127In quel, che s’appiattò, miser li denti,
128 E quel dilaceraro a brano a brano,1
129 Poi sen portar quelle membra dolenti.
130Presemi allor la mia scorta per mano,
131 E menommi al cespuglio, che piangea,
132 Per le rotture sanguinenti, invano.
133O Giacomo, dicea, da Sant’Andrea,2
134 Che t’è giovato di me fare schermo?
135 Che colpa ò io della tua vita rea?
136Quando il Maestro fu sovr’esso fermo,
137 Disse: Chi fosti, che per tante punte3
138 Soffi con sangue doloroso sermo?
139E quelli a noi: O anime, che giunte
140 Siete a veder lo strazio disonesto,
141 Che à le mie fronde sì da me disgiunte,
142Raccoglietele a piè del tristo cesto:
143 Io fui della città, che nel Battista
144 Mutò il primo padrone; ond’ei per questo
145Sempre con l’arte sua la farà trista:
146 E se non fosse, che in sul passo d’Arno
147 Rimane ancor di lui alcuna vista,
148Quei cittadin, che poi la rifondarno
149 Sopra il cener, che d’Attila rimase,
150 Avrebber fatto lavorare indarno.
151Io fe’ giubetto a me delle mie case.4
- ↑ v. 128. C. M. dilacerato
- ↑ v. 133. C. M. O Iacopo,
- ↑ v. 137. C. M. Chi fusti,
- ↑ v. 151. giubbetto