Chi l'ha detto?/A chi legge
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A CHI LEGGE
Che cosa sia il Chi l’ha detto?, è ormai noto dopo il successo che da ben ventisette anni accompagna questo volume. Esso è un modesto tentativo di repertorio nel quale l’autore ha inteso di raccogliere ed illustrare tutte quelle citazioni, che sono più comunemente note al pubblico italiano e ricorrono più di frequente sia nello scrivere sia nel parlare. Quindi esso contiene una copiosa scelta di citazioni da classici nazionali e stranieri, da prosatori e poeti e di frasi storiche, ossia di frasi dette in determinate circostanze da personaggi noti, e rimaste famose per ragioni diverse. Per ciascheduna di esse io ho cercato di stabilire con quella maggiore precisione che mi era possibile chi l’ha detta per la prima volta e di indicarne scrupolosamente le fonti storiche e letterarie: qua e là, per rompere la monotonia di un’arida successione di citazioni bibliografiche, ho aggiunto delle notizie curiose di storia e di erudizione, qualche aneddoto, qualche squarcio letterario. A pie’ di pagina ho dato la traduzione delle frasi classiche e straniere, senza eccezione alcuna; nelle precedenti edizioni si erano omesse le traduzioni delle frasi francesi, ritenendo che la conoscenza di quella lingua si avesse a presupporre in ogni persona mediocremente colta: ma da molte parti mi si è fatto rilevare che la eccezione, mentre la ragione che la giustificava non sembrava abbastanza fondata in linea di fatto, poteva parere meno opportuna, prestandosi a illazioni non giuste; e così in questa edizione tutte le frasi che non appartengono all’italiano letterario (comprese quindi le dialettali) hanno la loro traduzione.
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L’idea di un libro siffatto era tutt’altro che nuova. Io ho tenuto specialmente a modello il classico libro di Giorgio Büchmann (n. 1822, ✝ 1884), intitolato Geflügelte Worte, di cui la prima edizione uscì nel 1864, continuato da Walter Robert-tornow (n. 1852, ✝ 1895) e dopo la morte anche di quest’ultimo, da Edoardo Ippel, quindi da Bogdan Krieger; con l’ultima edizione, pubblicata poco tempo prima della guerra, e che è la 25ª (1912), — che contiene 3600 citazioni — erano 175.000 gli esemplari di quest’opera così popolare in Germania che sono stati diffusi tra il popolo tedesco. Ma il Büchmann non fu nè il primo nè il solo. La letteratura francese che aveva già i notissimi libri di Edoardo Fournier, più volte ristampati, L’esprit des autres e L’esprit dans l’histoire, ebbe in tempi più vicini altri repertorii di curiosità letterarie e storiche fra i quali notevole quello dell’Alexandre, Le Musée de la Conversation, di cui nel 1897 uscì la terza edizione, e nel 1901 un supplemento col titolo: Les mots qui restent. L’Inghilterra che aveva avuto prontuari di citazioni forse prima di ogni altro paese1, ne può vantare molti e buoni, ma tutti li supera il grande Dictionary of Quotations di Dalliac e Harbottle, di cui prima della guerra erano usciti 12 volumi. Tutti questi libri e molti altri, di quelle e di altre letterature, dei quali mi risparmio di ripetere le citazioni, ho consultato e spogliato diligentemente. E mi risparmierò anche di citare i non molti libri italiani, congeneri al mio, ma tutti ad esso posteriori, che del resto non mi sono stati di utilità nessuna. Qualcuno invece si è valso del mio senza discrezione, attingendovi a piene mani, ma dimenticandosi di citarlo, come se nemmeno lo conoscesse: ma non vale la pena di trattenersi su queste miserie.
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A meglio chiarire il concetto direttivo di questo lavoro non sarà inutile insistere sul fatto che esso è una raccolta di citazioni storiche e letterarie, vale a dire di frasi delle quali è possibile di rintracciare l’origine nei detti e nei fatti di qualche personaggio storico, nelle opere di qualche scrittore antico o moderno. Non è una raccolta paremiologica, quindi non è il caso di cercarvi sentenze proverbiali nè italiane nè latine nè d’altre lingue. Qualcuno vorrebbe trovarci senz’altro tutte le sentenze latine che infiorano i nostri discorsi, senza fermarsi a considerare se tutte entrino nel quadro del libro, o non siano adagi o ditterî, sia di origine classica, sia nati nelle scuole medievali. Ma non li registra il Büchmann nè altro degli autori che ho scelti a modello: come ragionevolmente non posso citarli io. Questo, ad esempio, risponderò ad un cortese critico, il quale mi osservava che avevo dimenticato la frase De gustibus non est disputandum. Ma forse credeva egli sul serio che si potesse attaccare a qualche classico romano la paternità di questo latinus grossus? Invero non è altro che una facezia scolastica del medio evo sul genere del Gratatio capitis facit recordare cosellas o del Non est de sacco ista farina tuo; e nessuno potrà mai sapere il nome dell’ignoto goliardo che primo la disse, come non si sa, nè si saprà mai, chi primo disse Melius est abundare quam deficere, o chi disse Promissio boni viri est obligatio, o l’autore degli infiniti brocardi giuridici: Neganti incumbit probatio; Potior tempore, potior iure; Testis unus, testis nullus; De minimis non curat praetor, ecc. Il cercare frasi siffatte nel mio repertorio è tempo perduto, e il lagnarsi di non trovarcele non è ragionevole: tanto varrebbe farmi colpa di non avere in queste pagine investigato chi sia l’autore di Moglie e buoi dei paesi tuoi, o di Meglio un fringuello oggi che un tordo domani2.
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A più d’uno è parso che nello spigolare dai libretti melodrammatici io abbia ecceduto: e qui la critica, almeno per la prima edizione, non era senza fondamento. Ma non mi mancavano le giustificazioni. L’incanto della musica dei nostri sommi compositori ha reso popolarissime in Italia ed all’estero, insieme alle melodie che le ispirano, anche le parole degli infiniti libretti del nostro teatro lirico. Su dieci persone che non siano affatto illetterate, ce ne saranno sempre sei o sette che non hanno letto la Divina Commedia, benchè non osino confessarlo, ma forse una sola che non abbia sentito la Norma e la Traviata. Potrà darsi che a quelle riesca nuovo od almeno incomprensibile il verso:
ma forse a tutti sarà familiare il
ovvero l’
Inoltre molte di queste citazioni melodrammatiche che sono o furono a’ tempi loro così conosciute, diventano col tempo meno note, pure restando vive nella tradizione comune, benchè il variare dei gusti e della moda abbia tolto di repertorio le opere alle quali appartengono. Molti della generazione che nasce, non hanno mai sentito in teatro l’Elixir d’Amore; e per loro riesce notizia nuova e curiosa che dal suo spigliato libretto sia venuta a noi la trita frase Anche questa è da contar. Quanti di coloro che la ripetono, saprebbero dire, senza ricerche, l’opera cui appartiene? E quello che si dice per noi vale a più forte ragione per gli stranieri, che conoscono, purtroppo, il nostro teatro assai più della nostra letteratura. Inoltre più volte accade, che a qualcuna di queste frasi liriche si connettano tradizioni preziose, curiosi aneddoti che è prezzo dell’opera raccogliere finchè la memoria dei contemporanei permette di farlo: si veda ad esempio quel che ho scritto al n.º 1142 a proposito di un già famoso coro della Donna Caritea di Mercadante, e si leggano le parole che su di esso, sui ricordi patriottici che ce lo fanno sacro, e anche su tale questione delle citazioni liriche ha scritto Alfredo Comandini in quella sua diligente edizione delle memorie autobiografiche del padre3. Nondimeno, poichè alla maggioranza questo lusso di spigolature librettistiche non garbava, dopo la prima edizione ho sfrondato largamente in questa parte, e ne ho lasciate fuori non poche.
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Quanto alla disposizione materiale del volume in un certo numero di paragrafi, benchè possa a taluno sembrare che essa renda più lunghe le ricerche e che sia inutile in un libro di consultazione e che il filo discorsivo col quale ho tentato di riunire le diverse frasi sia in molti luoghi più che tenue, puerile, in altri fastidioso, in tutti superfluo (e non potrebbe essere altrimenti), è però un fatto che i copiosi indici alfabetici consentono al consultatore qualunque rapida ricerca, ed inoltre che la classificazione permette di trovare quelle citazioni delle quali non si ricorda esattamente la forma, senza di che non sarebbe possibile rintracciarle nell’indice alfabetico. Per esempio qualcuno una volta ha stampato che nel Chi l’ha detto? mancava la frase Date a Cesare quel ch’è di Cesare. Ma il testo non dice così; dice Reddite quæ sunt Cæsaris, Cæsari; e sotto Reddite si trova nell’indice il richiamo al n.º 599; chi non ricordava esattamente il testo, bastava cercasse nel § 36, Giustizia, liti e trovava egualmente la frase medesima. Ma c’è di più questo: che il mio volume non è per gli eruditi, i quali sanno già tante cose senza bisogno di esso, è per il pubblico spicciolo. E il pubblico, almeno in Italia, non compra un arido libro di erudizione in forma di dizionario; e se ha fatto buon viso alla mia fatica, devo in gran parte lasciarne il merito alla disposizione da me adottata, la quale, alla meglio o alla peggio, ne ha fatto un libro di cui, almeno per qualche pagina, la lettura continuata è sopportabile.
Per lo schema di classificazione, mi sono dunque attenuto a quello ormai notissimo che Giuseppe Giusti scelse per la sua Raccolta di proverbi toscani, che egli stesso tolse dal libro di Orlando Pescetti, di Marradi, sui Proverbi italiani (1603), che Gino Capponi, editore della raccolta giustiana, ricorresse, e che fu adottato con lievi modificazioni dal Pasqualigo, dal Pitré, e da molti altri dei nostri migliori paremiografi. Naturalmente io pure ci ho portato quei necessari ritocchi che la diversità del lavoro richiedeva; e per ultimo ci ho aggiunto, facendone la terza parte del volume, alcuni paragrafi più comprensivi destinati a contenere e ordinare sommariamente, per lingue e per tempo, quelle frasi per le quali una classificazione ragionata era difficile od anche impossibile. La seconda parte, aggiunta per la prima volta in questa edizione, contiene le frasi storiche relative alla Grande Guerra: dei criteri con i quali ho fatto questa scelta e delle ragioni per le quali le frasi che la costituiscono, si presentano qui tutte riunite, dirò più ampiamente alla pag. 601 e segg. L’indice dei paragrafi e le annotazioni che ho fatte in principio a molti di essi nel testo, chiariranno meglio il mio concetto in questo ordinamento.
A facilitare l’uso del volume, l’ho corredato di copiosi indici. Un indice delle citazioni riunisce in una unica serie alfabetica non solo tutte le frasi nella loro testuale lezione (delle poesie soltanto i primi versi), ma ancora tutte le varianti, quelle parti delle frasi che si citano separatamente (e questo succede più di frequente nelle poesie), e perfino le traduzioni, ove queste siano pure popolari come le frasi originali. Un altro indice alfabetico contiene i nomi di tutti gli autori delle frasi e di coloro che contribuirono a renderle famose; e finalmente un ultimo indice delle cose notevoli permette di ritrovare rapidamente quelle notizie di varia erudizione e quegli aneddoti che sono sparsi per il volume e dà la chiave della classificazione metodica delle sentenze.
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La lettura del libro, e più specialmente gl’indici che lo completano, ci porgono argomento a varie curiose considerazioni, nelle quali s’intravedono le leggi che reggono questa intricata matassa della fortuna delle frasi. Per esempio le citazioni in poesia superano di gran lunga quelle in prosa, e se ne capisce la ragione, perchè i versi, a cagione del ritmo e della rima, sono assai più mnemonici della prosa. Delle non molte citazioni in prosa popolari fra noi, pochissime poi sono italiane, e anche questo è naturale, perchè si tiene più facilmente a memoria una frase straniera che una italiana, la quale può diventare popolare, soltanto quando contenga qualcosa di veramente originale sia nel concetto, sia nella forma. E fra le citazioni straniere tengono il primo posto le latine di cui le passate generazioni ci lasciarono patrimonio larghissimo, spigolandole nei classici immortali della civiltà romana, nella Bibbia ed anche in molti testi della bassa latinità; poi le francesi, spettanti ad un popolo che ebbe con noi tante relazioni politiche e intellettuali, e la cui lingua è così familiare anche ai meno colti. Pochissime le frasi inglesi, le tedesche, le spagnuole, e anche queste più note nelle traduzioni francesi o italiane che negli originali. E ricercando poi quali siano gli autori più di frequente citati, vedremo a un dipresso quali siano i libri più popolari oggi nel nostro paese, il che, si avverta bene, non vuol per nulla dire più letti; infatti abbiamo in primo luogo la Bibbia, e subito appresso Dante, l’uno e l’altra più citati che letti, quindi, andando in ordine decrescente, e non tenendo conto dei librettisti di melodrammi, Orazio e Virgilio, poi Cicerone, il Petrarca, il Metastasio, il Tasso, il Manzoni, Ovidio, La Rochefoucauld, di cui le sentenze sono certamente più conosciute del nome (caso non nuovo nè raro), il Giusti, Seneca il giovane, il Carducci, l’Ariosto e l’Alfieri, il Leopardi, Voltaire (non sempre citato a ragione, anzi più volte a torto che a ragione), e a parità Giovenale, il Foscolo e Gabriele D’Annunzio (quest’ultimo specialmente in grazia dei motti di guerra); poi Shakespeare, il Monti, Plauto con Svetonio ed il Parini, Napoleone I, poi in pari grado Terenzio, Marziale, Molière e Olindo Guerrini; e finalmente tre gruppi a breve distanza fra loro, Plutarco e Paolo Ferrari; poi Tacito, Quintiliano e Publilio Siro a fianco dell’ex-imperatore Guglielmo II; e per ultimi Tito Livio, Lafontaine, Victor Hugo e il Prati. E mi pare che basti.
Anche altre considerazioni può suggerirci il libro, ove si ponga mente alle curiose trasformazioni che hanno subìto le citazioni storiche e letterarie. Delle frasi storiche, si può dire senz’altro che i tre quarti sono apocrife, in ogni modo è ben raro che siano esatte. Se si risale, come ho cercato di fare, alle fonti originarie, le si trovano sempre trasformate: il pensiero sarà quello, ma la forma è sempre meno solenne, meno rettorica. Il popolo se ne è innamorato, e le ha accomodate, vezzeggiate, rese più sonore. Era anche legge di selezione naturale, altrimenti non avrebbero potuto sopravvivere nella memoria delle persone indotte o mediocremente colte4. Anche le citazioni letterarie sono spessissimo inesatte, benchè ciò non accada tanto di frequente quanto per le storiche: infatti, poichè sono d’ordinario le persone di maggior coltura quelle in bocca alle quali spesseggia la citazione letteraria più di quella storica, appunto tali persone più facilmente si attengono a citazioni precise. Però anche per queste si è fatto, ogni volta che si è potuto, lo stesso lavoro inconscio di accomodamento. Sono anche frequenti quelle frasi che si ripetono, sia per scherzo sia per errore di interpretazione, dovuto talora ad una illusione dell’orecchio, in un significato al quale i rispettivi autori non si sognavano di pensare, cioè ben diverso da quello che originariamente avevano; e basti citare per tutte i biblici Beati pauperes spiritu, Non in solo pane vivit homo5, Salutem ex inimicis nostris, De populo barbaro; lo Γνῶθι σεαυτόν del Santuario di Delfo, che già ai tempi di Socrate e di Platone non era più esattamente inteso; il virgiliano Sunt lacrimæ rerum; l’oraziano Lecta potenter res; i danteschi L’amico mio e non della ventura, Provando e riprovando, Descriver fondo a tutto l’universo, Aver perduto il ben dell’intelletto6. Sono anche frequentissime le frasi che si attribuiscono a qualche famoso scrittore, ma che non sono mai state da lui dette nè scritte, e sono invece frasi riassuntive nelle quali i posteri hanno condensato per così dire la dottrina che traspariva dall’insieme delle sue opere, tali varie frasi aristoteliche, foggiate dai filosofi scolastici con le parole dello Stagirita, come per esempio In medio stat virtus, e molte altre sentenze dottrinali, tali il Credo quia absurdum della dottrina patristica, l’Omne vivum ex ovo di Harvey, e persino qualche frase modernissima quale quella attribuita al geografo tedesco Peschel sulla battaglia di Sadowa vinta dal maestro di scuola prussiano.
E potrei prolungare queste considerazioni, se non preferissi di lasciare che l’acume del cortese lettore possa esercitarcisi da sè nella lettura del mio modesto volume.
La prima edizione di questo libro uscì verso la fine del settembre 1894; la seconda circa alla metà del 1896; la terza nell’aprile del 1899; la quarta nell’aprile del 1904; la quinta nel febbraio 1909; la sesta nel dicembre 1914. Alle favorevoli accoglienze del pubblico corrisposero quelle della stampa politica e letteraria; e dei giudizi espressi nelle molte recensioni che giunsero finora a mia conoscenza, posso dirmi, quasi senza riserve, soddisfatto e superbo, non meno che grato. Mi auguro che lo stesso favore accolga questa nuova ristampa, alla quale, ho portato maggiori cure per migliorarla ed arricchirla sulle precedenti. Ho riscontrato sugli originali, ancor più che nelle altre edizioni, un grandissimo numero di citazioni, correggendo di moltissime la lezione o la fonte, e in modo che ormai ben poche sono le frasi citate di seconda mano7; altre citazioni sono state nuovamente illustrate e altre molte sono state aggiunte, in modo che le frasi comprese in questa sono salite a 2223. Poichè la prima edizione non ne comprendeva che 1575, e nelle varie ristampe se ne sono soppresse 126 (quasi tutte citazioni di libretti melodrammatici), le vere aggiunte dalla prima edizione in poi son ben 774, un buon terzo del libro.
Anche per questa ristampa ho avuto il cortese contributo di molti spontanei cooperatori fra i quali devo fare espressa menzione del dott. Corrado Ricci e del bar. Alberto Lumbroso, dei quali la cara amicizia mi ha favorito molte preziose notizie; il comm. Ottorino Cerquiglini che mi ha aiutato nella raccolta delle frasi della guerra, come meglio spiegherò a pag. 604; ma uno speciale ricordo e un caldissimo ringraziamento devo al sig. Romeo Monari, il quale anche per questa edizione, mi è stato di aiuto veramente prezioso nel cercare e collazionare testi e citazioni e nella faticosa e diligente revisione delle prove di stampa, oltre all’aver messo a mia disposizione un fascio di note e di aggiunte ch’egli aveva messo insieme; e un altro ringraziamento devo finalmente alla signorina dott. Lea Spinelli che volle cortesemente collazionare tutte le citazioni greche.
- Bologna, 30 giugno 1921.
- Piazza di Porta S. Stefano, 2.
Note
- ↑ «Chi abbia qualche famigliarità con Inglesi colti e con la loro letteratura, può aver osservato che essi si compiacciono — più che non si usi, per esempio, da noi, ― d’infiorare la loro conversazione e le loro scritture con citazioni, specialmente latine e greche. Un tal vezzo è una delle molte maniere ― e tra le più immediate, se non tra le più importanti ― con cui si manifesta in quella contrada il culto per la classicità, culto oltremodo intenso e sincero, così da riuscir talvolta, in qualche sua forma, eccessivo e bizzarro.» Così il prof. Paolo Bellezza in una sua arguta ed erudita comunicazione: La citazione e gli Anglosassoni, negli Studi di Filologia Moderna, anno I, fasc. 3-4, pag. 247-277. Ed uno degli indici di tal vezzo è appunto, secondo il Bellezza, il gran numero di prontuari di sentenze di autori antichi e moderni e di reference books destinati a uso scolastico o al pubblico colto che si hanno in Inghilterra.
- ↑ Ho riunito in un volumetto che promesso da molto tempo è finalmente comparso nel 1911 fra i Manuali Hoepli, col titolo L’Ape Latina (pag. xv-353), e di cui è in corso di stampa una nuova edizione, una raccolta in forma di dizionario di 2588 frasi, sentenze, proverbi, motti, divise, locuzioni latine, ecc., vive nell’uso moderno; e perciò vi sono comprese quelle che dal presente volume furono escluse per le ragioni accennate o per altre. Esso è dunque un’utile integrazione del Chi l’ha detto?; e i benevoli lettori che fanno buon viso a questo mio libro, non dovrebbero essere sprovveduti neppure dell’altro. Cicero pro domo sua!
- ↑ Cospirazioni di Romagna e Bologna nelle memorie di Federico Comandini e di altri patriotti del tempo, per cura di A. Comandini. Bologna, 1899, pag. 380-383.
- ↑ Non sempre la deformazione è spontanea o inconsapevole: non di rado essa è fatta artificiosamente per feticismo o per un sentimento opposto. Ma occorre in tal caso andare adagio nel giudicare, poichè la difficoltà di risalire a fonti originali sicure potrebbe spesso indurre in apprezzamenti affrettati ed ingiusti. Per esempio della frase giustamente famosa Ci siamo e ci resteremo, saremmo agevolmente indotti a ritenere che fosse stata fabbricata da compiacenti cortigiani che ricordavano J’y suis et j’y reste (n.º 347) del Mac Mahon: infatti al n.º 1001 ho notato come i giornali del tempo non riportassero la frase precisa e anzi non si fosse nemmeno sicuri dell’occasione e del tempo in cui essa sarebbe stata pronunciata. Altre testimonianze, contraddittorie, che sono venute a mia notizia dopo la stampa di quelle pagine, aumentano le mie dubbiezze: tuttavia l’impressione definitiva varia da quella ricevuta prima ed io sono ora più disposto a ritenere che si tratti di parole autentiche. Ecco le testimonianze. La prima, ostile, è quella di Alfredo Oriani il quale afferma nel suo volume: La lotta politica in Italia: Origini della lotta attuale (Torino, 1892; a pag. 812), che si tratta soltanto di un’esclamazione di noia proferita da Vittorio Emanuele II scendendo di carrozza nell’atrio del Quirinale, al suo primo arrivo in Roma il 30 dicembre 1870: volgendosi al Lamarmora «con atto di viaggiatore seccato del viaggio» egli avrebbe mormorato in piemontese: Finalment i suma (Finalmente ci siamo). «Questa esclamazione ― commenta l’Oriani — fu poi corretta con avveduto spirito cortigiano nel famoso motto»; e in nota aggiunge: «Io stesso, allora giovinetto, che avevo seguito trottando fra la poca gente la carrozza del re dalla stazione sino dentro all’atrio del Quirinale, potei udire questa esclamazione e notare il suo gesto: nell’una e nell’altro nessun accento o significato di grandezza. Vittorio Emanuele aveva l’aria oltremodo annoiata, il vecchio Lamarmora era imbronciato. Infatti pioveva e, malgrado la pioggia, per mostrarsi al popolo erano venuti dalla stazione col mantice della carrozza abbassato». Ma questa insinuazione acrimoniosa è contrastata dall’affermazione che a me sembra assai più attendibile, di Giuseppe Manfroni, il famoso commissario di P. S. di Borgo, che nelle sue memorie, scritte in forma di diario, subito dopo gli avvenimenti e quindi degne della maggior fede, dopo aver parlato dell’ingresso solenne e ufficiale di Vittorio Emanuele in Roma (2 luglio 1871) e dell’«accoglienza delirante» fattagli, prosegue: «Siamo a Roma e ci resteremo. Ecco le parole che Vittorio Emanuele ha detto ai sindaci della Provincia, venuti a fargli omaggio. Ma ha aggiunto altre parole gravi, che mi sono state riferite da uno che l’ha udite coi propri orecchi: esse suonano un po’ diverse da quelle che i giornali comunemente hanno riferito ecc.» (Manfroni, Sulla soglia del Vaticano, 1870-1901. Vol. I. Bologna, 1920, a pag. 73). La questione è dunque tuttora indecisa, benchè le maggiori probabilità siano per l’autenticità della frase: tuttavia sarebbe per ora imprudente di pronunciarsi recisamente in un senso o nell’altro.
- ↑ Non ho potuto spiegare a suo luogo nel testo, citando questa frase (n.º 1609) come nei due luoghi della Bibbia dove essa ricorre, il suo significato sia ben diverso da quello che le si dà comunemente. Nel Deuteronomio (cap. VIII, v. 3) è detto che Dio mandò agli Ebrei la manna per mostrar loro come non di solo pane vive l’uomo ma di qualunque cosa che Dio avrà ordinato; nella parabola del deserto (S. Matteo, cap. IV, v. 4; S. Luca, cap. IV, v. 4) Cristo risponde al Tentatore che l’uomo può vivere di altro che di pane, cioè che per lui basta il nutrimento spirituale. Quindi è evidente il contrasto: nel testo originale, tanto nel senso letterale quanto nell’allegorico, il versetto vuol dire che il pane non è necessario per vivere: nell’uso corrente s’intende invece che il pane non è sufficiente.
- ↑ Per la bibliografia ricorderò qui l’opuscolo di G. B. Ficorilli, Il significato di alcune frasi e di alcune sentenze restituito (Città di Castello, Lapi, 1901, in-8º, pag. 11).
- ↑ In particolare sono state riscontrate tutte le citazioni dantesche le quali nella prima compilazione erano state tolte quale da una, quale da altra edizione, non tutte dello stesso valore critico. Nella necessità di unificarne la lezione, e non avendo potuto valermi del Testo critico delle Opere di Dante curato dalla Società Dantesca Italiana che in edizione Bemporad uscirà forse contemporaneamente al presente volume, il riscontro è stato fatto per tutte con la recentissima edizione di Tutte le Opere di Dante Alighieri, in un solo volume, stampata dal Barbèra.