Commedia (Buti)/Paradiso/Canto XVIII

Paradiso
Canto diciottesimo

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C A N T O     XVIII.





1Già si godea solo del suo verbo
     Quello specchio beato, et io gustava
     Lo mio, temprando col dolce l’acerbo;
4E quella donna ch’a Dio mi menava,
     Disse: Muta pensier, pensa ch’ io sono
     Presso a Colui ch’ ogni torto disgrava.
7Io mi rivolsi a l’ amoroso sono
     Del mio conforto; e quale io allor vidi
     Ne li occhi suoi amor, qui l’ abbandono:1
10Non perch’io pur del mio parlar diffidi;
     Ma per la mente che non può, redire
     Sovra sè tanto, s’ altri nolla guidi.
13Tanto poss’io di quel punto ridire,
     Che, rimirando lei, lo mio affetto
     Libero fu da ogni altro disire,
16Fin che ’l piacer eterno, che diretto
     Raggiava in Beatrice del bel viso2
     Mi contentava col sereno aspetto.
19Vincendomi col lume d’ un sorriso,3
     Ella mi disse: Volgeti et ascolta:
     Chè non pur ne’ miei occhi è Paradiso.

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22Come si vede qui alcuna volta
     L’affetto ne la vista, s’ ello è tanto,
     Che da lui sia tutta l’anima tolta;4
25Così nel fiammeggiar del fulgor santo,
     A eh’ io mi volse, cognobbi la vollia5
     In lui di ragionarmi ancora alquanto.
28El cominciò: In questa quinta sollia
     Dell’arbore che vive de la cima,6
     E frutta sempre e mai non perde follia,
31Spiriti son beati che giù, prima
     Che venisser al Ciel, fur di gran voce,
     Sì che ogni Musa ne serebbe opima.
34Però mira nei corni de la croce:7
     Quel, ch’io nominerò, lì farà l’atto,8
     Che fa in nube suo foco veloce.
37Io viddi per la croce un lume tratto,
     Dal nomar Iosue, com’ ei si feo;9
     Nè mi fu noto ’l dir prima che l’atto.10
40Et al nome dell’ alto Maccabeo
     Viddi muoversi un altro roteando,
     E letizia era ferza del paleo.
43Così per Carlo Magno e per Orlando
     Du’ ne seguì lo mio attento sguardo,
     Com’occhio segue suo falcon volando.
46Possa trasse Guiglielmo, e Rinoardo,
     E ’l duca Gottifredi la mia vista
     Per quella croce, e Ruberto Guiscardo.

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49Indi tra l’ altre luci mota e mista11
     Mostrommi l’alma, che m’ave parlato.12 13
     Qual era tra i cantor del Cielo artista.
52Io mi rivolsi dal mio destro lato,
     Per vedere in Beatrice il mio dovere
     O per parole, o per atto, segnato;
55E viddi le suoi luci tanto mere,14
     Tanto ioconde, che la sua sembianza
     Vinceva li altri e l’ultimo solere.
58E come, per sentir più dilettanza,
     L’ omo operando ben di giorno in giorno,15
     S’ accorge che la sua virtù avanza;
61Sì m’accors’io, che ’l mio girar intorno
     Col Cielo insieme avea cresciuto l’arco,
     Veggendo quel miracol sì adorno.16
64Quale il trasmutar in picciol varco17
     Di tempo in bianca donna, quando il volto
     Suo discarchi di vergogna il carco;18
67Tal fu ne li occhi miei, quand’ io fui volto,
     Per lo candor de la temprata stella
     Sesta, che dentro a sè m avea ricolto.
70Io viddi in quella iovial facella19
     Lo sfavillar dell’amor, che lì era,
     Segnar a li occhi miei nostra favella.
73E come augelli surti di rivera,
     Quasi congratulando a lor pasture,
     Fanno di sè or tonda, or altra schiera;20

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76Sì dentro ai lumi sante creature21
     Volitando cantavano, e faceansi
     Or D, or I, or L in sue figure.
79Prima cantando a sua rota moveansi;22
     Poi, diventando l’un di questi segni.
     Un poco s’arrestavano e taceansi.
82O diva Pegasea, che l’ ingegni
     Fai gloriosi e rendili longevi,
     Et essi teco le cittadi e i regni,
85Illustrami di te sì, che rilevi
     Le lor figure, com’ io l’ ò concette:
     Paia tua possa in questi versi brievi.
88Mostrarsi dunque in cinque volte sette
     Vocali e consonanti; et io notai
     Le parti, sì come mi parver dette.
91Diligite justitiam, i primai
     Fuor verbo e nome di tutto ’l dipinto;
     Qui judicatis terram, fuor sezzai.
94Possa nell’emme del vocabol quinto23
     Rimaser ordinati sì, che Iove
     Parea d’argento lì d’oro distinto.
97E viddi scender altre luci, dove
     Era ’l colmo dell’emme, e lì quetarsi24
     Cantando, credo, il Ben ch’ a sè li move.25
100Poi, come nel percuoter dei ceppi arsi26
     Surgono innumerabili faville,
     Onde li stolti solliono augurarsi;
103Risurger parver quinde più di mille
     Luci, e salir qual’assai, e qual poco,
     Siccome ’l Sol, che l’accende, sortille.

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106E quietata ciascuna ’n suo loco,
     La testa e ’l collo d’ un’ aquila vidi
     Rappresentar a quel distinto foco.
109Quel che dipinge lì, non à chi ’l guidi;
     Ma esso guida, e da lui si rammenta27
     Quella virtù che forma per li nidi.
112L’altra beatitudo, che contenta
     Parea in prima d’ingilliarsi all’emme,28
     Con poco moto seguitò la imprenta.
115O dolce stella, quali e quante gemme
     Mi dimostroro che nostra iustizia29
     Effetto sia del Ciel che tu ingemme!
118Per ch’io prego la Mente, in che s’inizia
     Tuo moto e tua virtute, che rimiri
     Ond’ esce ’l fumo, che tuo raggio vizia,30
121Sì ch’ un’ altra fiata omai s’adiri
     Del comperare e vender dentro al tempio,
     Che si murò di sangue e di martiri.
124O milizia del Ciel, cui io contemplo,
     Adora per color, che sono in terra
     Tutti sviati dietro al mal esemplo
127Già si solea co le spade far guerra;
     Ma or si fa tolliendo or qui, or quivi
     Lo pan, che lo pio Padre a nessun serra.
130Ma tu, che sol per cancellare scrivi,
     Pensa che Piero e Paulo, che moriro31
     Per la vigna che guasti, ancor son vivi.

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131Ben puoi tu dir: Io ò fermo ’l disiro32
     Sì a colui, che volle viver solo,
     E che per salti fu tratto al martiro,
134Che non cognosco ’l Pescator, nè Polo.33 34


  1. v. 9. C. A. Negli occhi santi amor,
  2. v. 17. C. A. dal bel
  3. v 19. C. A. Vincendo me col lume d’un sol riso,
  4. v. 24. C. A. Che in lui
  5. v. 26. C. A. mi volsi conobbi la vaglia
  6. v. 29. C. A. Dell’ albero
  7. v. 34. C. A. nel corno
  8. v. 35. C. A. Quel, ch’io ti nomerò,
  9. v. 38. C. A. Giosuè, com’ el si feo;
  10. v. 39. C. A. che il fatto.
  11. v. 49. Mota, dal participio latino motus; mosso. E.
  12. v. 50. C. A. m’avea
  13. v. 50. Ave, sincope di avie, come talora cadevano in e, per uniformità al presente indicativo, le tre persone singolari dell’imperfetto. E.
  14. v. 55. C. A. le sue
  15. v. 59. C. A. Bene operando l’uom,
  16. v. 63. C. A. miracolo più adorno,
  17. v. 64. C A. E quale è il
  18. v. 66. C. A. Suo si disarchi
  19. v.70. C.A. giovial
  20. v.75. C.A. or lunga schiera;
  21. v. 76. C. A. a’ lumi santi
  22. v. 79. C. A. nota moviensi;
  23. v. 94. 94. C. A. nell’ M
  24. v. 98. C. A. dell’ M,
  25. v. 99. C. A. le more.
  26. v. 100. C. A. de’ ciocchi
  27. v. 110. Rammentare deriva da mente, ed il Poeta colla particella duplicati va accenna che da Dio si rammenta; cioè s’informa di mente, Si fornisce di mente duplicata la virtù ec. E.
  28. v. 113. C. A. Pareva prima d’ingigliarsi
  29. v. 116. Dimostroro, originato dalla terza singolare dimostrò, unitovi il consueto ro finale. E.
  30. v. 120. C. A. che il tuo
  31. v. 131. C. A. Pietro e Paolo,
  32. v. 131. C. M. Io fermo il
  33. v. 134. Ch’io non conosco
  34. v. 134 Polo; Paolo, come truovasi anche presso il Frezzi, lib. ii. cap. xvii «Poi mi rivolsi per veder San Polo» e Pol eziandio appo i Trovatori. E.


C O M M E N T O


Già si godea solo ec. Questo è lo canto xviii, nel quale lo nostro autore finge come anco fu dichiarato dal detto beato spirito d’alquanti di quelli beati spiriti, che erano nella croce di Marte; e, come uscito di Marte, si trovò montato nel pianeto di Iove. E però si divide il canto in due principali parti, secondo lo modo usato, imperò che prima finge come fu dichiarato da messer Cacciaguida d’alquanti beati spiriti di quelli che erano nella croce di Marte, e come si trovò sallito nel pianeto di Iove; ne la seconda incomincia a trattare di quello che vidde nel pianeto predetto, et incominciasi quine: Io viddi in quella iovial facella ec. La prima, che sarà la prima lezione, si divide tutta in quattro parti: imperò che prima finge come, finita la dichiaragione fatta dal detto beato spirito di sopra di quello che li dovea avvenire e sopra la sua comedia, elli ebbe pensieri sopra le dette cose, e come ammonito da Beatrice che mutasse pensieri elli si volse a lei, e chente la vidde allora si scusa che nol potea ridire; nella seconda finge che ne dicesse alcuna cosa ch’elli poteva, e com’ella lo fece accorto che attendesse anco al predetto beato spirito che li voleva parlare, et incominciasi quine: Tanto poss’io ec.; nella terzia finge come lo detto beato spirito l’incominciò a parlare e mostrarli alquanti di quelli beati spiriti che erano in quella croce, et incominciasi quine: El cominciò ec.; nella quarta finge com’elli si volse a Beatrice e come si trovò poi sallito nel pianeto Iove, et incominciasi quine: Io mi rivolsi ec. Divisa la lezione, ora è da vedere lo testo co le sue esposizioni letterali, allegoriche e morali.

C. XVIII — v. 1-12. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come, finita la dichiarazione fatta dal sopra detto beato spirito sopra quello che li dovea avvenire e sopra la sua comedia. elli ebbe pensieri sopra le dette cose; et, ammonito da Beatrice che [p. 528 modifica]mutasse pensieri, elli si volse a lei e chente la vide si scusa di non poterlo ridire, dicendo così: Già; cioè finita la sua dichiaragione et esortazione, si godea solo del suo verbo 1; cioè si godeva dentro da sè solamente del suo sermone: verbo si pillia alcuna volta per lo sermone e per lo parlare, secondo che dice lo Grammatico, sicchè vuole dire ch’elli godeva della bella dichiaragione, ch’avea fatto a Dante sopra li suoi dubbi sopra la sua esortazione che li avea data: gode la mente de la verità, quando l’à manifestata. Altramente si può intendere che quello spirito si godea solo del suo concetto che è Iddio: imperò che li beati sempre ànno nel suo concetto Iddio, e di quello godeno et in quello sono beati; per tanto vuole dire che già era ritornato al suo concetto; cioè a la sua beatitudine. Quello specchio beato; cioè quello beato spirito, che luceva a modo di specchio, et io; cioè Dante, gustava; cioè nello intelletto mio ripensava, Lo mio; cioè verbo, cioè lo mio concetto e quello che io aveva udito da messer Cacciaguida sopra amenduni li dubbi, temprando; cioè temperando, col dolce l’acerbo; cioè faccendo compensazione, cioè: Se io sarò cacciato dalla mia patria, io sarò ricevuto da sì fatto signore, chente fu detto di sopra; se io sarò diffamato, Iddio co la vendetta dichiarirà l’infamia; se io sarò odiato per dire la verità nella mia comedia, io sarò amato poi quando fia intesa, et acquisterò lunga fama: e così contemprava lo male col bene. E quella donna; cioè Beatrice, ch’a Dio mi menava; cioè la quale menava me Dante a Dio: imperò che la santa Teologia ene quella che Dante guida in questa sua poesi: imperò ch’elli si conforma co la santa Scrittura, Disse; cioè a me Dante. Muta pensier; cioè intende ad altre cose, non stare pure sopra cotesto, pensa ch’io sono Presso a Colui ch’ogni torto disgrava; cioè pensa che io Beatrice, che ti guido, sono presso a Dio, cioè che io òne tanto levata la tua mente con questi pensieri di pianeto in pianeto, che noi siam presso a l’ultimo fine: imperò che non abbiamo 2 a dire se non di Iove e di Saturno, e dell’ottava spera e del primo mobile, e poi saremo al cielo empireo, dove è Iddio. E perchè Dante si molestava più, e più si gravava de l’esilio che riceveva a torto e de la infamia, però lo conforta dicendo che Iddio ogni torto disgrava e dirizza colla sua iustizia. Io; cioè Dante, mi rivolsi; cioè rivolsi me, a l’amoroso suono; cioè al suono de la voce di Beatrice pieno d’amore, Del mio conforto 3; cioè di Beatrice, che è lo mio conforto in ogni mia tribulazione; e così è che la santa Teologia è conforto d’ogni tribulato: imperò ch’ella [p. 529 modifica]dimostra Iddio consolatore di coloro, che portano pazientemente le persecuzioni del mondo per suo amore, e quale io allor vidi; cioè io Dante, Ne li occhi suoi; cioè di Beatrice; e che s’intenda per li occhi assa’ volte è stato dichiarato, amor; tutta la santa Teologia, ch’è piena di carità e d’amore, qui; cioè in questa parte, l’abbandono; cioè lo lascio stare, Non perch’io; cioè io Dante, pur del mio parlar diffidi; cioè perda fidanza del mio parlare, cioè non è pur questa sola la cagione; ma anco ce n’è un’altra, Ma per la mente; cioè mia, che; cioè la quale, non può redire; cioè tornare, tanto Sovra sè; cioè tanto sopra la sua potenzia, cioè sì alto come ella vidde Beatrice non può tornare a dirlo e raccordarsene ora, s’altri; cioè se altri, cioè la grazia d’iddio, nolla guidi; cioè sia guida e conducitrice de la mente per le cose sì alte.

C. XVIII — v. 43-27. In questi cinque ternari lo nostro autore finge come nel ragguardamento di Beatrice elli fu libero da ogni altro desiderio; e come ella l’ammonitte che attendesse ancora al sopra detto beato spirito, dicendo: Tanto poss’io; cioè io Dante pur posso, di quel punto; che io òne detto di sopra di Beatrice, ridire; tanto, quanto è questo, cioè Che, rimirando lei; cioè Beatrice, lo mio affetto; cioè lo mio volere e desiderio. Libero fu da ogni altro disire; cioè da ogni altro desiderio, che io avea prima, Fin che ’l piacer eterno; cioè mentre che la grazia d’Iddio, che è eterno piacere, che; cioè lo quale, diritto; cioè dirittamente, e non per obliquo, Raggiava; cioè risplendeva, in Beatrice del bel viso; cioè di Beatrice. Mi contentava; cioè contentava me Dante, col sereno aspetto; cioè col chiaro vedere, cioè mentre che io mi contentava, ragguardando lo testo della santa Scrittura chiaramente, nel quale dirittamente risplende la grazia d’Iddio, Vincendomi; cioè Beatrice, vincendo me Dante, col lume; cioè co lo splendore, d’un sorriso; cioè non d’uno aperto ridere; ma sogghignare, come fa lo savio che non apertamente ride: imperò che l’aperto ridere mostra dissoluzione. Ella mi disse: Volgeti; cioè Beatrice disse a me Dante: Volgeti; cioè lo tuo pensieri volge da me ad altra parte: imperò che a la sua poesi s apparteneva di trattare anco dell’altre cose, che non si truovano nella santa Scrittura, et ascolta; cioè quello che udirai. Chè; cioè imperò che, non pur ne’ miei occhi; cioè ne le mie esposizioni, o vero ne le apprensioni de’ Teologi, è Paradiso; cioè sta la beatitudine de’ beati: non pure nelli scentifici e gran maestri di Teologia è la beatitudine di paradiso; ma anco ne le menti semplici et idiote. Et induce l’autore una similitudine, dicendo: Come si vede qui; cioè in questo mondo, alcuna volta L’affetto; cioè de la mente, ne la vista; cioè ne la apparenzia di fuora, s’ello; cioè se l’affetto, è tanto; cioè è sì grande. Che da lui; cioè che da esso affetto, sia tutta [p. 530 modifica]l’anima tolta; cioè tutta la virtù de l’anima presa, Così nel fiammeggiar; cioè così nel risplendere, che gittava fiamme di carità del fulgor santo; cioè di quello beato spirito, del quale è detto di sopra che era come uno splendore: imperò che in sì fatta spezie àe finto l’autore che li siano appariti li spiriti beati, A ch’io; cioè al quale io Dante, mi volse; cioè volse me ammonito da Beatrice, cognobbi la vollia; cioè compresi la voluntà, In lui; cioè nel detto spirito esistente, di ragionarmi; cioè di ragionare a me Dante, ancora; oltra quello, che m’avea ragionato, alquanto; cioè alcuna altra cosa. E questa voluntà fu ne l’autore, benchè per modo poetico abbia detto che fusse nel predetto beato spirito, cioè di volere notificare chi era da essere nominato tra quelli beati spiriti, ch’elli àe finto d’essere nella croce che elli àe finto che sia nella spera di Marte.

C. XVIII — v. 27-51. In questi otto ternari lo nostro autore finge come lo beato spirito; cioè messer Cacciaguida, al quale s’era volto per lo conforto e per l’ammonimento di Beatrice, li parlò e nominolli alquanti di quelli spiriti che erano nella croce di Marte, dicendo così: El; cioè lo detto spirito, cominciò; cioè a parlare in questa forma, cioè: In questa quinta sollia; cioè in questo quinto pianeto, Dell’arbore; cioè nel quale si rappresenta l’arbore de la santa croce, che; cioè lo quale arbore, vive de la cima; cioè vive della sua altezza, cioè quinde trae vita: l’altezza di questo arbore, cioè de la croce, fu et è Cristo: però che lo capo de’ martiri, che anno sostenuto pena e tormento per manifestare la verità de la nostra salute, è stato elli; e tutti li sangui sparti per li santi martiri ànno avuto efficacia per la passione di Cristo, sicchè ben dice che questo arbore vive de la cima, dove li altri viveno delle radici, E frutta sempre, cioè lo detto arbore: imperò che, come elli fu cagione de la salute dei santi Padri che erano nel limbo, che andasseno a vita eterna; così è cagione di quelli, che vi sono iti poi e che v’anderanno infine al di’ ultimo de l’iudicio, e mai non perde follia: imperò che quelle virtù, che furno mostrate da Cristo e che furno mostrate da’ santi martiri e che si mosterranno da quelli che sosterranno martirio et eziandio da tutti fideli cristiani, sono le frondi di questo arbore et ànno essenzia per la virtù di questo arbore de la croce, e permanenzia sempre et aranno in perpetuo; sicchè lo frutto dell’arbore è la beatitudine di vita eterna, e le frondi sono le virtù: e come questa beatitudine continuamente s’acquista di di’ in di’ da’ fideli cristiani, et acquistata durerà in perpetuo; così le virtù che s’aoperano, mentre che si vive, e lo loro merito e la loro memoria in perpetuo durerà in vita eterna; sicchè ben dice l’autore che sempre frutta e mai non perde follia, Spiriti son beati; cioè ine la quinta sollia, della quale è detto, si rappresentano, che: cioè li quali, giù; [p. 531 modifica]cioè nel mondo, prima Che venisser al Ciel; cioè innanzi che morissono, fur; cioè furno, di gran voce; cioè di grande fama, Sì che; cioè per sì fatto modo che, ogni Musa; cioè ogni fizione poetica, che di ciò volesse parlare, ne serebbe opima; cioè ne sarebbe grassa et abbondante. Però mira; cioè tu, Dante, nei corni de la croce; cioè ne le braccia: imperò che quine finge che stiano li beati, che quine si rappresentano; cioè quelli che sono morti per la fede, Quel ch’io nominerò; cioè quello spirito beato, che io nominerò ora a te Dante, lì; cioè in quello luogo del corno, nel quale serà, farà l’atto, Che fa in nube suo foco veloce; cioè come ne la nube li vapori caldi e secchi, che vi sono, s’accendono e discorreno per essa; così faranno li spiriti beati, che sono in quelli corni. Io; cioè Dante, viddi per la croce; che era nel pianeto Marte, un lume tratto; cioè tirato, Dal nomar Iosue; cioè della denominazione, che fece messer Cacciaguida di Iosue, com’ei si feo; cioè altresì tosto come lo nominato si fece, Nè mi fu noto ’l dir prima che l’atto; cioè io viddi altresì tosto lo scorrere del lume, come io uditti lo nominare del nome. Questo Iosue fu quello che succedè a Moise, e fu conducitore del popolo d’Israel in terra di promissione e fece molte battallie quando intrò in quella terra, siccome appare nella Bibbia. E perchè combattette per lo popolo d’Iddio, però finge l’autore che si rappresenti quine. Et al nome dell’alto Maccabeo; questi fu Iuda Maccabeo, che fece molte battallie per lo detto popolo col re Antioco, come appare nella Bibbia nel libro de’ Maccabei, Viddi muoversi; cioè io Dante, un altro; cioè lume di quelli de’ corni de la croce, roteando; cioè partendosi dal luogo suo e fare come uno giro, tornando al luogo suo di prima. E letizia era ferza; cioè movitrice, come la ferza è movitrice del cavallo, del paleo; cioè della circuizione e rotazione, cioè che letizia era cagione, per che si roteavano risplendendo, e questa letizia era in loro del bene ch’aveano fatto, che essendo raccordato, finge l’autore che n’avessono letizia e quella dimostrasseno ne lo scintillare e roteare, perchè li santi ànno allegrezza del bene operare loro e d’altrui. Così per Carlo Magno 4; questi fu re di Francia e poi imperadore dei Romani e combattette per la fede di Cristo, come si legge e cantasi per li cantatori in su le piazze publiche, e per Orlando; chi dice Orlando, e chi Rolando; questi fu uno de’dodici conti [p. 532 modifica]palatini, nipote del detto re Carlo, che anco combattette co l’infideli e morì ne la battallia, e furno nelli anni 775, Dù; cioè lumi, che roteavano, ne seguì lo mio attento sguardo; cioè lo mio attento vedere di me Dante, come io aveva seguitato li altri spiriti che aveano, risplendendo, girato, Com’occhio segue; cioè come l’occhio dell’uccellatore seguita, suo falcon volando: cioè suo falcone, quando vola. Possa; cioè dopo questi detti di sopra, trasse Guiglielmo; questo Guiglielmo fu uno grande principe, che combattette e morì per la fede di Cristo: non òne potuto trovare chi fusse distintamente, e Rinoardo; questo anco fu grande principe, che combattette e morì per la fede di Cristo: anco non òne potuto trovare chi fu E ’l duca Gottifredi; questi fu Gottifredi di Bullione duca del regno, che fu capitano generale del passaggio che si fece nel 1120 anni, e fu coronato re di Ierusalem, et allora si cominciaro le magioni del tempio de lo spidale di Ierusalem, la mia vista; cioè di me Dante trasseno questi sopradetti lo vedere, Per quella croce; che io òne detto che era nel corpo di Marte, nel quale si rappresentavano li beati spiriti che avevano combattuto per la fede di Cristo, e Ruberto Guiscardo; questo discese del duca di Normandia e fu re di Pullia, e fece grandi cose per la fede di Cristo, e morì andando in Ierusalem ad una isula che si chiamava Ierusalem, e fu nelli anni Domini 1085: ancora questo Ruberto Guiscardo trasse la mia vista per la croce, perchè nominato fece giro come li altri. Indi; cioè di poi, tra l’altre luci; che erano ne la detta croce, mota 5; cioè mossa, come si muovono le altre, e mista; cioè e mischiata poi con loro, Mostrommi l’alma; cioè mostrò a me Dante l’anima, che m’ave parlato; cioè tanto, quanto è detto di sopra, Qual era tra i cantor del Cielo artista; cioè chente elli era artista a cantare e lodare Iddio colli altri; et ancora si potrebbe intendere in che ordine era messer Cacciaguida terzo avo di Dante, che fu fatto cavalieri per lo imperadore Currado e morì nella battaglia fatta contra l l l’infideli che erano in Calavria, come è stato detto di sopra.

C. XVIII — v. 52-69. In questi sei ternari lo nostro autore finge come, dopo quel che fu detto di sopra, s’avvidde che era sallito nel sesto pianeto, cioè Iove, dicendo così: Io; cioè Dante, mi rivolsi; cioè rivolsi me Dante, dal mio destro lato; cioè da mano dritta, Per vedere in Beatrice; cioè acciò che io vedessi in Beatrice mia guida, il mio dovere; cioè quello, ch’io doveva fare, segnato; cioè figurato in lei, O per parole; ch’ella mi dicesse, o per atto; cioè o per cenno, che mi facesse. E viddi; cioè io Dante, le suoi luci; cioè li occhi suoi di Beatrice, tanto mere; cioè tanto puri, Tanto ioconde; [p. 533 modifica]cioè tanto allegri, che la sua sembianza; cioè la sua apparenzia e lo suo atto, che allora mi mostrò, Vinceva li altri e l’ultimo solere; cioè vinceva l’altre usanze e l’ultima, che m’avea mostrato di sopra senza mezzo. E come, per sentir più dilettanza; cioè che non à sentito, l’uomo prima, L’omo operando ben di giorno in giorno; cioè quando l’omo opera bene di di’ in di’, sente più diletto ne la mente sua, l’uno di’ che l’altro, S’accorge; cioè s’avvede, che la sua virtù avanza; cioè cresce, Sì; cioè per sì fatto modo; così è adattazione della similitudine, m’accors’io; cioè m’aviddi io Dante, che ’l mio girar intorno Col Cielo insieme; cioè che girandomi io Dante intorno, cioè al perno del primo moto, come si gira lo cielo, secondo lo suo moto ragionevile del primo mobile, avea cresciuto l’arco: imperò che quanto più si va insù, maggior cerchio fa: imperò che maggiore è l’altezza dal perno e dal centro, Veggendo quel miracol sì adorno; cioè vedendo Beatrice tanto adorna, quanto io la viddi; la qual cosa dice miracolo: imperò che miracolo è quel che è oltra natura e sopra natura; e sopra natura era che Beatrice fusse sì fatta splendida, e questo non era altro che lo ingegno di Dante, che quanto più inalzava la sua materia, tanto più s’inalzava lo ’ngegno suo e più comprendeva della santa Teologia, e questo non era per natura, anco era per grazia divina, sicchè bene era miraculo. Et a dimostrare questo subito mutamento, arreca questa similitudine; cioè: Quale il trasmutar in picciol varco Di tempo in bianca donna; cioè come in piccol tempo la donna bianca si trasmuta, quando il volto Suo; cioè de la bianca donna, discarchi; cioè discarichi, di vergogna il carco; cioè lo carico della vergogna, cioè quando ella pone giù la vergogna; cioè come si muta tosto lo volto de la bianca donna, quando vergognatasi pone giù la vergogna: imperò che vergognadosi diventa vermillia e poi diventa tosto bianca, come era prima, Tal fu ne li occhi miei; cioè di me Dante il trasmutare, quale è nella bianca donna, come è detto di sopra: imperò che come io vedeva prima Marte rubicondo; così tosto vidd’io 6 Iove bianco, e spensi; cioè ne lo mio intelletto e nella mia ragione, allegoricamente intendendo, quand’io; cioè quando io Dante, fui volto; cioè rivolto da l’aspetto di Beatrice, Per lo candor; cioè per la bianchezza splendiente, de la temprata stella Sesta; cioè nel pianeto sesto, che è Iove, che è pianeto temperato in colore che non è rubicondo, come è Marte, che; cioè lo quale pianeto, dentro a sè m’avea ricolto; cioè avea ricolto me Dante: imperò che io mi trovava dentro in esso. E perchè qui [p. 534 modifica]l’autore fa menzione del suo montamento al sesto pianeto, che è Iove, sì velocemente dove si mostra che elli intenda del montamento mentale lo quale è subito, anco subitissimo: imperò che nessuna cosa va più tosto che la mente, che vola in un atamo di terra al cielo, debbiamo sapere che l’altezza di Iove maggiore che è più distante da la terra, secondo che dice Alfragano 7, cap.° xxi e xxii et è la inferiore altezza di Saturno, è quaranta sei volte mille volte mille milliaia et ottocento sessanta volte mille milliaia e dugento cinquanta millia; e la più bassa lunghezza di Iove, che è la più alta di Marte, è ventotto volte mille volte mille et ottocento quaranta sette milliaia di millia. Et intendesi per questo quanto è distante la terra, e quanto dista dall’altro pianeto che è di sotto di lui. Et è lo corpo di Iove, cioè lo suo diametro, tanto quanto lo diametro della terra quattro volte e mezzo, e la sesta decima parte d’una volta. E tra 8 l’uno e l’altro pianeto, cioè tra Marte et Iove, nulla è in mezzo: però che lo cerchio dell’uno co l’epiciclo e col corpo del pianeto rasenta l’altro, sicchè non v’è voto nulla. Seguita la seconda lezione del canto xviii.

Io viddi in quella iovial facella cc. Questa è la seconda lezione del canto xviii, nella quale lo nostro autore finge quello che vidde nel pianeto Iove. E dividesi tutta in parti cinque: imperò che prima finge come vidde favillare spiriti in esso pianeto e cantare e formare di sè varie figure; nella seconda parte finge che invocasse Pallade, pregandola che li desse ad intendere quelle figure e quelli canti, et incominciasi quine: O diva Pegasea ec.; nella terza finge come poi vidde ancora un’altra figura e poi anco un’altra, et incominciasi quine: Possa nell’emme ec.; nella quarta finge come vidde un’altra figura sopraposta all’altra che avea veduto prima, e dimostra invocando quello che per quello intendeva, et incominciasi quine: Quel che dipinge ec.; nella quinta parte et ultima finge ch’elli pregasse per quelli del mondo e riprenda li pastori della Chiesa, et incominciasi quine: O milizia del Ciel ec. Divisa la lezione ora è da vedere lo testo co l’esposizione letterale, allegorica e morale.

C. XVIII — v. 70-81. In questi quattro ternari lo nostro autore finge quello che vidde nel corpo di Iove, nel quale s’era trovato, dicendo così: Io; cioè Dante, viddi in quella iovial facella; cioè in quel corpo del pianeto Iove, lo quale risplendeva come una fiaccola accesa; ma dice l’autore facella, diminutivo nome per la rima: [p. 535 modifica]imperò che ’l corpo di Iove è grandissimo, come è stato manifestato di sopra, Lo sfavillar dell’amor; cioè delli spiriti, ohe quine erano pieni d’amore e di carità, che; cioè lo quale amore, lì era; cioè in quello pianeto era rappresentato, Segnar; cioè per segno dimostrare, a li occhi miei; cioè di me Dante, nostra favella; cioè lo parlare di noi litterati: lo parlare dei litterati sono le figure delle lettere, le quali segnate alli occhi fanno quello che fa lo parlare alli orecchi: lo parlare manifesta alli orecchi lo concetto altrui, e così la scrittura manifesta alli occhi lo concetto altrui. E come augelli surti di rivera; ecco che, per dimostrare come questa facella si faceva alli occhi, arreca una similitudine dicendo che, come li uccelli che si levano da qualche ripa di fiume o di mare, siccome fanno le grue quando fanno loro passaggio, Quasi congratulando; cioè faccendo festa, a lor pasture; cioè che siano iunte a le loro pasture, Fanno di sè or tonda, or altra schiera: imperò che rappresentano varie figure di lettere, volando cioè 9 O, o V, e così dell’altre, Sì; cioè così, dentro ai lumi; che io vedea nel pianeto di Iove, sante creature; cioè beati spiriti, Volitando cantavano, e faceansi; cioè quelli beati spiriti, Or D; cioè in figura di questa lettera d, or I; cioè alcuna volta in figura di questa lettera i, or L; cioè alcuna volta in figura di questa lettera l, in sue figure; cioè nelle loro rappresentazioni, che faceano alli occhi miei. Prima cantando a sua rota moveansi; cioè prima si moveano quelli beati spiriti a sua circulazione, e cantavano. Poi, diventando l’un di questi segni; cioè fatto lo moto circulare diventavano l’una delle dette tre lettere cioè D, I et L, Un poco s’arrestavano; cioè si fermavano li beati spiriti, e taceansi; cioè e stavano cheti.

Ecco la fizione dell’autore: fa con grande sottilliezza; cioè come elli vidde nel corpo di Iove spiriti beati, che cantavano: Diligite iustitiam qui iudicatis terram, e moveansi per lo pianeto con moto circulare; e, poi che aveano fatto lo circulare movimento, si fermavano in modo delle lettere che entrano a dire le parole predette, che sono scritte nel principio del libro della Sapienzia di Salomone, a dimostrare che li beati spiriti, ch’elli finge che quine si rappresentino, siano stati nel mondo signori che ànno retto li popoli con ragione et iustizia. E perchè li loro movimenti sono stati da Dio e li loro fini sono stati tutti a Dio, però finge che ’l movimento loro sia circulare; e perchè sempre le loro parole sono state fondate in su la iustizia, però finge che cantino le predette parole che significano in vulgare: Amate la iustizia voi, che iudicate la terra: imperò che sì fatti signori sempre ammonisceno li officiali [p. 536 modifica]loro e li sudditi de l’amore e del culto della iustizia; e perche li atti loro sempre sono stati regolati da iustizia, però finge che quando taceno e fermanosi che dimostrino le figure delle lettere che significano le parole predette. E questo è allegorico intelletto di questa fizione, che lo nostro autore àe posto in questo luogo: adiungerà a questo, come vedremo di sotto, altre belle figurazioni che faranno al suo proposito del quale intende qui, e quando sarò ad esse colla grazia d’Iddio le dimosterrò. Ma ora, acciò che veggiamo in parte lo motivo de l’autore, è da vedere di questo pianeto Iove quello che ne diceno li Astrologi, cioè delle sue significazioni. E secondo che dice Albumasar 10, li.°, nel trattato vii, differenzia ix, lo pianeto Iove è di natura calda, umida, aera 11, temperata, e significa naturale anima e vita e corpi animati, figliuoli e figliuoli dei figliuoli, e bellezza e savi e dottori di legge, et iudici iusti, e fermezza e sapienzia et intelletto, soluzione di sogni, verità e divino culto, dottrina di legge e di fede, religione, venerazione e timore d’Iddio, unità di fede e providenzia di quella, et acconciamento di costumi e d’onestadi, e sarà laudabile, e significa osservazione di pazienzia, e forse anco avviene a lui celerità d’animo, improvidenzia et ardire ne’periculi, di pazienzia et indugio, e significa beatitudine et acquistamento e vittoria incontra a colui che cerca lui, e veneranzia e regno e re, e ricchi, nobili e magnati, speranza et allegrezza, e cupidità in sustanzia, ancora di fortuna, in novità di biade, e ricolte di sustanzie, et arricchimento e sicurtà in ogni cosa, e bontà di costumi d’animo e larghezza, comandamento e bontà, vantamento et animosità d’animo et ardire, vero amore e dilezione di principato sopra li cittadini de la città, e dilezione di potenti e magnati, e declinazione di lui a loro, et aiuto d’uomini sopra le cose, e significa dilezioni d’uomini et abitazioni ottime et abitevili e sustinenzia nelle cose, e fidelità di promessa, e 12 recidimento di fideltà e benivolenzia, e bellezza et ornamento d’abito, et allegrezza e rise 13, e moltitudine di parlamento, et assiduità di lingua, rallegrarsi qualunqua sarà iunto 14 a lui, e significa moltitudine di coito e dilezione di bene, et odio di male et attazione tra li omini, e comandamento del saputo, e vietamento del non saputo. Queste sono le significazioni del pianeto Iove, e sì fatte influenzie àe a dare, e tutte sono buone per rispetto dell’universo; e tutte le più, anco quasi tutte, si dirizzano a virtù. E però finge l’autore che li signori, ai quali s’ [p. 537 modifica]appartegnano sì fatte virtù, si rappresentino in lui, perchè anno seguitato le influenzie buone avute da lui, e quelle che non sono state virtuose ànno cessato: imperò che, come detto òne più volte, Sapiens dominabitur astris: imperò che le costellazioni c’inchinano; ma non ci necessitano. Usa l’autore in questo pianeto maggiore sottilliezza di poesi: imperò che quanto più va in su, più inalza lo modo del dire come s’inalza la materia.

C. XVIII — v. 82-93. In questi quattro ternari lo nostro autore finge che, avendo udito 15 di quelli beati spiriti nel pianeto Iove cantare e fare varie figure di sè, come à detto di sopra, elli invocasse Pallade la dia della sapienzia che lo illuminasse, sicchè elli intendesse quelle figure ch’elli aveva veduto, dicendo cosi: O diva Pegasea; cioè o iddia, fatta iddia di mortale: imperò che divo e diva è l’uomo fatto di mortale iddio; cioè perpetuo: per la sapienzia li omini diventano di mortali perpetui: imperò che viveno nel mondo in sempiterno per fama, et in vita eterna in perpetuo per gloria; e questa diva è la sapienzia, la quale li Poeti chiamano Minerva, Pallade e Tritonia; et appresso i Greci si chiama Atene, e diceno che fu la grandissima figliuola di Iove, e diceno lei essere iddia di battallie, iddia di sapienzia et iddia dell’arti: Pallade si dice dal dibattimento 16 dell’asta che si fa nelle battallie, ovvero perchè uccise Pallante gigante 17 a Tritone palude, ovvero perchè s’interpreta nuova: imperò che la sapienzia non sente vecchiezza e per questo si chiama Minerva; cioè non mortale, e quel medesimo significa Atene; e Tritonia si dice quasi Triconia, perchè li Filosofi s’affaticano in cognoscere tre cose; lo Creatore e la creatura e l’anima, la quale diceno essere mezzo. Questa iddia invoca ora l’autore, cioè la iddia della sapienzia, e chiamala Pegasea da Pegaso, che fu cavallo alato nato del sangue di Medusa et interpretasi fama: imperò che, quando lo virtuoso co l’aiuto de la sapienzia vince la paura, ne nasce la fama: e questo Pegaseo, percotendo co l’unghia la terra, fece la fonte delle Muse in Elicone: imperò che la fama de li signori è materia a li Poeti di scrivere, e però l’autore la chiama diva Pegasea; cioè diva che dà fama a li omini, che questa iddia seguitano, cioè la sapienzia e l’arti e le scenzie, et è figliuola d’Iddio: imperò che Omnis sapientia a Domino Deo est. Et ego sapientia ex ore altissimi prodii, Sapienza viii, e però si dice nata del cerebro di Iove che; cioè la quale sapienzia, l’ingegni; cioè umani. Fai gloriosi: imperò che la sapienzia infusa nell’ingegni umani da Dio, o acquistata per [p. 538 modifica]dottrina, fa acquistare gloria a li omini, e renditi longevi; cioè 18 e falli vivere lungo tempo, Et essi; cioè et essi ingengni umani, teco; cioè insieme con te sapienzia rendeno longevi, le cittadi e i regni; cioè tu rendi longevi l’ingengni umani, e l’ingengni umani fanno insieme teco longeve le citadi e li rengni: la sapienzia acquista fama a l’ingengni umani, per la quale vivono nel mondo, siccome Virgilio Lucano e li altri famosi Poeti; et essi insieme co la sapienzia acquistano fama a le citadi et ai regni, come Virgilio ’ae acquistato fama a Troia et ai regni e citadi, de le quali fa menzione nel suo libro. Illustrami; cioè illumina me Dante, di te; cioè di te sapienzia, sì; cioè per sì fatto modo, che; cioè che io Dante, rilevi Le lor figure; cioè intenda e dia ad intendere quello che significano le figure di quelli spiriti, che io viddi, com’io; cioè siccome io Dante, l’ò concette; cioè l’ò prese nel mio concetto: cosa àe l’omo alcuna volta appresa col concetto, che non la può esprimere colle parole, com’elli l’àe ne la mente, sicchè bene era da chiamare l’aiuto della sapienzia, secondo che dice Orazio: Nec deus intersit, nisi dignus vindice nodus Inciderti — . Paia tua possa; cioè appaia la tua potenzia, in questi versi brievi; cioè in questi miei ternari, che sono brevi versetti. Mostrarsi dunque in cinque volte sette Vocali e consonanti; cioè in 35 lettere tra vocali e consonanti: cinque va 19 sette fa 35, e chi innomera 20 le lettere, che sono in questa autorità del libro della Sapienzia di Salomone, cioè Diligite iustitiam qui iudicatis terram, troverà che tra consonanti e vocali sono 35: e queste lettere; cioè in figure di queste lettere, si mostrorno li beati spiriti quando s’arrestavano, sì veramente che li primi segni di mostrorno Diligite iustitiam, e li altri, cioè li ultimi segni dimostrorno Qui iudicatis terram; e però dice l’autore: et io; cioè Dante, notai Le parti; cioè dell’orazione in quelle lettere, sì come mi parver dette; cioè ne le figure, i primai; cioè li primi segni, che io viddi rappresentare quelle lettere che dette sono, Fuor verbo e nome; cioè una parte d’orazione che si chiama nome, et un’altra che si chiama verbo; cioè Diligite iustitiam; diligite è lo verbo, iustitiam è lo nome, di tutto ’l dipinto; cioè di tutta quella figurazione, che si monstrava come dipintura in quelle lettere rappresentate per la figurazione, sezzai; cioè li ultimi segni, fuor; cioè furno figure di questo cioè: Qui judicatis terram. Questa fizione àe usato qui lo nostro autore, per mostrare quello ch’elli intese, secondo l’allegorico intelletto 21; e per vedere questo debbiamo considerare che l’autore finge che li [p. 539 modifica]apparissono nel pianeto di Iove, che àe influenzia nel mondo di iustizia. Quelli beati spiriti ne la loro vita furno osservatori di iustizia, essendo signori e rettori dei popoli; e che si girasseno secondo moto circulare cantando, e finito lo canto si mostrorono la prima volta in segno et in figura d’uno D; et, in tale figura formati, si arrestavano e tacevano, e poi facevano l’altra circulazione; e, quando si riposavano e tacevano, si formavano in figura d’uno I, e poi d’uno L, e così poi di tutte quelle 35 lettere. E per questo dà ad intendere che quelli signori e rettori dei popoli, che ànno osservato nel mondo ragione et iustizia, siano in vita eterna per tale merito; e come ànno avuto sempre respetto a Dio, venendo la grazia di tale ispirazione da Dio, e per rispetto di lui operando, però finge che dimostrino moto circulare cantando sempre la loda di Dio, e riposandosi quella iustizia figurando: però che quella insegnavano, facendo leggi et ordini e statuti a quella appartenenti. E perchè questo feceno per l’amore d’Iddio, e per piacere a lui, ànno quello operato che s’apparteneva ad iustizia, però finge che si rappresentasseno in moto circulare e cantassono laude a Dio ringraziandolo de la loro salute, e perchè li beati sempre si specchiano in Dio, e da lui ritornano a lui: imperò che quella è la loro beatitudine; cioè vedere Iddio. E finge l’autore che riposandosi figurino quelle lettere: imperò che girando non sarebbe verisimile che le potessono figurare; e perchè il merito loro è stato l’amore de la iustizia, però finge che dimostrino tali figure; e perchè tale influenzia àe Iddio posto in tale pianeto, cioè Iove, però àe fìnto l’autore che tale rappresentazione facessono li beati spiriti in questo sesto pianeto, et adiunge poi anco altre bellissime fizioni, come apparrà di sotto.

C. XVIII — v. 94-108. In questi cinque ternari lo nostro autore adiunge a la predetta un’altra bella fizione, dicendo che poi li pareva vedere quelli santi beati spiriti, che diceano co le loro figure: Diligite iustitiam, qui iudicatis terram, si rimanevano nell’ultima figura ordinati, cioè nella lettera M; et altri beati spiriti descendevano sopra l’emme al colmo suo, come volesseno fare una corona al colmo dell’emme a modo di gilli; e poi quinde rilevarsi in su alquanti e sallire quale molto e quale poco; e, fermatosi ciascuno nel suo luogo, vidde formata la testa e ’l collo d’una aquila; e li altri che erano rimasi in su l’emme a modo di gilli di corone, che in sì fatte figure s’erano posati, vedea seguitare la figura dell’aquila incominciata dalli altri. E per questa fizione allegoricamente dà ad intendere che questo emme del vocabulo quinto significa lo mondo, e però lo figura per la lettera M, perchè è la prima lettera che abbia questo nome mondo, e però lo pillia dal quinto vocabulo; cioè terram, e non dal secondo, cioè iustitiam, [p. 540 modifica]che anco v’è l’emme, perchè la terra è lo mondo del quale elll intende. E per questo, che finge che rimaseno in questa figura de l’emme, dà ad intendere che questi beati spiriti da lui veduti, e rappresentati quine infine a qui, erano li minori officiali e le persone singulari e private che erano valute nel mondo nelli atti e nell’amore della iustizia. E per quelli altri beati spiriti, che finge che vedesse scendere poi sopra lo colmo dell’emme e fare gilli a modo d’una corona, intese li regi e l’imperadori nel mondo, che sono stati nel mondo sopra li altri e governatoli co la iustizia; e questo dà ad intendere lo stare in sul colmo dell’emme a modo di gilli di corona. E per quello, che finge che alquanti di loro si levasseno e figurasseno lo collo e la testa d’un’aquila, intese che si rappresentasseno come in maggiore grado a la fantasia sua l’imperadori, che sono stati nel mondo e quelli che sono stati di maggiore perfezione di iustizia, siccome l’aquila è segno d’imperio e vola più alto che altro uccello. E come dirà di sotto, li altri beati spiriti, che erano in su l’emme rimasi, anco seguitorno la figurazione dell’aquila; e questo dà ad intendere che li regi e li signori grandi del mondo debbono tutti essere uniti a l’osservanzia de le leggi iuste imperiali; e però figura che quine si rappresentasseno in tale forma quelli che erano stati nel mondo osservatori de le iuste leggi imperiali; e però dice lo testo: Possa; cioè poi che li detti beati spiriti feceno le dette circulazioni 35 e le figurazioni predette, quando si riposavano, nell’emme; cioè nell’ultima lettera che era una M, del vocabol quinto; cioè di quel vocabulo che dice terram, nel quale l’M è ultima lettera, e quello vocabulo è lo quinto e l’ultimo di tutta questa autorità; cioè: Diligite iustitiam, qui iudicatis terram, — Rimaser ordinati; cioè li detti beati spiriti rimaseno tutti in figura d’uno M, fatto al modo di sopra, sì; cioè per sì fatto modo, che Iove; cioè che lo pianeto Iove, Parea d’argento lì; cioè in quello luogo, dove era l’emme, d’oro: imperò che li spiriti, che facevano l’emme, erano tutti ardenti in colore d’oro, distinto; cioè dal colore dell’ariento, del quale colore era per tutto. E per questo dà ad intendere che lo pianeto Iove è tutto di colore chiaro che pare ariento, salvo che quine dove era l’em, che parea quine d’oro E viddi; cioè io Dante, scender; cioè da alto, dal paradiso e dal cielo empireo, per rappresentarsi quine 22; e questo era quanto a la fantasia de l’autore, che col suo pensieri li astraeva dal ciclo empireo e faceali rappresentare quine, dove; cioè in quel luogo, nel quale, Era ’l colmo dell’emme; cioè in su la parte di sopra, e lì; cioè quine, quetarsi; cioè si riposorno, Cantando, credo, il Ben; cioè [p. 541 modifica]Iddio, che è sommo bene, ch’a sè; cioè lo quale a se, li move; cioè move quelli beati spiriti: Iddio è quel bene che muove l’appetito umano, et a lui inclina ogni voluntà umana bene ordinata. Poi come nel percuoter dei ceppi arsi; ecco che arreca una similitudine, cioè che come, quando si perquotono li ceppi arsi, sfavillano le faville del fuoco; così si levorno di quelle, che erano su l’emme, molte beate anime e volorno insù; e però dice: Surgono innumerabili faville; cioè si levano faville senza numero, Onde; cioè dal quale favillare, li stolti; cioè li uomini stolti, solliono augurarsi; cioè si solliano indivinare: Questo significa che io arò denari, et altre cose che che diceno li omini poco savi, Risurger parver quinde; cioè parvono rilevarsi dal colmo dell’emme, più di mille Luci; e pone lo numero infinito per infinito, e salir; cioè in su andare, qual’assai e qual poco; cioè di quelli beati spiriti, Siccome ’l Sol che l’accende; cioè Iddio, che è lo loro sole; o volliamo dire: Siccome l’amore de lo Spirito Santo, che è lo loro fuoco e sole, sortille; cioè l’allogò e diede loro parte a quale alta, et a quale più alta, secondo che era stato lo grado de l’amore de la iustizia ne la vita mondana, così quine si rappresentava. E quietata; cioè e riposata, ciascuna ’n suo loco; cioè ciascuna di quelle beate anime nel luogo, che l’amore l’avea tirata per sua sorte e per suo merito, la testa e ’l collo d’un’aquila vidi. Rappresentar; cioè io Dante viddi rappresentare in figura la testa e’l collo d’una aquila, a quel distinto foco; cioè a quello amore ardente, distinto e diviso in quelle beate menti. E così finge che formasseno la testa e ’l collo d’una aquila, siccome aveano costituito nel mondo uno reggimento sotto iustizia e ragione, che si chiamava romano imperio, tutto iusto e ragionevile.

C. XVIII — v. 109-123. In questi cinque ternari lo nostro autore finge com’elli facesse, vedendo queste figurazioni, prego a Dio che rimovesse quello che impaccia la influenzia di tale costellazione giù nel mondo, adiungendo altre cose che sono adornamento de la sua poesi, dicendo: Quel che dipinge lì; cioè colui, che fa sì fatte imagini in quello luogo, si è Iddio; e però dice: non à chi ’l guidi; cioè non à persona che guidi lui: imperò che Iddio non à maggiore di sè, Ma esso; cioè elli, guida; cioè conduce e governa ogni cosa nel fine suo, e da lui; cioè da Dio, si rammenta 23; cioè si tiene ferma, Quella virtù 24; cioè naturale, che forma per li nidi; cioè dà forma a tutti li uccelli et a tutti li animali bruti; per la rima disse per li nidi, ristringendosi a li uccelli che nasceno nei nidi. [p. 542 modifica]L’altra beatitudo; cioè l’altre anime beate, che contenta Parea in prima d’ingilliarsi all’emme; cioè che prima stare 25 contenti d’essere corona, formata a modo di gilli in su l’emme, che, come detto è significano li regi che furno iusti nel mondo e resseno con iustizia li popoli, Con poco moto; cioè con poco movimento, seguitò la imprenta; cioè la formazione dell’aquila incominciata dalli altri beati spiriti. E per questo 26 sì da ad intendere l’autore che, quando a Dio piacque di muovere li regi del mondo a fare una monarchia et uno reggimento di iustizia, ch’elli seguitorno lo movimento; o volliamo dire che l’autore finge questo, perchè quello pianeto per virtù datagli da Dio è disposto a dare tale influenzia, se li omini la volessono ricevere. E però l’autore finge che, mosso da questo che vidde, facesse prego a Dio che acconciasse li cuori delli omini a ricevere tale impressione; unde dice: O dolce stella; questo finge che dicesse, parlando al pianeto Iove, che è stella di dolcezza, di pace, di iustizia e di bene, quali; cioè come fatte, e quante gemme; cioè e come grandi spiriti beati, che erano lucenti come gemme, Mi dimostroro; cioè dimostrorno a me Dante, che nostra iustizia; cioè di noi omini del mondo, Effetto sia del Ciel; cioè sia cagionata dal cielo tuo; e però dice, che; cioè lo quale cielo, tu; cioè pianeto Iove, ingemme; cioè adorni, come gemma adorna cintola o corona! E qui dimostra, perchè abbia fatto questa fizione, cioè per mostrare che tale influenzia di iustizia viene dal sesto cielo; e, fatto questa congratulazione, adiunge lo suo prego, dicendo: Per ch’io; cioè per la qual cosa io Dante, prego la Mente; cioè divina, in che; cioè nella quale mente divina, s’inizia; cioè s’incomincia, Tuo moto; cioè tuo movimento: imperò che Iddio è prima cagione di tutti li movimenti, come dice Boezio nel terzo preallegato li.°: Stabilisque manens das cuncta moveri— , e tua virtute: imperò che la virtù dei pianeti àe principio da Dio, che rimiri; cioè che un’altra volta miri; e per questo mostra che altra volta lo ragguardasse, poi che prega che da capo miri, Ond’esce ’l fumo; cioè da qual parte esce l’oscurità e la nebbia, che; cioè la quale, tuo raggio vizia; cioè impaccia lo tuo raggio, che non può mandare la sua influenzia. E qui tocca l’autore, secondo la lettera, la ragione de li Astrologi che diceno che l’aspetto dei corpi celesti, che è la direzione dei loro raggi, manda per li raggi la loro virtù e la loro influenzia; e, secondo l’allegoria, tocca la cagione che ci priva de la influenzia dei beni, che è disposto lo cielo a darci, che è lo peccato e la colpa nostra, che come nebbia non lascia la virtù celeste descendere sopra di noi. Sì ch’un’altra fiata; cioè per sì fatto modo, che un’altra volta, come fece la prima, omai; [p. 543 modifica]cioè ingiummai, s’adiri; cioè si corucci, Del comperare e vender dentro al tempio; cioè come si corucciò Cristo, quando cacciò, co la scoriada in mano, del tempio coloro che comperavano e vendevano e gittò a terra li banchi de banchieri, dicendo, come si contiene ne l’Evangelio di santo Mateo, cap. xxi: Domus mea domus orationis vocabitur: vos autem fecistis illam speluncam latronum. — Che; cioè lo qual tempio, si murò di sangue e di martiri. In queste parole dimostra l’autore ch’elli non intende del tempio corporale e materiale; ma del tempio spirituale, come de la santa Chiesa, che è fondata nel suo corpo e murata col suo sangue e dei santi martiri, et edificato e fatto grande. E per questo dà ad intendere che lo fummo, che impaccia li raggi di Iove, esce dai prelati della Chiesa; e questo fummo è l’avarizia loro la quale oscura et impaccia ogni iustizia, principalmente in loro, et appresso nei laici che pilliano esempio da loro di fare ogni cosa per danari, e non guardare più a ragione nè ad iustizia. E però prega che, come cacciò l’avarizia del tempio materiale de’ Iudei, che per avarizia lassavano li sommi pontifici fare lo vendere e lo comprare nel tempio, perchè non guadagnavano; così la cacci de la mente dei prelati de la santa Chiesa, che per simonia fanno al tempo d’oggi ogni cosa et abbandonano la ragione e la iustizia, e danno a li altri esemplo di fare lo simile, sicchè lo mondo è corrotto e non c’è più iustizia, nè ragione.

C. XVIII— v. 124-136. In questi quattro ternari et uno versetto lo nostro autore finge com’elli pregò li santi di vita eterna che pregasseno per quelli, che sono in terra sviati da la iustizia per lo malo esemplo dei prelati, dicendo così: O milizia del Ciel; cioè o santi di vita eterna, li quali siete cavalieri d’Iddio et abitatori del cielo, cui io; cioè lo quale cielo io Dante, contemplo; cioè veggo co la mente, Adora per color che sono in terra; cioè giù nel mondo, Tutti sviati dietro al mal esemplo; cioè dei prelati de la Chiesa, che co la loro avarizia ogni cosa fanno per danari, e li altri pilliano esemplo da loro di fare altresì, cioè il simigliante. Già si solea; cioè nel tempo passato, far guerra co le spade; cioè de la Chiesa di Roma, Ma or; cioè al tempo d’oggi, si fa; cioè la guerra, tolliendo or qui, or quivi; cioè ora ad uno et ad un altro, Lo pan 27; cioè li sacramenti de la Chiesa, che sono pane spirituale de’ catolici, che; cioè lo qual pane, lo pio Padre; cioè Iddio, a nessun serra: imperò che Iddio ad ogni uno, ch’elli vuole, concede li suoi sacramenti che sono lo pane spirituale de’ fideli cristiani. Ma tu; cioè papa e prelato de la Chiesa, che; cioè lo quale, sol; cioè solamente, scrivi per cancellare; cioè per accecare et annullare, quando arai avuto li denari [p. 544 modifica]che tu scrivi, le scomuniche, che, perchè vengna a ricomunicarsi e paghi le bolle e le scritture, Pensa che Piero e Paulo; cioè li due apostoli san Piero e san Paolo, che moriro; cioè amenduni sostenneno martirio, Per la vigna; cioè per la santa Chiesa che è assimilliata a la vigna, perchè tanto à chi viene poi, quanto chi è venuto prima, secondo che dice l’Evangelio, che; cioè la qual vigna tu, guasti; cioè tu prelato della Chiesa, ancor son vivi; cioè in vita eterna, sicchè te ne potranno pagare. Ben puoi tu dir; ecco che l’autore per derisione adiunge elli stesso la risposta, dicendo: Ben puoi tu dir; cioè prelato dire questo. Io; cioè prelato, ò fermo ’l disiro; cioè lo mio desiderio io l’òne fermato, Sì; cioè per sì fatto modo, a colui, che volle viver solo; cioè a san Ioanni Battista che visse solo nel diserto tanti anni, andatovi fanciullo, E che; cioè e lo quale, per salti fu tratto al martiro: imperò che la figliuola d’Erode, avendo saltato nel convito, dimandò al padre per conforto della madre lo capo di san Ioanni Battista, lo quale li fu dato per lo iuramento che aveva fatto lo re Erode. E questo pone l’autore per lo fiorino dell’oro: imperò che in esso si fa l’imagine di san Ioanni Battista; et è qui significazione per ambiguum; imperò che le parole si potrebbono intendere in due modi dirittamente; ma così non parla l’autore, et al modo che è sposto, e così intese l’autore, cioè: Io ò sì fermo lo mio desiderio al fiorino dell’oro, Che; cioè che io prelato, non cognosco ’l Pescator, nè Polo; cioè non cognosco san Piero che fu pescatore, e san Paulo, che sono li due campioni de la santa Chiesa: imperò che io non ò l’animo a loro; ma pure al fiorino. E qui finisce il canto xviii, et incominciasi lo canto xix.

Note

  1. Verbo; parola, sermone, secondo il verbum latino. E.
  2. C. M. abbiamo a vedere se non Iove e Saturno e l’ottava spera e ’l primo mobile,
  3. C. M. conforto; in ogni mia tribolazione.
  4. C. M. Magno e per Rolando; Carlo Magno fu re di Francia e poi imperadore de’ Romani e combattette per la fede di Cristo, come si legge di lui ne’ Romanzi de’ Paladini. Rolando; questi fu uno de’ dodici conti di palazzo, però si chiamano per li vulgari Palladini, cioè Pallatini, come dice la Grammatica: chi dice Rolando e chi Orlando; questi fu nipote del detto re Carlo e combattette coll’infedeli della Spagna e morì nella battaglia: e furno li Paladini nelli anni Domini dcclxxv, Du’;
  5. Mota; secondo il motus latino. E.
  6. C. M. viddi io dove è bianco Iove, nel quale io era salito. Et allegoricamente si dè intendere che questo trasmutamento fu nell’intelletto suo, quand’io;
  7. Alfragano; Ahmed ben Kesir al-Fergani, detto Alfergano, Alfragano ed Alfagrano, perchè nato a Ferganati città della Sogdiana: famoso astronomo che fiorì sotto sal-Mamun nel secolo ix dell’era volgare. E.
  8. C. M. tra l’uno pianeto e l’altro nulla è in mezzo: imperò che lo cerchio differente dell’uno tocca l’altro, sicchè non est dare vacuum in natura. Seguita
  9. C. M. cioè o 0, o I, e
  10. Albumasar; Giàfar ben Mohammad ben Omar Abu Màsciar, astronomo ed astrologo arabo, meglio conosciuto col nome di Albomasar o Albumasar, nacque a Balk nel Corassan nell’805 di G. C., e morì nell’883. E.
  11. C. M. aerea, temperata,
  12. C. M. e rendimento
  13. Rise; dal singolare risa. E.
  14. C. M. vinto
  15. C. M. udito quelli
  16. Pallade, da πάλλω; brandire, vibrare. E.
  17. C. M. gigante alla palude Tritone si chiamò Tritonia che era grande artista, sicchè vintolo fu chiamata dia dell’arti Tritonia, e perchè s’interpetra
  18. C. M. e faili vivere
  19. C. M. cinque volte sette
  20. Innomerare; numerare, usavasi per gli antichi, siccome innarare per narrare e cotali. E.
  21. C. M. intelletto, come è stato dichiarato di sopra. Seguita l’altra parte.
  22. C. M. per rappresentarsi quine, dove;
  23. Si rammenta; s’informa di mente, si fornisce quasi di mente duplicata la virtù ec. Accenna a una mentalità doppia; l’una di Dio, l’altra dell’istinto. E.
  24. Secondo il Gioberti, la virtù istintiva, che è nel suo principio la ragione di Dio. E.
  25. C. M. prima parevano stare
  26. C. M. per questo dà ad intendere
  27. C. M. Lo pan; cioè li beni mondani necessari a la vita umana, che
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