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[v. 10-15] | c o m m e n t o | 351 |
che le fiere salvatiche stanno volentieri nelle macchie, e però dice: che; cioè le quali, in odio ànno Tra Cecina; questo è un fiume ove comincia la maremma di Pisa, di là da una terra che si chiama Vada, e Corneto; questo è uno castello del patrimonio di Roma, i luoghi colti; cioè lavorati, perchè le fiere salvatiche desiderano li boschi e le macchie fondate, ove non possano essere vedute e cacciate; e non li luoghi colti e lavorati, ove sarebbono tosto prese. Questa parte è quanto alla lettera, ora vedere doviamo l’allegorico intelletto; e doviamo sapere che l’autore sempre fa la lettera verisimile quanto può, e però finge che quel bosco fosse sanza via; questo è verisimile: imperò che i boschi folti sono sanza via; ma per questo vuol dimostrare quanto è pericoloso il peccato della desperazione: imperò che ad esso non ci mena alcuna via; ma furore: alli altri peccati ci mena qualche via, e di carne e di disordinato amore; ancora chi vi cade non à via, nè modo di ritornare. E ben finge l’autore che sia bosco: però che tali peccatori sono simili alle fiere salvatiche, e peggio: chè almeno le fiere perdonano a sè medesimo e costoro no. E come le fiere stanno ne’ boschi; così costoro, per feritade e crudeltà d’animo; e questo si vede manifestamente di quelli del mondo, e convenientemente si può attribuire questa abitazione alli dannati e morti in sì fatto peccato, e massimamente, fingendo che sia contrario quel bosco a quelli del mondo: imperò che quelli del mondo ànno arbori stesi e delicati e grandi, e fronde verdi e qualche frutto; e questo è descritto contrario, com’appare nel testo. E notantemente finge l’autore che il frutto sia sangue nero, come tosco: imperò che di tal peccato lo fine è spargimento di sangue, come si dimostrerà di sotto chiaramente.
C. XIII — v. 10-15. In questi due ternari l’autor nostro finge che in questo bosco, ove finge essere li violenti contra sè medesimi sieno l’Arpie, sì come à finto in ogni luogo essere qualche mostro conveniente al luogo, e che faccian lamento abitando in su quelli arbori, così dicendo: Quivi; cioè in questo bosco, che è lo secondo girone del vii cerchio; cioè in su quelli pruni, le brutte Arpie; questi sono uccelli finti da’ poeti ch’ ànno il volto e il collo a modo d’uomo, l’ale grande e il ventre pennuto et i piedi unghiati, e gittano gran puzza intollerabile, e bruttano ogni cosa e con la bocca, e con lo sterco che è di puzza intollerabile; e fingono li poeti che li dii crucciati mandassono al re Fineo, re di Creta, lo quale accecò li figliuoli perchè accusarono la matrigna d’adulterio, onde li dii indegnati accecarono lui e cavarono l’Arpie della palude Stige e mandaronle a lui, perchè lo tormentassono con la loro rapacità e puzza; ma poi venne Ercole e con le sue saette e’ le cacciò. E chi pone che fosse Zete e Calai figliuoli di