Chi l'ha detto?/Parte prima/55
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§ 55.
Personaggi storici e letterari
Come già ho fatto per i paesi, riunisco qui molte frasi che si ripetono piuttosto per indicare certe designate persone che con significato indeterminato, come è per il maggior numero delle altre sentenze.
E poichè procedo per ordine cronologico, ecco Omero,
1222. ...Quel sommo
D’occhi cieco, e divin raggio di mente,
Che per la Grecia mendicò cantando.
e che ci ha lasciato quelle due preziose gemme dell’antica epica, così ammirate, anzi venerate dagli antichi e dai moderni: benchè Properzio dicesse:
1223. Cedite Romani scriptores, cedite Graii,
Nescio quid majus nascitur Iliade.1
alludendo all’Eneide del suo amico Virgilio.
Altro illustre figlio della Grecia, è quello di cui Dante disse:
1224. Vidi il maestro di color che sanno.
alludendo, come ognun capisce, ad Aristotile con parole che il Parini con pungente ironia travolse applicandole a Voltaire, che chiamò:
....maestro
Di coloro che mostran di sapere.
(Il Mattino, v. 602-603).
Di minor fama era invece
1225. Carneade! chi era costui?
Questa classica domanda «ruminava tra sè don Abbondio, seduto sul suo seggiolone»; e forse se la saranno rivolta con lui pure molti dei lettori dei Promessi Sposi. Quindi il nome di Carneade è rimasto nell’uso a significare un ignoto qualunque. Tuttavia Carneade non era affatto.... un Carneade: egli era un filosofo, prima della scuola stoica, poi della platonica, e fondatore della terza Accademia, nato a Cirene e vissuto dal 213 al 129 av. Cr.
«Chiedere perchè il Manzoni tirò fuori il nome di quel letteratone del tempo antico, sembrerebbe forse una stranezza bell’e buona: eppure non è così. Accostiamo alle parole messe in bocca di don Abbondio, queste altre di un dialogo di Agostino (Contra Academicos, c. III, n. 7; : «Tum Licentius: Carneades, inquit, tibi sapiens non videtur? Ego. sit, Græcus non sum, nescio Carneades iste qui fuerit.» Non coincide la domanda di don Abbondio: «Carneade! chi era costui?» con la frase di Agostino: «Nescio Carneades iste qui fuerit?» — Il Manzoni aveva studiato il gran dottore africano, e ne fa fede la lettera sua al Poujoulat nella quale da par suo cerca di determinare dove precisamente sorgesse il celebre Cassiacum, ove Agostino si era ritirato con la madre, il figlio e gli altri amici, per prepararsi al battesimo. E notisi che il dialogo contra Academicos è opera nata dalla conversazione di Agostino e de’ suoi compagni durante il tranquillo soggiorno di Cassiaco. Non parrà dunque più strana, dopo queste considerazioni, l’ipotesi che il Manzoni, scrivendo i Promessi Sposi, ricordasse il nescio Carneades iste qui fuerit; e lo facesse dire al povero don Abbondio, come saggio della non troppo ampia cultura del clero d’allora» (Nino Tamassia, nel Giorn. stor. della lett. ital., volume XXI, pag. 182).
Nerone, il bieco e crudele tiranno, che vive ancora travestito sotto strane leggende nella fantasia del popolo, ha il suo posto nel Chi l’ha detto? per le sue ultime parole:
1226. Qualis artifex pereo!2
dette da lui morente.
Papa Celestino V, ossia Pietro Angeleri, che fu eletto pontefice il 5 luglio 1294 e dopo soli sei mesi di pontificato, depose la tiara e si ritirò in un convento, fu santificato dalla Chiesa ma bollato dall’Alighieri con le parole:
1227. ...Colui
Che fece per viltà lo gran rifiuto.
Ma Dante è anche più severo verso il successore di lui, quello che lo indusse con le sue male arti al gran rifiuto, Bonifacio VIII, della famiglia Caetani, di Anagni, di cui si diceva
1228. Intrasti ut vulpis, regnabis ut leo, morieris ut canis.3
Gli antichi storici narrarono che questa fu una profezia di papa Celestino, pienamente adempiuta per la triste fine, che secondo una tradizione raccolta da Ferreto de’ Ferreti da Vicenza e da altri cronisti sincroni avrebbe fatto Bonifacio VIII, morto presso che di rabbia dopo l’affronto di Anagni mordendosi le mani e picchiando la testa nel muro, tradizione che il Tosti nella Storia di Bonifazio VIII e de’ suoi tempi (vol. II, pag. 196, 200, 202) dimostra inconsistente. Fra codesti cronisti è forse il più antico frate Francesco Pipino, bolognese, dei Pp. Predicatori, il quale nel cap. XLI, in fine, della sua Cronaca dall’anno 1176 al 1314 (Muratori, Rer. Italic. Scriptores, to. IX, pag. 741) così narra: «Morte sua verificatum patuit quod praedixisse fertur Cœlestinus de eo, quum ad ipsum videndum in carcere accessisset; inquit enim: in Papatum ut vulpes subiisti, regnabis ut leo, morieris ut canis. Fertur enim, quod prae indignatione animi vehementi in ipsis mortis angustiis brachia corrodebat ut canis».
Quasi le stesse parole: Intrasti ut vulpis, vixisti ut leo, obiisti ut canis, si dissero di Leone X, secondo afferma Marin Sanuto (Diari, vol. XXXII, col. 289) e furono dette anche di altri papi, nonché di Federico I Barbarossa, come si legge nelle Gesta abbatum Trudonensium, Continuatio III (Monum. Germ. histor., Script., vol. X, p. 390).
Anche la eroina di una pietosa storia che commuove il popolo italiano da più di sei secoli, Pia de’ Tolomei, senese, moglie infelicissima di Nello de’ Pannocchieschi, signore del castello della Pietra presso Massa Marittima, nella Maremma senese, uccisa dal marito prima del 1300, si raccomanda alla memoria del Grande fiorentino con le parole:
1229. Ricorditi di me, che son la Pia!
Siena mi fe’; disfecemi Maremma:
Sàlsi colui che innanellata, pria
Disposando, m’avea con la sua gemma.
1230. Onorate l’altissimo poeta.
aveva egli detto alludendo a Virgilio: ma i posteri ritorsero la lode su Dante medesimo, e gliela scrissero sul monumento. Altri a lui si rivolge invocandolo:
1231. O gran padre Alighier....
come è scritto in principio del sonetto A Dante di Vittorio Alfieri, composto nel 1783. L’Alfieri fu il primo poeta, degno del nome, che chiamasse Dante con l’appellativo di padre. Anche il Leopardi chiama padre Dante nella Canzone sopra il monumento di Dante che si preparava in Firenze. Invece Ugo Foscolo nell’ode A Dante lo chiama l’
1232. ....Altissimo
Signor del sommo canto.
imitando un passo di Dante medesimo (Inferno, c. IV, v. 95-96);
....Signor dell’altissimo canto |
Al poema dantesco fu dato il titolo di
1233. Divina Commedia.
per merito di Giovanni Boccaccio che così lo chiamò nel §14 del Trattatello in laude di Dante ossia della Vita di Dante, come volgarmente è chiamata (ed. Macrì-Leone, Firenze, 1888, pag. 69); e divina egli disse, non nel senso cristiano di celeste, bensì nel senso di opera di eccellenza meravigliosa, quasi sovrumana, come chiama divine le opere di Virgilio (Zenatti Oddone, Dante e Firenze: prose antiche, Firenze, 1902). Ma la prima edizione in cui il poema dantesco comparisse con tale titolo, fu la giolitina di Venezia, del 1555, per cura di Lodovico Dolce.
Michelangelo Buonarroti (1475-1564) è chiamato da uno dei nostri maggiori poeti, con frase un poco secentesca:
1234. Michel, più che mortale, Angel divino.
1235. Qui giace l’Aretin poeta tosco,
Che disse mal d’ognun fuor che di Dio
Scusandosi col dir, non lo conosco.
che trovasi riportato anche con altra lezione, e pure in latino; anzi alcuni dissero addirittura che era l’epitaffio inciso sul sepolcro di lui mentre l’epitaffio vero era affatto diverso (ce ne conservò il testo il viaggiatore tedesco Lorenzo Schrader; cfr. Bongi, Annali di Gabriel Giolito, vol. II, pag. 14). Invece l’epigramma è stato attribuito al vescovo Paolo Giovio (1483-1552) sulla fede del P. Niceron, Mémoires pour servir à l’histoire des hommes illustres, to. XXV, pag. 362; ma il Mazzuchelli nella Vita di Pietro Aretino, pag. 84 e 137, prova che ciò non può essere, poiché il Giovio e l’Aretino vissero in costante amicizia. Perciò si ha da ritenere che si tratti di una pasquinata composta da alcuno dei molti nemici dell’Aretino, ed è anche possibile si tratti di un’antica facezia adattata in spregio dell’Aretino come fu ripetuta anche per altri, sul qual proposito si veda: B. Chiurlo, Gian Francesco Loredano e l’epitaffio giocoso, in Nuovo Archivio Veneto, N. S., vol. XX (1910), pag. 171-207, dove sono raccolte tutte le varianti, più di dieci, di questo epigramma.
1236. Galateo.
Non entrano nel quadro di quest’opera le allusioni storiche, letterarie o mitologiche: tuttavia si può fare un’eccezione per questa che è al tempo stesso il titolo di un libro. È notissimo che Monsignor Giovanni Della Casa compose con questo titolo un trattatello intorno alle regole della buona creanza e dell’urbanità, pubblicato due anni dopo la morte dell’autore per cura del segretario di lui Erasmo Gemini fra le Rime et prose di M. Giov. Della Casa, impresse in Vinegia, per Nicolò Bevilacqua, nel mese d’ottobre 1559. La grande popolarità di questa operetta fece sì che il nome di Galateo passò a indicare ogni scritto simile ed anche in generale le regole della buona educazione.
È meno noto che il Della Casa dette questo titolo al libro, avendolo composto a istanza e per consiglio di Galeazzo Florimonte, vescovo di Sessa, familiare del card. Giberti, il cui nome poetico era appunto quello di Galateo (Biadego Giuseppe, Galeazzo Florimonte e il «Galateo» di Monsignor Della Casa, in Atti del R. Ist. Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 1900-1901, to. LX, disp. VI, pag. 532). È quello stesso Florimonte cui il Berni indirizzò il famoso sonetto:
Dal più profondo e tenebroso centro,
Dove Dante ha alloggiati i Bruti e i Cassi,
Fa, Florimonte mio, nascere i sassi
La vostra mula per urtarvi dentro.
Uno dei più gloriosi principi della casa di Savoia è ricordato da una storica frase:
1237. L’Italia è come un carcioffo che bisogna mangiare foglia per foglia.
Come tutte le voci ed i motti che passarono nella tradizione storica leggendaria, anche il «carcioffo» che così bene esprime la politica secolare della Casa di Savoia, fu da qualcuno attribuito a Vittorio Amedeo II, chi al figlio Carlo Emanuele III e non mancò un noto deputato e professore che qualche tempo fa in Parlamento ne fece merito persino a Carlo Alberto. Bisogna pur confessare che tutti codesti principi erano capaci o degni della frase e che per conto loro sfogliarono il gustoso cinarocefalo, il meglio che seppero o poterono. Ma la paternità del motto si deve restituire al grande Duca che «illustrò e intorbidò due secoli» (1580-1630), a Carlo Emanuele I, al Difensore della libertà d’Italia, come lo chamò Urbano VIII (lett. del Conte di Agliè del 26 febbraio 1628, cit. dal Cibrario, Origine e progressi delle istituzioni della monarchia di Savoia, 2ª ed., 1869, pag. 307). Così infatti scrive uno storico dei nostri giorni; «Richelieu, il maggior nemico di sua casa, disse di non aver conosciuto intelletto più acuto, più universale e più attivo del suo. Lo stesso gran politico francese in altra circostanza aggiungeva: Fa duopo fondere quella testa di ferro, che si è fissa, a tutto beneficio di Casa Savoia, di riunire l’Italia, pezzo per pezzo, paragonandola egli ad un carcioffo, che bisogna mangiare foglia per foglia». (Felice De Angeli, Storia di Casa Savoia. Milano, 1906, pag. 141). Bisogna però dire che anche l’attribuzione a Vittorio Amedeo II si appoggia su di un’autorità contemporanea, il famoso La Lande che nel Voyage d’un françois en Italie, 1765-1766 (vol. I, cap. V, pag. 61, Parigi, 1766) così si esprime parlando di quel Re che era sul trono in quel tempo: «On l’a regardé à la verité comme un Prince qui visoit à la monarchie de l’Italie, mais c’étoit moins pour lui que pour ses successeurs: aussi l’on prétend qu’il disoit que l’Italie étoit comme un artichaut qu’il falloit manger feuille à feuille.» Anche Domenico Carutti nella Storia di Vittorio Amedeo II (3ª ed., Torino, 1897, pag. 588) appoggia la stessa attribuzione. Naturalmente nulla esclude che la frase fosse detta prima da Carlo Emanuele I e poi ripetuta con compiacenza da Vittorio Amedeo II. Giuseppe Massari ne La vita ed il regno di Vittorio Emanuele II (vol. II, cap. XCIII) narra che avendo egli avuto occasione a Parigi nel 1868 di parlare con Thiers, questi gli disse: Votre Roi a voulu avaler trop à la hâte toutes les feuilles de l’artichaut; qu’il prenne garde à la dernière feuille (Roma): elle pourrait lui coûter cher. L’oroscopo non valse di più dello Jamais di Rouher.Una famosa sovrana ha dato celebrità alla frase:
1238. Moriamur pro rege nostro Maria Theresia.4
di cui questa sarebbe l’origine. Nei primi anni della guerra di successione d’Austria, la imperatrice Maria Teresa, abbandonata Vienna che non le sembrava più soggiorno sicuro dopo che gli eserciti francesi avevano invasa la Boemia, riparò a Presburgo, e là, convocata la Dieta Ungherese, si presentò ad essa l’11 settembre 1741, affidando all’antica fede al valore dell’Ungheria sè stessa, i suoi figli, la sua corona. La tradizione vuole che a generoso invito i rappresentanti ungheresi rispondessero con voce unanime: Moriamur pro rege nostro Maria Theresia, ma l’Arneth (Maria Theresia’s erste Regierungsjahre, 1865, I. Bd., pagg. 299 e 405) sostiene che queste parole non furono mai dette poiché non figurano né nel Diarium diaetale né nelle altre relazioni contemporanee: e neppure è vero che Maria Teresa si presentasse alla Dieta col fanciullo lattante in braccio, poiché questo fanciullo, allora di sei mesi, e che fu poi l’imperatore Giuseppe, si trovava in quei giorni ancora a Vienna. Invece i rappresentanti, dopo che il Primate assicurò Maria Teresa della fedeltà di tutta la nazione, gridarono più volte: Vitam nostram et sanguinem consecramus. Vedasi per maggiori ragguagli il libro del signor Bela di Toth, Mendemondák, a pag. 74. L’apostrofe a Stefano Montgolfier (1745-1799), inventore degli aerostati:
1239. Novello Tifi invitto.
sta nella ode a lui diretta da Vincenzo Monti, quel Monti contro cui Ugo Foscolo lanciava un feroce epigramma:
1240. Questi è Monti poeta e cavaliero
Gran traduttor dei traduttor d’Omero.
al quale epigramma, come è noto, il Monti rispose col seguente:
Questi è il rosso di pel Foscolo detto,
Sì falso che falsò fino sè stesso,
Quando in Ugo cangiò ser Nicoletto,
Guarda la borsa, se ti viene appresso.
Letizia Bonaparte, la madre dei Napoleonidi, è detta da Giosue Carducci:
1241. La còrsa Niobe.
È forse necessario di ripetere qui le due magnifiche strofe, veramente belle di classica grandezza, che il poeta le rivolse nella ode Per la morte di Napoleone Eugenio (nelle Nuove odi barbare) e dove appunto così chiamolla?
Delle molte frasi napoleoniche, più o meno autentiche, una delle più note sono le famose parole:1242. Soldats, songez que, du haut de ces Pyramides, quarante siècles vous contemplent.5
1243. Dio me l’ha data, guai a chi la tocca!
E le stesse precise parole si trovano ripetute in altri storici sincroni, come il cosiddetto Federico Coraccini (ma veramente Carlo Giovanni La Folie, segretario del Conte Méjan, consigliere di Stato) nella rarissima Storia dell’amministrazione del Regno d’Italia durante il dominio Francese, Lugano, 1823, a pag. 34; e anche il conte Cusani-Confalonieri a pag. 159 del vol. VI della Storia di Milano; e il Cusani se non può dirsi storico sincrono, scrisse però la sua storia raccogliendo anche dalla viva voce dei contemporanei di Napoleone. Queste parole ebbero con una lieve variante una sanzione ufficiale nel Terzo Statuto Costituzionale del 5 giugno successivo (pubblicato il 7) dove nel Tit. VIII che parla dell’Ordine della Corona di Ferro, l’art. 63 dice: «La decorazione dell’ordine consisterà nell’emblema della corona lombarda, intorno alla quale saranno scritte queste parole: Dio me l’ha data, guai a chi la toccherà. Questa decorazione sarà sospesa ad un nastro color d’arancio con strisce verdi all’orlo». E nel testo francese (poichè lo Statuto è bilingue): Dieu me l’a donnée; garde à qui y touchera. Evidentemente si tratta di una correzione ufficiosa.
È cosa ripetuta anche in libri autorevoli di storia che Napoleone, pronunziando queste famose parole, togliesse la corona ferrea dall’altare e se la ponesse con le sue mani in capo, facendo restare di sale l’arcivescovo di Milano (il card. G. B. Caprara) che stava per incoronarlo. Il racconto non è perfettamente esatto: è bensì vero che, come già si è detto, Napoleone prese la corona da sè (e in tale atteggiamento lo riproduce il famoso affresco di Andrea Appiani nel palazzo Reale di Milano), ma è anche vero che la cosa era preveduta e prestabilita nel cerimoniale dell’incoronazione; infatti il Corriere Milanese, n. 41, del 23 maggio 1805, a pag. 331, riportando prima della cerimonia il testo ufficiale del cerimoniale medesimo, dice: «(L’Imperatore) Salirà all’altare, prenderà la corona ferrea e la porrà un momento sulla propria testa.» Vedasi pure nel libro del Rinieri, Napoleone e Pio VII (Torino, Unione tip.-editr., 1906), come anche nella incoronazione seguita a Parigi il vecchio cerimoniale fosse stato modificato dall’Imperatore, il quale doveva prendere con le sue mani la corona e porsela sul capo.
Anche il proclama ai soldati dell’armata d’Italia dato da Napoleone dal castello imperiale di Ebersdorf il 27 maggio 1809, dopo la riunione del suo esercito con quello del Principe Eugenio, finiva: «Soldats, cette armée autrichienne d’Italie qui, un moment, souilla par sa présence mes provinces, qui avait la prétention de briser ma couronne de fer; battue, dispersée, anéantie, grâce à vous, sera un exemple de la vérité de cette devise: Dieu me la donne, gare à qui la touche». (Napoléon, recueil de ses lettres, proclamations etc.... par M. Kermoysan, to. II, pag. 393).
1244. Il n’y a rien de changé en France; il n’y a qu’un Français de plus.6
Il nome di un grandissimo artista del violino è anche raccomandato a una frase notissima,
1245. Paganini non replica.
«Un sovrano, non ancora costituzionale, re Carlo Felice, trovandosi nel 1825 al regio teatro del Falcone ad assistere a un concerto di Paganini, udito un pezzo che aveva trasportato tutti al delirio, mandò un ciambellano in palcoscenico a dire all’artista: Avanta, repliché! ― Fu dinanzi a questa intimazione che il re del violino rispose: Paganini non replica!
«La risposta era anche ragionevolmente motivata dal fatto che certi pezzi erano degli improvvisi impossibili a ripetersi. Ma la secca risposta gli valse per un biennio l’espulsione dagli Stati di Sua Maestà» (Da un articolo di F. Resasco: Il violino di Paganini, ecc., nel Secolo di Milano, del 6 aprile 1907, n. 14827).
Ancora incerto è il giudizio che la storia reca sul re Carlo Alberto di Savoia, l’Amleto della monarchia, di cui fu detto che «regnò come un debole, combattè come un forte, morì come un santo.» Quello dei contemporanei fu severo ed esagerato. La frase che ho detto di sopra,
1246. Amleto della monarchia.
fu applicata a Carlo Alberto già da Giuseppe Mazzini, nel volume I, sesto fascicolo (decembre 1849) del periodico L’Italia del Popolo, ch’egli pubblicò a Losanna dal 1849 al 1851. Ecco il testo: «Uno squilibrio fatale tra il pensiero e l’azione, tra il concetto e le facoltà d’eseguirlo, trapelava in tutti i suoi atti [di Carlo Alberto]. I più tra quei che lavoravano a prefiggerlo duce all’impresa, lo confessavano tale. Taluni fra i suoi famigliari sussurravano ch’egli era minacciato d’insania. Era l’Amleto della monarchia» (pag. 776). Ne rinverdì la memoria Giosuè Carducci nella mirabile ode Piemonte (1890):
Oggi ti canto, o re de’ miei verd’anni,
Re per tant’anni bestemmiato e pianto,
Che via passasti con la spada in pugno
Ed il cilicio
Al cristian petto, italo Amleto....
Invece, quanto diverse furono la venerazione e l’affetto che circondarono costantemente il figlio! Basterebbe a mostrarlo l’appellativo che i suoi popoli gli dettero, lui vìvente, di
1247. Re galantuomo.
«Un dì l’Azeglio disse al Re: — Ce ne sono stati così pocho nella storia di re galantuomini, che sarebbe veramente bello il cominciarne la serie. — Ho da fare il re galantuomo? — chiese sorridendo senza ridere Vittorio Emanuele. — Vostra Maestà ha giurato fede allo Statuto, ha pensato all’Italia e non al Piemonte. Continuiamo di questo passo a tener per certo che a questo mondo tanto un re quanto un individuo oscuro non hanno che una sola parola, e che a quella si deve stare. — Ebbene, il mestiere mi par facile — disse Sua Maestà. — E il Re galantuomo l’abbiamo — osservò l’Azeglio. Alcuni giorni dopo questa espressione si diffuse, pigliò voga e non andrà mai più perduta. Riferisco questo brano di dialogo dietro un racconto che mi fece l’Azeglio stesso di quella conversazione, il quale alla sua volta quando a me lo narrava, andava ricercando nella memoria una lezione forse più giusta.»
Il Massari narra a tale proposito che Vittorio Emanuele si compiacque sempre di avere e di meritare quella denominazione. Pregato ad inscriversi in fin d’anno [1861] nel registro del censimento della popolazione torinese, alla colonna che ha per rubrica le professioni, scrisse di suo pugno: Re galantuomo. Era il mestiere che a lui pareva tanto facile» (La vita e il regno di Vittorio Emanuele, vol. I, pag. 160).
Anche di un altro appellativo andava fiero il primo re d’Italia, cioè di essere il
1248. Primo soldato dell’indipendenza italiana.
Ma questo attributo egli stesso se lo dette nel Proclama ai Popoli del Regno pubblicato il 20 giugno 1859, cioè sul procinto di partire per il campo a iniziarvi quella fortunata campagna, donde doveva nascere la unità d’Italia. Il proclama così chiude: «Io non ho altra ambizione che quella di essere il primo soldato dell’indipendenza italiana.»
Non lasceremo i Sabaudi senza registrare il loro antichissimo motto:
1249. Fert.
La misteriosa divisa di Amedeo VIII primo duca di Savoia (più tardi papa col nome di Felice V), ch’egli dette come motto all’ordine cavalleresco dell’Annunziata da lui istituito, come dai più si crede, nel 1434: altri invece lo dicono fondato da Amedeo VI, il Conte Verde, nel 1362. La interpretazione di questa divisa è ancora un problema, poichè sembra da rigettarsi la notissima che vuol vederci un acrostico del motto Fortitudo ejus Rhodum tenuit, allusivo alle pretese gesta del conte Amedeo V il grande, il quale nel 1310 avrebbe liberato Rodi dall’assedio de’ Saraceni, mentre è provato che nessuno de’ Sabaudi fu a quella guerra. Sono, se non più probabili, meno insostenibili l’interpretazione, pure acrostica: Fœedere et religione tenemur, motto che si troverebbe in un doppione d’oro coniato sotto il regno del duca Vittorio Amedeo I; quella di Carlo Padiglione, che vede nella parola Fert un troncamento di Ferté, voce dell’antico francese; e quella del conte Massimino di Ceva, il quale crede ch’essa sia soltanto la prima parola dell’emistichio virgiliano Fertque refertque (Eneide, lib. XII, v. 866), che si legge intiero in una medaglia di Carlo Emanuele I del 1590, e che sarebbe stato un antico motto di Casa Savoia. È da notarsi col Promis (Illustraz. di una medaglia di Claudio di Seyssel, ecc., nella Miscellanea di Storia Italiana, to. XIII, pag. 88) che «di questo motto nessuna menzione trovasi anteriormente ad Amedeo VIII, il quale solamente nel 1391 successe al padre, e che la prima volta in cui fu menzionato fu “in un ordine di battitura delli 23 gennaio 1392, col quale tal conte concesse allo Zecchiere d’Avigliana la facoltà di lavorare quarti di grosso uguali nella legge a quelli battuti da Amedeo VII nella stessa zecca a tenore di ordine delli 23 febbraio dell’anno precedente”. Amedeo VIII adunque volle che in tal pezzo fosse scriptum ab uno parte in medio hoc verbum FERT, e notisi che in questo caso la parola verbum chiaramente significa che il fert cui è preposto non può essere che la terza persona del tempo presente del verbo ferre qualunque poi fosse l’allusione ignota datagli dal suo autore»: osservazione a dir vero poco persuasiva e nella quale pochissimi consentiranno. Vedansi: Liverani, La divisa della R. Casa di Savoia (Faenza, 1873); Padiglione, Il FERT di Casa Savoia (Napoli, 1868); due articoli (uno di C. Lozzi, l’altro del Padiglione medesimo) nel Bibliofilo, vol. I, 1880, pag. 178 e vol. II, 1881, pag. 20; e la Rassegna settimanale universale, vol. III. num. del 26 dic. 1897, pag. 30.
A San Malachia (o più propriamente Maelmaedog Ua Morgair), arcivescovo di Armagh in Irlanda, vissuto nel sec. xiii e grande amico di san Bernardo di Chiaravalle, fu attribuita per qualche tempo una curiosa profezia intorno ai papi da Celestino II alla fine del mondo, che il benedettino Arnaldo Wyon pubblicò per la prima volta nel vol. I dell’opera Lignum vitæ, ornamentum et decus Ecclesia (Ven., 1591), e che poi è stata riprodotta più volte (benchè condannata dai Sommi Pontefici), ed anche nel Grand Dictionnaire historique del Moreri, sotto la voce Malachie. È quasi certo che codesta scrittura è apocrifa e che probabilmente fu composta durante il conclave in cui fu eletto Gregorio XIV (1590) dai partigiani del card. Girolamo Simoncelli orvietano. In questa pretesa profezia ogni papa è indicato da una frase allegorica, in cui si vuol trovare allusione o alla patria del papa, o al suo cognome, o al suo stemma, o alla condizione di nascita, o agli avvenimenti del suo regno, insomma a tante possibili circostanze che è ben difficile che una di esse non si presti, più o meno stiracchiata, alla giustificazione della profezia. Del resto l’applicazione loro appare più precisa per tutti quei pontefici che precedono Gregorio XIV, mentre è cavillosa e forzata per quelli che seguono. Il dott. Luigi Fumi, già direttore dell’Archivio di Stato di Milano, crede di potere con buoni argomenti, non però del tutto conclusivi, attribuire la fabbricazione di questo apocrifo testo al famoso falsario Alfonso Ceccarelli, decapitato per i suoi falsi nel giugno 1583 (Fumi, L’opera di falsificazione di Alfonso Ceccarelli, Perugia 1902). Il primo scrittore che reputò falsa la profezia è il Manriquez nei suoi Annales Cisterc. del 1642; ma altri scrittori ecclesiastici la ritennero più o meno genuina, tali recentemente l’ab. Cucherat (Les prophéties de la succession des Papes, Grenoble 1873) e l’ab. Joseph Maitre (Les prophéties des Papes attribuées à St. Malachie, étude critique, Paris 1901). Checchè ne sia, queste profezie ebbero grande reputazione e anche oggi sono citate se non altro a titolo di curiosità. Pio IX vi è designato con le parole
1250. Crux de cruce.7
che gli scrittori clericali vogliono profetiche delle traversie sofferte dal Pontificato sotto di lui e specialmente della perdita del dominio temporale toltogli dalla Casa di Savoia, che ha nel suo stemma una croce; Leone XIII con le altre
1251. Lumen in cœlo.8
1252. Ignis ardens.9
1253. Religio depopulata.10
Non si potrebbe chiudere questo capitolo senza il ricordo del più fiero nemico d’Italia, dell’ultimo imperatore d’Austria, Francesco Giuseppe, sul quale, poichè la morte pietosa gli tolse di assistere al crollo della monarchia degli Absburgo, non sarebbe il caso di incrudelire. Ma la storia non potrà mai cancellare la sanguinosa apostrofe
1254. Imperatore degli impiccati.
colla quale lo marchiò Giosue Carducci in un fiero articolo, scritto dopo il supplizio di Oberdan col semplice titolo: XXI decembre, pubblicato nel Don Chisciotte di Bologna, a. II, n. 354, del 22 dicembre 1882 in prima pagina, e che finisce: «Riprendemmo Roma al papa, riprenderemo Trieste all’imperatore. A questo imperatore degl’impiccati». Fu ristampato in: Confessioni e battaglie, Serie seconda. (Bologna, Zanichelli, 1902), a pag. 242. Il Carducci tolse questa terribile invettiva dall’ultima poesia del bardo ungherese Alessandro Petöfi, un brindisi sarcastico per la festa del giovane imperatore, il cui manoscritto fu trovato da Teleki fra le carte dello Stato Maggiore del generale rivoluzionario Bem, di cui il Petöfi era aiutante di campo, dopo la rotta di Segesvar in Transilvania (31 luglio 1849), dove il Petöfi stesso scomparve misteriosamente. La poesia diceva: «Possa il destino accordarti tutta la felicità che il tuo popolo ti desidera. Che i demoni visitino i tuoi sonni, maestà, re degli impiccati. Che il tuo letto sia un braciere: che il tuo cibo sia roso dai vermi: che la tua bevanda sia il sangue dei martiri: che la tua scranna si muti in patibolo». Non conosco il testo ungherese: cito la versione italiana che fu fatta conoscere da Aleardo Aleardi nella nota 17 al canto I sette soldati, nella sua raccolta di Poesie complete, pubblicata a Losanna nel 1863, nota che fu poi ripetuta in tutte le successive edizioni e che indubbiamente era conosciuta dal Carducci. Non occorre ricordare che Francesco Giuseppe per l’ungherese Petöfi era soltanto re, non imperatore. Ma lasciamo costui e restiamo col ricordo della più nobile delle sue vittime, di Guglielmo Oberdan, alla cui memoria fu sacrata in Bologna una lapide col ritratto del Martire e una fiera epigrafe Carducci medesimo, di cui le ultime tre righe sono meritamente famose. Dice l’epigrafe:
Guglielmo Oberdan
Morto santamente per l’Italia
1255. Terrore ammonimento rimprovero
Ai tiranni di fuori
Ai vigliacchi di dentro.
L’epigrafe più volte pubblicata e da prima nel Resto del Carlino di Bologna del 26 giugno 1886 si legge anche nella Serie 2ª delle Confessioni e battaglie del Carducci (Opere di G. C., vol. XII, Bologna 1902, pag. 259) dove sono pure il Discorso pronunciato dal Poeta alla Società Operaia di Bologna per lo scoprimento della lapide ― che fu dovuta porre nella sede di quel sodalizio, non
Note
- ↑ 1223. Lasciate il passo, scrittori latini, lasciate il passo, scrittori greci: sta per nascere un non so che, più grande dell’Iliade.
- ↑ 1226. Quale artista muore con me!
- ↑ 1228. Entrasti (nel papato) da volpe, regnerai da leone, morirai da cane.
- ↑ 1238. Moriamo per il re nostro Maria Teresa.
- ↑ 1242. Soldati, ricordatevi che dall’alto di queste piramidi quaranta secoli vi guardano.
- ↑ 1244. Non c’è nulla di cambiato in Francia, non c’è che un francese di più.
- ↑ 1250. Croce della (o dalla) Croce.
- ↑ 1251. Lume nel cielo.
- ↑ 1252. Fuoco ardente.
- ↑ 1253. La religione devastata.