, nel 188720 e Jarro (Piccini) a Firenze nel 188821. Possiamo, dunque, sicuramente affermare che soltanto ora V Aridosia vede, per la prima volta, la luce nella sua forma genuina o, almeno, in una forma che alla genuina può reputarsi assai prossima.
Credo opportuno far conoscere ai lettori quei luoghi della commedia nei quali cadono le piú profonde e sostanziali differenze fra la presente ristampa barese (B) e l’antica stampa lucchese del 1549 (L) che ci rappresenta, come giá dicemmo, la redazione «volgata».
I passi di L li riferisco, naturalmente, per intero; dei corrispondenti passi di B, che i lettori possono vedere in questo stesso volume, mi limito, invece, ad indicare le parole iniziali e finali fra cui sono compresi e, fra parentesi, la pagina o le pagine in cui si trovano.
A. in, se. 4. B (p. 168): e Ar. Oh ser Iacopo! Ogni troppo è troppo. Ei vi sará... Ar. Oh! Voi non sapete il ben ch’io vi voglio». — L: Oh ser Iacomo! Ogni troppo sta per nuocere. E’ vi sará un colombo, che ieri tolsi di bocca alla faina, e del finocchio. Non vi basta? Ser Iac. Si, si! Gli è roba d’avanzo. Ar. Oh! Voi non sapete il ben ch’io vi voglio».
A. in, se. 5. B (pp. 171-2): «Ar... ne verrá compassione a te, che t’ha offeso. Ma dove lo potrei io trovare?... Ruf. Un rubino in tavola». — L: cAr... ne verrá compassione a te, che t’ha offeso. Ma dove lo potrò io trovare? Ruf. Fatel dire a Lucido, che ne tiene il governo; che era adesso in piazza, che mi voleva dar quel rubino, che v’ho ditto, per pagamento. Ar. Qual Lucido di’ tu? Ruf. Il medesimo che voi. Ar. Lucido d’Erminio? Ruf. Quello, si. Ar. E che rubin ti voleva dare? Ruf. Un rubino in tavola».
A. in, se. 6. B (p. 173): «Ruf. Tu non mi sei per levar di qui.... Lue. Oh che importuno e presuntuoso pazzo è questo!». — L: «Ruf. Tu non mi sei per levare di qui, se prima tu non mi dai o’ miei denari o Livia. Lue. Oh che importuno pazzo è questo!».
Ivi. B (pp. 175-6): «Ar. Non tanto male? Dumila ducati ho perso!... Ar. Io dico che gli è la borsa. Oh borsa mia! oh borsa mia! oimè !». — L: «Ar. Non tanto male? Due mila ducati ho perduti! Lue. Venite adesso a mangiare; poi li farete bandire o in pergamo o all’altare. Gli troverete a ogni modo. Ar. Ho voglia a punto di mangiare! Bisogna ch’io gli trovi o ch’io muoia. Lue. Leviamci di qui. Ar. Dove vuoi ch’io vada? agli Otto? Lue. Buono. Ar. A far pigliare ognuno? Lue. Meglio. Qualche modo troverem noi: non dubitate. Ar. Aimè, ch’io non posso spiccare l’un piedi l’altro! Oimè, la mia borsa! Lue. Eh! Voi l’avete e volete la baia del fatto mio. Ar. Si; vota! si; vota! Oh borsa mia! Tu eri pur piena. Lucido, aiutami, ch’io non mi reggo ritto. Lue. Oh! Voi séte a questo modo digiuno! Ar. Io dico che è la borsa. Oh borsa mia! oh borsa mia! oimè!».
A. iv, se. i. B (p. 177): «Erm. Cert’è che tu hai avut’una gran ventura... Ces. Ei non lo sa altri che tu, Marcantonio e Lucido». — L: «Erm. Certo, che tu hai auto una gran ventura. Non perché abbia guadagnato due mila ducati, che, volendo far l’uffizio dell’uom da bene, sei tenuto a restituirli; ma dico che non ti poteva accadere cosa piú opportuna, a farti conseguire il tuo desiderio di aver Cassandra, di questa e in questo modo: perché, s’ei sapesse che tu avessi i suoi denari, non si queterebbe mai fino a tanto che non gli riavesse. Dove che, a questo modo, lo farem consentir a tutti quelli accordi che vorem noi, rivolendoli. Ces. E’ non lo sa altri che Marcantonio, Lucido e tu».
A. IV, se. 2. B (pp. 178-9): «Erm... E meritamente, perché ei non è donna nessuna al mondo, né mai ne fu, credo, né sará... Marc. Figliuol mio, io t’ho gran compassione». — L: «Erm. E massimamente non essendo donna al mondo, né mai, credo, ne sará, che con lei di bellezza e di gentilezza si possa parangonare. Però, padre mio, vi prego che non vogliate opporvi alle mie ardenti fiamme; le quali è impossibile che da altra cosa che dal beneficio del tempo possano essere estinte. In tutte le altre cose i vostri comandamenti, i vostri prieghi mi saranno leggi fermissime; ma in questo, che non è in forza mia l’ubbidirvi, non vedo modo di potervi contentare. Marc. Figliuol mio, io ti ho per certo gran compassione».
Ivi. B (p. 179): «Marc.... Niente di manco e’ mi parebbe mancare dell’offizio del padre s’io non ti dicessi... A me basta che la ti piaccia e sia dabbene. E, a questo modo, farai contento te e me a un tratto». — L: «Niente di manco mi parebbe di mancare dello offizio del buon padre s* io non ti dicessi il parer mio in questo. Tu sai che non è nessuno, per scelerato ch’ei si sia, al quale non sia odioso l’usare con monache. Lassiamo stare il peccato che si cornette a presso Iddio, che è grandissimo; e dichiamo che non è cosa che dispiaccia piú alla maggior parte degli uomini che quando si vede qualcuno che cerca, in qualche cosa particulare, farsi differente dagli altri: si che, quando tu non l’avessi mai a far per altro, questo doverebbe essere possente a fartene distórre, per non ti provocare lo sdegno di Dio e degli uomini. Lasso stare ancora che s’ingiuria chi v’ha le figliuole e le sorelle e che si ci portano mille pericoli, andandovi. Però, figliuol mio, muta questo tuo amore in un piú ragionevole del quale tu possa ottenere il desiderato fine senza tanti pericoli: perché, grazia di Dio, non è figliuola in Firenze che i suoi non te la dessero volentieri. Dispuonti, adunque, a voler tór moglie e a darmi questo contento, che oramai n’è tempo. E non mi dá noia la dote. Mi basta solo che la ti piaccia e che sia da bene. E, a questo modo, potrai far contento te e me ad un tempo» .
A. IV, se. 3. B (pp. 182-3): «Erm.... in modo che quello che prima l’aveva si morde le mani, parendoli aver perso, per poco tempo, una gran ventura... Erm. L’amor e l’affetto mi lacerano e mi squartano con tanto dolore ch’io non m’immagino il maggior quello d’un traditore legato alle code di dua possenti cavalli». — L: «Erm.... in modo che quel Ruffo che l’avea si morde le mani, parendoli, in poco tempo, aver perduta una gran ventura. Marc. Orsú! Basta. Io voglio essere fin in piazza. Erm. Se volete nulla, verrò anch’io. Marc. No, no. Resta pur a tua comoditá; e pensa di far quello ti ho detto, se hai caro tenermi contento. Erm. Mio padre, io v’ho promisso di far quel ch’io potrò. Oh mia mala sorte! Non era assai il dolore ch’io ho, che, ad ogn’ora, temo che non partorisca, senza aggiungermi quest’altro? Oimè! L’amore e l’affetto mi lacerano con tanto dolore che a pena lo posso sopportare».
A. iv, se. 4. B (pp. 184-5): e Erm. Di’ a questo modo. La t’intenderá bene... Erm. Io li dissi pur che aspettassi. O Paulino!». — L: «Erm. Di’ a questo modo. Ella ti intenderá bene. Diavolo che tu non tenga a mente 1 M. Pas. Io tengo benissimo. Erm. Basta. Va’ via, camina. M. Pas. Uh! Signore! Erm. Aspetta. Io vo’ che tu porti un’altra cosa. Paulino! o Paulino! Non odi, sciagurato? Olá!».
A. IV, se. 5. B (p. 185): e Erm. Sempre vuoi ch’io t’abbi a chiamar cento volte. E gran cosa questa!... Erm.... e portateli, fra voi dua, alla Fiammetta». — L: «Erm. Sempre vuoi ch’io t’abbia a chiamar cento volte. È gran cosa questa! Va’ trova quattro fiaschi di trebbiano; e portateli, fra voi due, alla Fiammetta» .
Ivi. B (pp. 186-7): «Paul. Che mi toccavi voi?... M. Pas.... Ma, per adesso, andrò senza pianelle. Va’ fidati poi tu di fanciulli! Ei ridicono ogni cosa». — L: «Paul. Che mi toccavate voi? M. Pas. Lèvamiti dinanzi, sciagurato! che postú arrabbiare! Paul. O porta i fiaschi da te, scanfarda! M. Pas. Va’ poi e fidati di questi morbetti! E’ ridicono ogni cosa».
A. iv, se. 7. B (p. 190): «M. Pas. Oh! Marcantonio, perdonatemi... Marc... e fa’ che non ne parli con persona». — L: «M. Pas. Oh! Marcantonio, perdonatemi. Elle mi avevano ditto ch’io non dicessi nulla. Marc. Orsú! Vattene in casa, cicalaccia! e fa’ che tu non parli con persona».
Mi rimangono ora da fare altre due avvertenze, rispetto al titolo e rispetto al luogo dell’azione. Il titolo, precisamente come accadde a quello della Calandrici, oscillò di continuo nelle edizioni (e, per riflesso, anche negli studi storici e critici) fra le due forme Aridosio e Aridosia; con decisa prevalenza della prima forma, che è quella offertaci, come abbiam visto, anche dalle tre stampe piú antiche. Ma, ad assicurarci che il solo e vero titolo è, invece, Aridosia (ossia ’commedia di Aridosio’), bastano le prime parole del prologo che non so come abbiano potuto cosí ostinatamente sfuggire all’osservazione degli editori: «Se voi arete pazienzia r sarete spettatori di una nuova commedia intitulata Aridosia, da Aridosio detta, Aridosio chiamato per essere piú arido che la pomice ».22 Quanto al luogo in cui s’immagina che l’azione si svolga,, esso è «Lucca» secondo tutti i codici, mentre è «Firenze» secondo tutte le stampe; e, conseguentemente, la fanciulla di cui è innamorato Erminio appartiene, secondo i codici, alla famiglia lucchese dei «Cennami» o Cenami, mentre le stampe la fanno appartenere alla famiglia fiorentina dei«Ridolfi» (si veda, per es., a. i, se. i e 2). Quale delle due opposte testimonianze abbia ragione non è possibile dire con certezza assoluta. Pure, l’arbitraria sostituzione di «Firenze» e «Ridolfi» a un originale «Lucca» e «Cennami» mi sembra piú facilmente spiegabile che non la sostituzione inversa. Potè parere, infatti, a chi preparò la prima stampa dell’Aridosía che la fiorentinitá dell’autore dovesse riflettersi nella fiorentinitá della scena; quasi che non fosse lecito ad un commediografo porre l’azione di una sua commedia in una cittá diversa dalla sua propria! Ma quale falso ragionamento avrebbe potuto indurre gli estensori dei codici fiorentini a sostituire un arbitrario «Lucca» e «Cennami » a un originale «Firenze» e «Ridolfi»? Io, per la parte mia, non riesco a vederlo. E, per ciò, dovendomi pur decidere per l’una o per l’altra testimonianza, mi attengo, anche in questo caso, alla redazione manoscritta.
Il testo che qui si riproduce è, come giá dissi, quello del cod. Riccardiano 2970 1 (Ri); ma, poiché esso pure non è sempre corretto, mi valgo, non di rado, a emendarne le negligenze e gli errori, del cod. Laurenziano Medie. Palat. 99 e anche, talvolta, dell’edizione bolognese del 1548 e dell’edizione lucchese del 1549. Basti richiamare l’attenzione dei lettori sui seguenti luoghi.
Prologo: «dimolte cose vecchie son migliori che le nuove: le monete, le spade, le sculture, le galline. Ècci chi dice anche che le donne vecchie son come le galline». R 1 legge: «... le sculture le secchissime ecci chi dice...»; e cosí anche il Laurenziano. Io adotto la lezione «galline» della stampa di Lucca (quelle di Venezia e di Bologna sono prive del prologo) che mi par sicurissima: non potendosi pensare, mi sembra, ad un’apposizione, che sarebbe quanto mai sforzata, di «le vecchissime» a «sculture» (quasi che il senso fosse questo: «le sculture, proprio quelle vecchissime e soltanto esse»); e potendosi ancor meno ammettere che, nell’enumerazione delle «cose vecchie migliori che le nuove», abbiano per l’appunto a mancar le galline con le quali sono, invece, immediatamente dopo, raffrontate le donne. — A. II, se. i: «E la mia mala sorte ha voluto che io abbia a esser sottoposto a tanto male. Non m’è mal chi mi ha sottoposto; perché quattro anni sono ch’io cominciai a voler bene a Cassandra, la sua figliuola, non pensando però che questo nostro amore avessi avere si tristo effetto». Scrivendo: «Non m’è mal chi mi ha sottoposto... », cerco di ricavare un senso dalla lezione di R 1 «non me mal...»; quasi che il compiuto pensiero di Cesare dovesse esser questo: «Non è, per me, un male colei che mi ha innamorato, ma si il padre suo col quale ho, disgraziatamente, da fare». Ma è senso stiracchiato e sforzato, di cui sono tutt’altro che soddisfatto. D’altra parte, non servono a dar luce su questo punto né gli altri tre manoscritti né le stampe. I primi, infatti, leggono: «...sottoposto a tanto male non me ma chi m’ha sottoposto perché quattro anni...»; e le seconde (cito per tutte quella di Bologna) leggono: «... sottoposto a tanto male, ne mi manchi, perché quattro anni...». Insomma, il luogo è guasto; e io confesso di non aver saputo trovare il. vero e sicuro modo di emendarlo. — A. in, se. 2: «Io ho paura che noi non facciam come ’l Gonnella». Queste parole, che, secondo Ri, sono pronunziate, al modo stesso delle precedenti e delle seguenti, da ser Iacopo, io le attribuisco invece ad Aridosio; attenendomi, in ciò, alla stampa di Bologna del 1548, senza tuttavia accoglierne la lezione («Io ho paura che facciate com’il Gonnella»). — A. in, se. 5: «Ruf. Un rubino in tavola. Io credo che fosse falso. Avea assai bella mostra; legato all’antica; scantonato un pochetto da una banda. Dice ch’è antico di casa vostra». Seguo, anche qui, la stampa di Bologna (che ha però «poghetto» invece di «pochetto»); sembrandomi naturale e logico che tutte queste parole debbano esser dette dal solo Ruffo. Invece, secondo Ri, sarebbe inserita, nel discorso di Ruffo, un’interruzione di Aridosio: «Ruf. Un rubinetto tavola Io credo che fussi falso havea assai bella mostra legato all’antica. Ar. Scantonato. Ruf. Un pò rotto da una banda dice che è anticho di casa vostra». — A. 111, se. 6: «Lue. Forse li ritroverete. Ma voi dicevate di non aver un soldo, ed ora dite di aver perso due mila ducati? Ar. Tu te ne fai beffe, sciagurato?». Aggiungo, secondo la stampa di Bologna, le parole «Ma voi... ducati» che mancano in R 1 e che mi sembrano necessariamente richieste dalla successiva irosa domanda di Aridosio. — A. iv, se. 5: «A me toccherebbe a esser mona Lucrezia; e vorrei star, quelli otto di, sempre nel letto con qualche mio innamorato». Le parole «con qualche mio innamorato» mancano in R 1; ma si trovano, e mi par che sian necessarie, nella stampa lucchese del 1549.
vii
IL RAGAZZO
Di questa commedia del Dolce furono fatte, per quanto io sappia, sei edizioni; tutte a Venezia, e tutte nel sec. xvi. Le prime due uscirono nello stesso anno 1541: l’una dall’officina tipografica di Curzio Navo; l’altra da quella di Alessandro Bindoni e Maffeo Pasini23. Poi ristampò la commedia «Francesco detto lo Imperador», nel 1559; poi di nuovo la impresse, nel 1560, insieme con altre quattro commedie dello stesso autore, Gabriel Giolito de’ Ferrari; e 24finalmente la diedero in luce gli «heredi di Bortolamio Rubin» nel 1586 e Giovan Battista Bonfadino nel 1594. Io riproduco il testo secondo la raccolta giolitina del 1560, che ha il seguente titolo: Comedie di M. Lodovico Dolce. Cioè, II Ragazzo. Il Capitano. | // Marito. La Fabritia. Il Ruffiano. Con privilegio. In Vinegia appresso Gabriel Giolito de’ Ferrari. MDLX. È chiaro, infatti, che essa ci rappresenta la forma definitiva della commedia: avendo il Dolce medesimo curato la stampa del volume, come dimostra la sua lettera di dedica «al magnifico S. Prospero Podacataro» in data «Di Venetia a X. di Marzo, MDLX».25
Credo inutile render conto di alcuni pochi emendamenti che mi sono stati suggeriti dalle stampe Bindoni e Pasini del 1541 e Francesco Imperatore del 1559. Ma si ne indico alcuni altri che, non soccorrendomi le antiche edizioni (tutte concordi con quella giolitina), ho introdotto nel testo per congettura mia propria. A. ii, se. 5: «Avengane che vuole, non si può mettere mano alle grandi imprese senza gran rischio» (ediz.: «... non si può mettere alle grandi...»). — A. ni, se. 7: «Se volete che io vada ad aprire a Flamminio, non converrá partirmi da lei?» (ediz.: «... ad aprire Flamminio...»). — A. in, se. 11: «Per ciò voi disporrete di me quanto vi sará in grado, che la servitú mia non è per finirsi se non per morte» (ediz.: «Perciò voi esporrete di quanto vi sará in grado...»). Il mio emendamento è legittimato, mi sembra, dalla lezione, pur essa erronea, della stampa Bindoni: «Perciò voi esporrete di me quanto vi sará...». — A. in, se. 14: «A ogni modo, non ci si può vivere» (ediz.: «Ogni modo...»). — A. iv, se. 1: «Tu non parli ora dei giulii e delle altre monete ch’egli ti diede avanti che ti partissi» (ediz.: «... avanti che ti partisti»). — A. iv, se. 3: «Tale devea esser la cena ordinata da voi, che ’l fuoco v’abbruci, disleali, furfanti e mancatori di fede!» (ediz.: «... che ’l fuoco v’abbrucia...»).
Un ultimo avvertimento, rispetto al numero delle scene dei primi tre atti: per il quale v’è disaccordo fra la presente edizione e quella del Giolito, a causa di un errore e di varie dimenticanze in cui cadde la tipografia veneziana e che qui conveniva correggere e riparare. L’errore consiste nell’aver designato la se. 4 dell’a. 1 come «Scena terza» e, conseguentemente, le due successive come «quarta» e «quinta» mentre sono, in realtá, la quinta e la sesta. Le dimenticanze, che produssero poi altrettanti errori di numerazione, si riferiscono alle scene 2 e 4 dell’a. n e alle scene 3, 6 e 7 dell’a. ni, innanzi alle quali si omise la parola «Scena...» col relativo numero d’ordine e ci si limitò ad indicare il nome degli interlocutori: «Ciacco solo cantando»; «Ciacco solo»; «Spagnuolo solo»; «M. Cesare, Ciacco»; «M. Cesare, Catherina, Ciacco». E cosí accadde che, nell’atto secondo, fosse designata come «Scena seconda» quella che è invece la terza e come «Scena terza» quella che è invece la quinta; che, nell’atto terzo, le scene 4 e 8 apparissero rispettivamente come «terza» e «quinta»; che, insomma, venisse ad esser turbata e disordinata la numerazione progressiva di tutte le scene. Gli ultimi due atti concordano. Solo, innanzi alla se. 5 delPa. v, ho aggiunto al nome dei due personaggi «Ciacco, Caterina» quello di «Giacchetto» mancante nell’edizione Giolito.
viii
I BERNARDI
Secondo il Mazzuchelli, questa commedia di Francesco D’Ambra sarebbe stata pubblicata due volte dai Giunti di Firenze: nel 1563 e nel 1564. Ma 26della supposta prima edizione del 1563 tacciono affatto tutti gli altri bibliografia27; e, alcuni anni fa, negò recisamente l’esistenza Emilio De Benedetti28: sicché è da credere che il Mazzuchelli sia stato tratto in errore dalla lettera di dedica di Frosino Lapini a Claudio Saracini che è premessa alla stampa del 1564 e che ha la data «Di Fiorenza alli xx. di Gen. mdlxiii». 29 Comunque, i Bernardi uscirono in luce, dopo la morte dell’autore, per le cure del suo amico Lapini che giá, poco innanzi, aveva pubblicato l’altra sua commedia intitolata II furto. E, d’allora in poi, non ebbero che due successive ristampe: la prima, a Firenze, nel 1750, «copiata fedelmente», com’è detto sul frontespizio, «dall’edizione de’ Giunti del 1564»;30 e la seconda, a Trieste, nel 1858, derivante pur essa dalla giuntina31pongo a fondamento di questa mia nuova edizione il codice Magliabechiano 11. vm. 29: nel quale la commedia è preceduta da una lettera di dedica del D’Ambra a Cosimo de’ Medici, che fu sostituita, nella stampa dei Giunti, da quella, già ricordata, di Frosino Lapini al Saracini; e nel quale è lecito riconoscere, se non con certezza, almeno con probabilità, l’esemplare stesso offerto dall’autore al duca mediceo32. Scritto in caratteri calligrafici, con molta cura e con una tal quale sobria eleganza, questo codice è quasi sempre corretto; e le non molte negligenze che pur vi si trovano, e di cui sarebbe superfluo dar qui precisa informazione, si correggono facilmente o col proprio giudizio o mediante il confronto con la stampa fiorentina del 156433. Un solo punto, per il quale seguo la stampa allontanandomi dal codice, deve essere esattamente rilevato e chiarito.
L’atto quarto termina, secondo il manoscritto ’Magliabechiano, con la scena nona (dialogo fra Albizo e Bolognino) e propriamente con le parole di Bolognino «Andiam, ch’orma’ presto l’arete in braccio». Invece, secondo l’edizione dei Giunti, questa medesima scena, che è però ivi la decima e non la nona,34, ha, dopo il verso ora citato, altri sei versi; ed è poi seguita da un’altra non breve scena (dialogo fra Aldabella, Albizo e Bolognino) con la quale veramente l’atto si chiude. Ora, a una dimenticanza dell’amanuense del Magliabechiano, che, nel trascrivere il proprio originale, saltasse via distrattamente gli ultimi sei versi della nona (o decima) scena e tutt’intera la scena decima (o undicesima), non si può pensare in nessun modo;35 ma neppure si può pensare, fino a prova in contrario, che Frosino Lapini, pubblicando l’opera dell’amico, prolungasse di sua propria testa una scena e tutta un’altra scena aggiungesse. Piuttosto sarà da ammettere una doppia redazione della commedia e saran da formulare due ipotesi ugualmente ragionevoli e possibili: o che il D’Ambra medesimo sopprimesse, come non necessario allo svolgimento e all’intelligenza della favola, il dialogo, precedentemente scritto, fra Aldabella, Albizo e Bolognino (e quindi anche i sei versi che lo ricollegavano alPanterior dialogo fra Bolognino e Albizo); o che, al contrario, lo immaginasse, e lo inserisse in séguito nell’opera propria, come opportuno a meglio lumeggiare la figura losca della mezzana. In questa incertezza, non possedendo nessun dato di fatto che giovi a determinare quale sia la forma definitiva voluta dall’autore, ho seguito, si, come già dissi, per tutta la commedia, il testo del codice anziché quello della stampa; ma ho creduto doveroso, per il caso particolare di cui qui si discorre, attenermi alla seconda e discostarmi dal primo, conservando gli ultimi sei versi della scena nona e tutta la decima. Il sopprimere quelli e questa, solo perché mancanti nel codice Magliabechiano, se avrebbe potuto corrispondere ad una felice intuizione della verità, avrebbe anche potuto essere un grave e pericoloso arbitrio.
- ↑ Per le avvertenze generali si veda la Nota al volume primo.
- ↑ Bibliografia universale del teatro drammatico italiano, 1 (Venezia, 1903), 209. A quest’opera del Salvioli è sopra tutto da ricorrere per aver notizia delle varie stampe della commedia piccolominea. Ma si vedan pure: Allacci, Drammaturgia, Venezia, 1755, col. 55-6; Brunet, Manuel du libraire, Parigi, 1860-65, iv, 631; Graesse, Trésor de livres rares et prècieux, Dresda, 1859-67, li, 236; in, 427 e v, 280.
- ↑ Il «mdxxxi» stampato sul frontespizio è un errore tipografico, che si spiega facilmente coli’ involontaria omissione di un «v», per «mdxxxvi»: poiché, appunto nel 1536, la commedia fu rappresentata a Siena alla presenza dell’imperator Carlo V; e vi si parla, infatti, nel prologo e nella se. 3 dell’a. n, come di cosa avvenuta «l’anno passato», dell’espugnazione di Tunisi, che ebbe luogo nel 1535. Intanto, da questo semplice errore ne rampollò un altro, assai piú grave, del Panzer, Annales typographici, via, 525: «Stordito Intronato. L’Amor costante, Commedia. Venezia 1531. 12. Catal. Svaier. p. 408»; con la quale assurda registrazione si afferma l’esistenza di una stampa della commedia anteriore di cinque anni al tempo in che la commedia stessa fu composta.
- ↑ Fa parte del volume di Comedie elette | novamente raccolte in- stente dal Ruscelli e pubblicate, pei tipi del Pietrasanta, nel suddetto anno 1554.
- ↑ Bibliotheca Leopoldina Laurentiana seti Catalogus manuscriptorum qui. Laurcntianam translati sunt, Firenze, 1791-97, in, 292.
- ↑ L’esistenza di questa lettera mi fu rivelata da L. A. Ferrai, Lorenztno de’ Medici e la societá cortigiana del Cinquecento, Milano, Hoepli, 1891, p. 431: se non che, per uno di quei deplorevoli ma inevitabili errori tipografici che son poi causa di una gran perdita di tempo, egli indicò, delle carte Strozzi Uguccioni, la filza 133 invece della 135.
- ↑ Andò perduto il primo foglio dell’ultimo quinternetto, sicché vennero a mancare due carte (ossia quattro pagine) di esso quinternetto: una al principio, e una alla fine. Di qui derivarono una vasta lacuna nel corpo della commedia, fra la scena sesta e la settima dell’atto quarto, e un’altra assai piú breve, anzi di sole poche righe, al termine della commedia medesima.
- ↑ Giá il D’Ancona, Origini del teatro italiano, Torino, Loescher, 1891, osservò: «Secondo un’avvertenza scritta sull’apografo Riccardiano, num. 2970, che vorrebbesi, erroneamente a parer nostro, autografo, VAridosio fu recitato» ecc. (11, 166 n. 2). E ebbe ragione; poiché il confronto con la lettera di Lorenzino del 17 luglio 1544 ne esclude l’autografia anche piú recisamente di quel che possa farsi per il cod. Laurenziano Medie. Palat. 99.
- ↑ Le varie composizioni, che erano, un tempo, raccolte nell’unico codice della Riccardiana 2970, furono modernamente staccate e rilegate ciascuna per se medesima in modo da formare tanti volumetti indipendenti. Occorrendo, dunque, distinguere le due copie dell’Aridosia che facevan parte di quel codice, aggiungo gli esponenti 1 e 2 al 2970 col quale si determina genericamente l’intero manoscritto.
- ↑ Aridosio | Comedia del Sig. Lorenzi- no de Me- dici. | In Vinegia appres- | so Matio Pagan in fine: Stampata in Venegia per Mattio Pagan in Frezaria in le case nuove, il guai tien per insegna la Fede. — Che quest’edizione possa esser «forse la prima» pensò Apostolo Zeno (Bibliot. dell’eloquenza ital., Parma, 1803-4, t. 1, p. 391); e come «peut-étre la première» la registrò il Brunet, Manuel, ili, 1572. Invece il Graksse, Trésor, iv, 461, la suppose eseguita «vers 1593»; e ’ Salvioli, Bibliografia, 1, 352, scrisse recisamente: «Il Fontanini e lo Zeno credono questa edizione la piú antica di tutte, ma sono in errore». Su che si appoggino tanto la negazione del Salvioni quanto la supposizione del Graesse non so; mentre mi pare che l’ipotesi dello Zeno e del Brunet possa trovare una qualche conferma nel fatto che la stampa di Mattio Pagan usci a Venezia, ossia proprio in quella cittá dove Lorenzino trascorse i suoi ultimi anni e dove potè essere agevole a qualcuno venire in possesso di una copia della commedia.
- ↑ Aridosio | Comedia del Sig. Lorenzi- no de Me- | dici. Novellamente pò- | sta in luce. In Bologna, M. D. XLVI/I fine: In Bologna a gli | XXII. di febraro | M. D. XLVIII. — Di quest’edizione, rarissima, io ho potuto esaminare la copia che se ne conserva nella Biblioteca nazionale di Firenze. Veramente strano è l’errore di alcuni bibliografi (per es. del Brunet, Manuel, in, 1572 e del Hkym, Biblioteca italiana, 11, 160) che registrano un’Arido sia in versi, edita, appunto in Bologna, nel 1548; errore che risale, a quanto sembra, al Crescimbeni, Istoria della volgar poesia, Venezia, Basegio, 1730 e al Quadrio, Storia e ragione d’ogni poesia, Milano, Agnelli, 1741-52. Il primo, infatti, affermò (e il secondo ripetè, quasi con le stesse parole, nel voi. in, parte 2, p. 68) avere il Medici composta «una commedia in versi volgari intitolata L % Aridosio, che fu stampata in Bologna nel 1548. Questa commedia truovasi anche in prosa impressa in Lucca lo stesso anno 1548 e ristampata in Firenze nel 1595» (voi. v, p. 141). Un’Aridosia in versi none mai esistita se non nella fantasia di questi eruditi.
- ↑ Aridosio | Comedia del Sig. Loren- zino de Medici. Novellamente posta | in luce. | Stampata in Lucca per Vincentio Busdrago MDXLIX. — A torto il Fontanini, Biblioteca, i, 391 e I’Allacci, Drammaturgia, col. 108 e il Crescimbeni, loc. cit. e il Quadrio, Storia, ni, 11, 84 e il Heym, Biblioteca, 11, 169 registrarono un’edizione di Lucca, Busdrago, 1548. Di quest’anno 1548 è l’edizione bolognese; e la sola stampa del Busdrago è quella del 1549. Si noti che esso il Busdrago, appunto nel 1549, e non prima, come giá ebbe ad avvertire Salvatore Bongi, incominciò l’opera sua di tipografo, dando in luce Quattro novelle di Francesco Maria Molza; novelle che egli stesso, nella lettera di dedica al Vellutelli, dichiarò «d’imprimere... come primo saggio della sua stampa» (ved. E. Boselli, Le vicende di un libro rarissimo in Rivista delle biblioteche, a. iv, voi. ív, nn. 43-46, p. 162). Non poteva, dunque, innanzi alle Novelle del Molza, aver pubblicato V Aridosia del Medici.
- ↑ Cito secondo la nostra edizione, che corrisponde ai codici e, in particolar modo, come giá dissi, al Riccardiano 2970 1. Le parole chiuse fra parentesi quadre sono quelle che mancano alle due stampe di Venezia e di Bologna. E avverto ancora che non tengo conto delle singole differenze formali.
- ↑ E a chi saranno esse dovute? Secondo L. A. Ferrai, Lorenzino de •’Medici, pp. 340 e 341 n. 1, lo stesso autore avrebbe curato la prima edizione della sua commedia, che sarebbe quella veneziana di Mattio Pagan. Io penso, invece (mentre, di passaggio, osservo che, per ragioni cronologiche, potremmo supporre una diretta partecipazione del Medici anche all’altra edizione di Bologna del 1548, poiché essa fu terminata di stampare il 22 febbraio di quell’anno e Lorenzino fu ucciso dai sicari di Cosimo quattro giorni dopo), che YAridosia venisse in luce all’insaputa dell’autore e fosse condotta su una copia assai frettolosamente eseguita. La stessa mancanza del prologo, che si avverte in tutt’e due le edizioni, e nella quale il Ferrari credè di poter riconoscere un sottile accorgimento politico di Lorenzino («egli voleva confermare ciò ch’egli stesso avea diffuso tra i fuorusciti, che cioè presentando YAridosia sulla scena a Firenze, si era servito del prologo per annunziarvisi autore di una sanguinosa tragedia. Omettendolo nell’edizione, chi non avrebbe creduto che esso non contenesse allusioni politiche, non tollerate dai revisori?»), pare a me un’assai chiara prova della fretta e della disattenzione con cui si attese da qualche estraneo all’opera della stampa.
- ↑ Ingenua ho detto la dichiarazione del Busdrago, in quanto egli riconosce apertamente la scorrettezza del libro da lui edito; ma anche maliziosa, in quanto egli vorrebbe riversarne tutta la colpa sulla stampa di Bologna e su un manoscritto intorno a cui non dá precise notizie. E ammettiamo, dunque, che a questo manoscritto risalga davvero la responsabilitá delle imperfezioni che guastano l’edizione lucchese. Ma, per ciò che si riferisce all’edizione di Bologna, il fatto è proprio l’opposto di quel che il Busdrago vorrebbe farci credere; giacché il torto di lui non consiste giá nell’aver seguito quell’edizione, ma, anzi, nell ’essersene allontanato.
- ↑ Aridosio | Commedia del Signor Lorenzino de Medici. Nuovamente ristampata. In Firenze, per Filippo Giunti, MDCXIII. Vi si trova riprodotta anche la lettera di dedica del Busdrago «al magnifico messer Girolamo Serdini».
- ↑ Aridosio | Commedia del Signor Lorenzino de’ Medici in fine: In Firenze | Appresso i Giunti. MDCV. Che quest’edizione sia stata fatta a Napoli verso il 1720 invece che a Firenze nel 1605 affermano i giá citati bibliografi. E un’altra stampa napoletana del 1731, che io noti ho visto, ricorda, non so su quale fondamento, l’Allacci, loc. cit.
- ↑ L’Aridosia commedia di Lorenzino de’ 1 Medici esemplata sulle antiche rarissime stampe con in fine V Apologia ecc., Trieste, Dalla Sezione letterario-artistica del Lloyd austriaco, 1858. Quest’edizione fa parte di un curioso volume constituito mediante la meccanica riunione di vari grossi fascicoli indipendenti, ognun dei quali, tranne il primo, ha un suo speciale frontespizio e una sua speciale numerazione di pagine. Vengono prime le commedie del D’Ambra; poi seguono quelle del Varchi, del Firenzuola, del Medici, del Salviati, del Bibbiena. Sul frontespizio dell’intero volume è stampato il seguente titolo generico: Il teatro classico del secolo XVI, Milano, presso l’Ufficio generale di commissioni ed annunzi, Galleria Vittorio Emanuele, N. 77 (senz’altra indicazione tipografica).
- ↑ L’Apologia, V Aridosio, commedia, e le Lettere di Lorenzino de’ Medici, aggiuntovi il racconto della sua morte ecc., a cura di C. Tèoli, Milano, Daelli e Comp., 1862.
- ↑ Aridosia commedia in cinque atti e un prologo, Apologia di Lorenzino de’ Medici con prefazione e note di F. Biglioni, Milano, Sonzogno, 1887.
- ↑ Teatro italiano antico, Commedie... rivedute e corrette sugli antichi testi e commentate da Jarro, voi. 1, Firenze, Succ. Le Mounier, 1888. — Appena giova ricordar qui di sfuggita l’altra edizione che dell’Aridosia curò S. Pacini, Commedie del teatro antico fiorentino ecc., Firenze, Paggi, 1877. Essa è, infatti, una goffa contraffazione della commedia del Medici, con tagli e arbitri d’ogni genere in tutti quei luoghi che fossero o paressero all’editore irreligiosi o immorali; una di quelle goffe contraffazioni che, troppe volte, si reputarono lecite ad uso e vantaggio della gioventú studiosa
- ↑ Le mise però espressamente in rilievo, appunto per determinare il vero titolo della commedia, F. Flamini, // Cinquecento, p. 555.
- ↑ La stampa del Navo, ricordata da vari bibliografi (Fontanini-Zeno, Biblioteca, 1, 401; Allacci, Drammaturgia, 656; Graesse, Trèsor, 11, 417), non credo possa mettersi in dubbio; ma io non l’ho vista.
- ↑ Errò certamente il Heym, Biblioteca, 11, 167-8, registrando una reimpressione giolitina del 1561. Ne tace, infatti, S. Bongi, Annali di Gabriel Giolito de’ Ferrari, Roma, 1890-95; che pur descrive (li, 94), con la sua consueta diligenza, la stampa del 1560.
- ↑ Dopo questa lettera, a e. 3, incomincia ex abrupto il ’Prologo ’del Ragazzo; che non ha, dunque, una sua speciale intitolazione. Le altre quattro commedie, invece, sono precedute da un loro proprio frontespizio ove, insieme col titolo, è ripetuta anche la nota tipografica del frontespizio generale della raccolta «In Vinegia » ecc.
- ↑ Scrittori d’Italia, voi. i, parte 2, p. 602.
- ↑ Ved. Allacci, Drammaturgia, 144 e 851; Quadrio, Storia, voi in, parte 2, p. 71; Fontanini - Zeno, Biblioteca, 1, 426; Haym, Biblioteca, 11, 162; Brunet, Manuel, 1, 226; Graesse, Trésor, 1, 98; L. Razzolini e! A. Bacchi della Lega, Bibliografia dei testi di lingua a stampa citati dagli accademici della Crusca, Bologna, Romagnoli, 1878, pp. 20 e 346; Salvioli, Bibliografia, 1, 524-25.
- ↑ La vita e le opere di Francesco D’Ambra, Firenze, Ufficio della «Rassegna nazionale», 1899, p. 28.
- ↑ Egli pensò, probabilmente, che, se questa lettera è del 1563, dovè, dunque, accompagnarsi ad un’edizione dello stesso anno: dalla quale sarebbe poi stata riprodotta nell’edizione successiva del 1564. Ma il Lapini avrá seguito lo stile fiorentino; € lo stampatore (sempre secondo lo stile fiorentino) avrá apposto al libro, come anche oggi accade frequentemente, la data del nuovo anno che stava per cominciare: sicché, in sostanza, le due date 1563 e 1564 finiscono coli’ identificarsi.
- ↑ Si trova nel voi. v del Teatro comico fiorentino, Firenze, 1750. Curioso indice della bigotteria che imperversò cosi lungamente, in Toscana e altrove, dopo la controriforma è la soppressione di alcune parole (quelle da me chiuse fra parentesi quadre) nei seguenti luoghi delle scene 6 e 7 dell’a. v: «Oimè! oimè! [Gesù 1] l’spirito. | Come può star questa cosa? [In nomine | Patris et Fili] Certo quest’è opera»; «tener la casa tua? Vo’ ch’ai [vicario | dell’arcivescovo] andiamo, e poniamoli»; «E che vuo’ tu che faccia in ciò ’1 [vicario?]»; «Ah! Tu di’ ben; egli è ver. Se et giudica | [i preti e’ frati, che peggio che diavoli] | sono» ecc.
- ↑ Si trova nel volume, di cui già feci parola a proposito deWAridosia, intitolato Il teatro classico del secolo XVI, Milano, presso l’Ufficio generale ecc. Che quest’edizione provenga direttamente dalla stampa del 1564 è dimostrato dal non trovarvisi le goffe lacune delle scene 6 e 7 dell’a. v che deturpano la posteriore stampa del 1750 e che ho notate qui sopra.
- ↑ . Io Sulla sesta delle carte bianche che precedono il testo della commedia è quest’avvertenza manoscritta: «Ambra (Francesco d’) i Bernar-! di Commedia in versi sdruccioli. Cod. in 4. chart. foli. 07. cum epistola nun- eupatorio ad Cosmum I. cui hoc ipsum exemplar nitide scriptum oblatum fuisse videtur ab auctare. Edita fuit anno 1364. In typographia Iunctarum. Fuit | Cosmi I. M. E. £>„ fut videtur) cui inscri- pta fuit, et haeredum. Antonii Magliabechii, qui cod. ex Palati- na Magnorum Ducum Bibliotheca | f orlasse obtinuit». Non so di chi sia tale avvertenza; ma la congettura che vi si esprime pare a me ragionevolissima, come già parve anche al De Benedetti, op. cit., p. 30. Il quale De Benedetti pubblicò, dal cod. Magliabechiano, la dedicatoria del D’Ambra (pp. 30-32) e il prologo (pp. 33-35): facendo seguire quest’ultimo dal testo del prologo stesso secondo la stampa del 1564.
- ↑ Ricavo, ad es., da quest’edizione (il cui titolo è: I Bernardi Comedia di M. Francesco D’Ambra Cittadino, & Accademico Fiorentino. Nuovamente data in luce. | Con privilegio. In Fiorenza appresso i Giunti. MDLXIIII [in fine: In Fiorenza per Bartolomeo Sermartelli, MDLXIIII. A stanza delti heredi di Bernardo de Giunti]) l’elenco dei personaggi, che nel codice manca. Solo vi introduco alcune modificazioni richieste dalle diverse forme che il codice offre nel testo della commedia; e scrivo «Bisdomini» invece di «Visdomini», «Piro» invece di «Pietro» ecc.
- ↑ Tale diversità di numerazione deriva da ciò: che, nel codice (e, per conseguenza, in questa nostra ristampa), la se. 6 dell’a. iv comprende cosi il monologo di Fazio come il suo dialogo successivo con Bolognino e i due facchini; mentre, nell’edizione dei Giunti, il dialogo e il monologo formano due scene separate e distinte (la 6», che si chiude con le parole di Fazio «Egli è desso. Che disegno | fa costui?», e la 7», che si apre con le parole di Bolognino «Or siam a casa. Muovetevi»). Quindi accadde che il numero d’ordine di ciascuna delle scene seguenti si accrescesse, nella stampa fiorentina, d’un’unità.
- ↑ Di altri due codici dei Bernardi, che furon già additati dal De Benedetti e intorno ai quali ha avuto la cortesia di comunicarmi alcune notizie il cav. Carlo Nardini, uno, il Riccardiano 2818, offeso da gravissime mutilazioni, contiene, solo in parte, il primo atto ed il terzo; l’altro, il Riccardiano 2970, ov’è contenuta l’intera commedia in prosa, concorda col Magliabechiano, poiché, in esso, l’atto quarto termina colla scena decima (la numerazione è, dunque, conforme a quella della stampa giuntina) e precisamente colle parole «Andiamo che presto homai l’haverete in braccio». Di questa redazione prosastica il De Benedetti pensa che non ci rappresenti la prima stesura dei Bernardi ma sia stata fatta, per servire ad una qualche recita, da chi «aveva dinanzi il testo in versi, e veniva copiandolo senza cambiare nulla, fuorché qua e là l’ordine delle parole» (op. cit., p. 39).