Archivio storico italiano, serie 3, volume 12 (1870)/Annunzi bibliografici
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ANNUNZI BIBLIOGRAFICI
Nell’Archivio Storico (4. dispensa, 1869) si è fatto cenno dell’opuscolo: Intorno al passo della Divina Commedia:
«Ma tosto fia, che Padova al palude
Cangerà l’acqua, che Vicenza bagna,
Per essere al voler le genti crude»;
in cui l’erudito prof. Gloria si prova a mostrare come per questi versi del divino Poeta si debba intendere non già l’insanguinarsi delle acque del Bacchiglione, ma lo scavo regolare delle Brentelle. La presente Nota del Lampertico, intesa a confutare la nuova interpretazione per ribadirne l’antica, dimostra da prima «l’esistenza del palude (e palude vastissimo) ne’ luoghi, ove si combatterono i fatti d’arme tra Vicentini e Padovani»; rimuove quindi «i dubbii intorno alle parole usate dall’Alighieri per significare fatti d’arme, combattimenti, stragi»; precisa da ultimo a quali fatti accennino i versi della Divina Commedia. La copia dei documenti, la solidità della dottrina e la precisa indicazione de’ luoghi, ond’è condotto l’intero lavoro, danno troppa ragione agli antichi e moderni commentatori, perchè si possa accettare senz’altro la ingegnosa interpretazione del Gloria.
B. Morsolin.
Ecco un lavoro, piccolo di mole, ma gravido di nobili ed elevati pensieri. A rendere più solenni le esequie del senatore Lodovico Pasini il Municipio di Schio invitava il Cav. Lampertico, perchè ne dicesse le lodi: e il Lampertico con quella dottrina e facondia, che lo pose tanto innanzi nella stima comune, se ne seppe sdebitar da suo pari. I meriti del Pasini così dal lato della scienza come della politica, vi pigliano non un duplice, ma un unico rilievo; cosicché ti si presenta dinanzi agli occhi, quasi vivo e spirante, l’illustre uomo, che tra le pacifiche meditazioni della scienza congiura a quella indipendenza nazionale, di cui fu tanta parte. Ia parola del Lampertico è facile, vibrata, concisa e inspirata a quelle supreme speranze, che per sollevare la mente non lasciano di commuovere il cuore; e fa sorgere negli animi il voto, che uomini, quali il Pasini, possano trovare in ehi gli loda altrettanto valore.
R. Morsolin.
Ci limitiamo a darne un semplice annunzio: notando fin d’ora con piacere che questo primo saggio ci pare condotto con molta diligenza ed acume, così per la critica del testo come per il commento. Le note storiche sono fatte con ben intesa larghezza, in modo da servire non alla semplice dichiarazione d’un passo o d’un vocabolo, ma ad illustrare ampiamente le istituzioni o i fatti citati dal cronista. Citiamo, per esempio, le varie note sulle origini dei guelfi e dei ghibellini; sugli ordinamenti militari della Repubblica di Firenze, a proposito della battaglia di Campaldino; sulle leggi di Giano della Bella contro i grandi, quella, a pag. 6, sulla distanza di Firenze dalle varie città toscane; e quella, a pag. 67, sulle feste annuali dei Fiorentini per calen di maggio. Senz’entrare ora in altre particolarità, ci riserbiamo di parlare: largamente di questa pubblicazione quando sia condotta a termine.
C. P.
La cacciata degli Spagnuoli da Siena nel 1552 è il prim’atto della grande epopea, colla quale si chiuse la storia repubblicana di Siena. Espulso l’ultimo dei Petrucci nel 1524, la città credette d’essere ritornata pienamente libera: tanto che ne’ frontespizi e sulle coperte dei libri pubblici di quei tempi troviamo computati gli anni dopo il 1524, colla formula: ab instaurata libertate anno primo, secundo ec. Ma per tale mutamento di governo essa non aveva conseguito se non una più diretta soggezione all’imperatore, la cui protezione della libertà senese era quasi un’assoluta signoria ch’esercitavasi per mezzo degli oratori cesarei in Roma e in Siena. L’autorità imperiale facevasi sentire sempre e dappertutto: nelle riforme e nell’ordinamento dello Stato, nelle relazioni tra il governo e i vari ordini dei cittadini, e fin anco nell’amministrazione della giustizia. E il popolo subiva e taceva: pure, non bastando a Carlo l’d’averlo moralmente oppresso e svigorito, volle più efficacemente provvedersi contro ogni possibilità di risorgimento repubblicano, fondando in Siena una fortezza presidiata da spagnuoli, che tenesse la città in soggezione Questa senti tutto il peso di tal decreto: sentì che ne’ fondamenti di quella rocca andava a seppellirsi irrevocabilmente la propria indipendenza. E si riscosse: prima con preghiere e suppliche che non valsero; poi con l’insurrezione. Ad aiutare la quale, o più veramente a promuoverla, assai valsero le pratiche tenute da alcuni valenti cittadini con gli agenti di Francia, e le promesse d’aiuto avute da quel re: mercè le quali il popolo senese rincorato seppe per propria virtù fare quello che non avrebbe osato mai il suo debole governo: ribellarsi, cioè, dichiaratamente all’impero, cacciare quindi il presidio spagnuolo, e distruggere con le proprie mani la fortezza.
I fatti sopra accennati sono ampiamente discorsi nell’opuscolo del signor Aquarone (che fa seguito all’altro intitolato Introduzione, annunziato in altro numero di questa Rivista). Senza entrare in considerazioni politiche sui fatti che narra, l’autore, con scrupolosa fedeltà di racconto, mette in chiaro la parte e la responsabilità che spetta a ciascuno: di modo che i lettori possono da per s6 misurare quanto fosse in quel rivolgimento il merito del popolo, quanto gli giovassero le pratiche dei capi cospiratori, quanto l’aiuto di Francia. Avremmo desiderato talvolta una maggiore proprietà nell’uso di certi vocaboli che hanno un valore storico: così non è esatto chiamare la Balìa di Siena Magistrato dei Priori, denominazione che essa non ebbe mai durante la Repubblica; e ci parrebbe anche bene tór via altre espressioni d’un colorito troppo moderno: ma, a parte ciò, il racconto del prof. Aquarone procede chiaro, ordinato, accuratissimo; e riassume utilmente e con savio discernimento quanto è sparso nelle vecchie cronache e nei documenti.
C. P.
È uno di quei libri che rinfrancano l’animo, benchè non sia di quelli che si possan leggere tutti d’un flato, e non abbiano punto le attraenze e i lenocinii dell’arte. Il signor Minieri Riccio non ebbe, per verità, l’intenzione di fare un’opera d’arte; e all’amore per la verità ha sacrificato gli allettamenti d’una lode che pure avrebbe ottenuto, se di proposito avesse preso a descrivere un periodo di storia. Egli si propose di mostrare come un dotto tedesco, il signor Bernhardi (V. Archivio St., Disp. precedente, pag. 169) sprecò ingegno ed erudizione per sentenziare falsa la Cronaca di Matteo Spinelli nota col titolo di Diurnali, e la falsificazione, lavoro di Angiolo Di Costanzo. Agli argomenti e alle prove del signor Bernhardi bisognava rispondere con altri argomenti e con altre prove. In conseguenza il Minieri Riccio s’è per molti mesi inchiodato a un tavolino della sala di studio del grande Archivio di Napoli per rifrustrare tutte le vecchie carte degli ultimi tempi della dominazione Sveva e degli Angioini; ha riletto ed esaminato i Cronisti contemporanei, e quasi direi rifacendo la strada del dotto tedesco, ne ha combattute punto per punto tutte le asserzioni. Annunziando ora questo libro, non presumiamo su due piedi farci giudici nella controversia; e ne lasceremo ad altro tempo e ad altri la cura. Diciamo che gli argomenti e le prove sono di quelle che hanno un gran peso nell’intelletto di chi è studioso del vero, e nell’esame de’ fatti storici non si lascia guidare da un preconcetto: diciamo che la suppellettile dell’erudizione e dei documenti è così abbondante, così ricca, così scelta opportunamente e con sapiente sobrietà, che non solamente serve al fine propostosi dall’autore, ma può essere di largo sussidio all’illustrazione di quel periodo di Storia; diciamo infine, e colla più grande compiacenza, che quando un paese ha eruditi come il Minieri Riccio (nel quale anche i contradittori dovran lodare la garbatezza del gentiluomo) non ha ragione di far tanto querimonie per la sua miseria intellettuale. Frattanto è parso dover nostro non ritardarne l’annunzio agli eruditi a’ quali è nota la controversia. Più espressamente ne parlerà in seguito uno dei nostri collaboratori.
G.
Il Diario di Vincenzo Auria, del quale parlammo altra volta, continua in tutto il volume quinto e in parte del sesto. Chi desideri conoscer bene la vita del popolo siciliano, leggendo queste scritture non affatto disadorne, per esser l’autore persona di molta cultura, trova di che appagare la sua curiosità, perciocchè nella descrizione delle giostre, de’ tornei, e d’altre feste vede gli usi de’ Siciliani, ed impara come vestivano, quali cerimonie erano in vigore, ed anche il linguaggio, direi tecnico, delli spettacoli. Molti nomi delle famiglie nobili di Sicilia vengon fuori, alle quali poco più rimaneva a quei giorni che servire alla volontà de’ padroni Spagnuoli, e che alla servitù pareva si fossero oramai accomodate. Allo sfarzo dei nobili si contrappone la miseria del popolo, che all’Auria, pure aderente alla nobiltà e affezionato al dominio straniero, strappa qualche volta un grido di dolore, come quando descrive la carestia del 1671 e 72, che non può a meno di esclamare contro l’ingordigia de’ ricchi, tenenti il grano nascosto per venderlo più caro: non può nemmeno trattenere un grido contro i dominatori, che dall’isola levavano oro in gran quantità per restituire ferraccio a Palermo che p(>r loro si difendeva contro i Francesi impadronitisi di Messina. Nè la riverenza ai padroni di Madrid gli è d’ostacolo a riconoscere e confessare liberamente che la loro arte di Stato per tenere i popoli soggetti, si fonda sulla massima iniqua divide et impera. Curiosi sono i giudizii sugli uomini che tennero il governo della Sicilia. Ma l’ossequio non gl’impedisce di dare il biasimo a chi gli pare lo abbia meritato, nè di riferire i giudizi popolari che si manifestano talvolta in motti arguti o bisticci, come quando del Vicerè Duca di Sermoneta e del suo Segretario Lopez de Cortes racconta che al primo fu dato il soprannome di Duca di far moneta, al secondo di Lupo di Corte. Le idee del tempo, le dottrine politiche e anche le superstizioni si trovano espresse in questi libri. Di tutto quello che gli sembra notevole e memorabile nulla trascura. Orribile è la descrizione dello spettacolo dato pubblicamente dal Sant’Uffizio quando fece bruciar vivo il frate Diego La Matina, spirito irrequieto e indomabile; non potuto indurre a lasciare le dottrine ereticali; che nel carcere si serve dei ferri della catena per ispezzar la testa a un inquisitore, E a quello spettacolo del Sant’Uffizio assiste il popolo curioso e fanno da comparse i nobili, come altra volta s’ebbe a notare. Anche i fenomeni naturali hanno parte nel racconto, come apparizione di comete, un ecclisse solare che tenne in ispavento le popolazioni, un’eruzione dell’Etna, straripamenti di fiumi, e perfino il soffiar più violento dello scirocco ai Palermitani sempre molesto. Le cerimonie religiose, come la benedizione dei campi per ottenere la fertilità, la benedizione del mare perchè cessi la scarsità delle pescagioni si registrano come fatti degni d’esser ricordati. Non dirò poi delle leste per la canonizzazione di San Pietro d’Alcantara, né dell’esaltazione dello scrittore per qualche religioso morto in odore di santità. Nonostante, siccome vuole esser giusto e veritiero, non può a meno di registrare qualche tratto che dimostri come anche i religiosi non possono non conservare pure nel chiostro tutte le umane passioni. E l’arcivescovo palermitano Giovanni Lozano favorevole a Messina eccita vivamente il suo sdegno. Curioso m’è parso, e in bocca sua, sentir qualificato di gesuitico lo zelo dei Veneziani, che nel 1675, per impedire che i Francesi s’annidassero in Messina, proponevano d’occupar loro quella città.
Le cose comprese nei due volumi V e VI vanno dal 1653 al 1684. Più importanti di tutte sono i successi di Messina, la cui narrazione occupa gran parte del quinto e tutto il sesto: la quale è meglio lumeggiata da documenti che rivelano lo spirito di quella città, che abborre a un tempo dallo stare unita e come soggetta a Palermo, e ora cerca la libertà, ora di mutar padrone, come fece per breve tempo mutando la soggezione alla Spagna in quella alla Francia. La storia di questo avvenimento si ricongiunge colla storia generale d’Italia e d’Europa: però crediamo anche per questo lato molto utile la pubblicazione dell’egregio Di Marzo, a cui l’attenzione del pubblico rivolta ai grandi avvenimenti del tempo nostro non fa impedimento a proseguire un’impresa di cui gli saranno riconoscenti quelli che ne ricaveranno vantaggio per lo studio della storia particolare dell’isola e della storia generale della nazione.
G.
Non v’è storia generale parziale che non registri non racconti con più meno particolari questo tra i più famosi avvenimenti dell’età moderna. Che bisogno c’era dunque di venir fuori con un libro su questo argomento? A una tale domanda, che spesso si suol fare con molta ragione per parecchi libri, chi legge la monografia inglese egregiamente tradotta illustrata e di nuovi documenti arricchita da Tommaso Gar, risponderà, che quando la storia di fatti notissimi ò scritta a questo modo, le umane cognizioni se n’avvantaggiano, percliè sono passi giganteschi per iscoprire la verità che una trista arte di stato o le passioni degli uomini cercano d’occultare di falsare. Lo scrittore inglese (di cui il traduttore non ci ha palesato il nome) non iscelse l’argomento per una. di quelle esercitazioni rettoriche che posson fare ammirare l’abilità dell’artista; ma ebbe il proposito d’interrogare quanto più poteva testimoni per mettere in chiaro, non già i particolari della strage nefanda, ma i lini più occulti, gli autori e gl’istigatori, i complici più meno accusati giustificati dalli scrittori precedenti: e investigando negli archivi d’Europa, esaminando tuttociò che altri hanno detto, e venuto a dimostrarci come l’esterminio degli Ugonotti fu cosa freddamente premeditata e calcolata; e che, se per alcuni fu movente il fanatismo religioso, per altri fu la malvagia politica che in quel secolo prevaleva. La esposizione procede franca, spedita, senza incertezze: non v’è una parola che non sia stata ponderata e non abbia il fondamento in prove e in testimonianze autorevoli. Non ci par di trovare il cattolico nè il protestante che accusa e scusa e difende, ma il giudice imparziale che ha conosciuto intimamamente le persone sulle quali vuol pronunziare la sua sentenza, e i fatti ha esaminati con calma e ponderazione. L’argomentazione apparisce senza le lungaggini fastidiose di chi vuol dire tutto quello che ha pensato, supponendo il lettore disattento o incapace d’esercitare il proprio intelletto. È un bell’esempio insomma del modo come gl’Inglesi esercitano l’arte critica, e di tutte le cose fanno avvertire gli aspetti non considerati prima da altri.
G.Quando Paolo Velluti scriveva (circa il 1560) questa graziosa Cronachetta per continuare la Storia della sua famiglia cominciata dal suo progenitore Donato, non erano gli animi corrotti ancora tanto dalla servitù da esser boriosi di una nobiltà venuta per privilegio per benemerenze non lodevoli per chi sente la umana dignità. Erano vive sempre le tradizioni del tempo in cui il cittadino si gloriava d’aver fatto la roba col lavoro; e di lasciar la famiglia nell’agiatezza mercè le fatiche, i disastrosi viaggi e gli stenti, si compiaceva meglio di quelli che poi trasmettevano un titolo acquistato Dio sa come. Infatti il Velluti racconta d’alcuni de’ suoi, che volendo rimettersi, mutaron paese per cercar fortuna dove all’attività e all’abilità commerciale conservatasi dai Fiorentini pure a’ suoi giorni, c’era più campo che in patria. E mentre rammenta le buone qualità d’alcuni, non tace le taccherelle e gli errori degli altri. Che, si vede bene, egli buttava giù alla buona de’ ricordi che servissero d’ammaestramento ai discendenti. Forse non pensava che un tempo il suo scritto, come quelli di tanti altri, dal santuario della famiglia, a cui lo avrà destinato, sarebbe tratto fuori e messo dinanzi agli occhi del pubblico per appagare la curiosità di chi del passato non si contenta di conoscere gli avvenimenti strepitosi. Credo poi che nella educazione si seguitassero sempre le massime che troviamo nei trattati del Trecento e del Quattrocento, d’indirizzare gli animi cogli esempi non del bene solamente, ma anche dell’errore: cosicchè uno si sarebbe fatto coscienza di dare a persona della sua famiglia una lode non meritata, e anche di tacerne e dissimularne gli sbagli. Ma, lo ripeto, erano ricordi domestici. Noi ci siamo fatti impicciosi, che andiamo a rifrustare gli armadi de’ nostri vecchi, perchè quelle carte che vi stettero lungamente nascoste ci dicano della vita loro e de’ lor tempi quello di cui tacciono le storie. Esentiamo riconoscenza, come ora per l’egregio signor Passerini, per quelli che ci regalano qualcuna di queste scritture, documenti singolari, colla speranza che per gli esempi che gli autori offrivano a pochi, gli uomini tutti imparino le loro virtù, scansando quei falli, da cui ebbe origine la decadenza morale e civile della nazione.
G.
Con gravi argomenti appoggiati a prove di molto valore, il nostro Gaetano Milanesi dimostra che la tavola della Madonna nel celebre tabernacolo d’Or San Michele non ad altri si può attribuire che a Bernardo Daddi, che tra i pittori fiorentini può, dopo Giotto, stimarsi il più insigne del secolo XIV. Di qui prende occasione a dare notizie peregrine sulla vita e sull’opere dell’artista, al quale egli, d’accordo col signor Luigi Passerini, ha creduto doversi attribuire il merito degli affreschi della cappella nel Palazzo del Potestà, dov’è il ritratto di Dante. E con quell’acume di critica che gli è proprio, col senso squisito nelle cose dell’arte, e colle cognizioni acquistate nel frugare le carte degli archivi, toccando altri punti di stona a cui il suo argomento lo richiamava, esamina e rigetta la opinione tradizionale e oramai quasi popolare che la loggia di Or San Michele fosse cominciata da Arnolfo e continuata e compiuta da Taddeo Gaddi.
G.
Quell’amorosa pazienza colla quale Gaetano Milanesi s’adopera a rettificare molti punti nella Storia dell’arte italiana per restituire a chi spetta la gloria di molte opere che formano il patrimonio artistico lasciato dai nostri maggiori, e per correggere tanti giudizi invalsi o per poca diligenza o per difetto di critica, lo conduce pure a ricercare i nomi, la vita e le opere di parecchi artisti che rimangono ignorati, mentre avevan diritto ad essere nell’ammirazione di chi tiene in pregio le manifestazioni del genio. Frutto di tali ricerche sono le scritture che di quando in quando egli da in luce; le quali saranno di grande aiuto per quelli che vorranno scrivere una compiuta stona delle nostre arti belle. Fra queste, dobbiamo ricordare come delle più recenti quella in cui ha raccolto peregrine notizie d’una famiglia d’intagliatori fiorentini, di quelle famiglie in cui l’arte fu ereditaria. Cosi dei Del Tasso sappiamo ora con precisione quello che fecero e quello che valsero; dico con precisione, perchè i fatti hanno l’appoggio di documenti. Per oltre due secoli i Del Tasso lavorarono d’intagliatore in legno in Firenze: e tra i loro lavori s’ammirano anc’oggi i sedili e un leggio nel coro della Badia. Un Giovanbattista, vissuto nella prima metà del cinquecento, fu anche architetto, e fu lui che disegnò nel 1541 la loggia di Mercato Nuovo e sopraintese alla sua costruzione.
G.
Un fratello del Fieschi non era forse la persona da cui il Varchi potesse conoscer tutta la verità sul caso memorabile, per poterlo raccontare nelle sue Storie: ma qualche notizia, qualche causa non a tutti nota, qualche particolare per fondarvi o confermare il suo giudizio ci poteva attingere. E Giulio compiacque alla curiosità dello storico con questa lettera rimasta finora sconosciuta, nella quale non s’avvolge nei laberinti della politica del secolo, ma dice alcune ragioni dello sdegno di Gian Luigi contro la casa Doria signoreggiante, se non di nome, la Repubblica genovese: il non essere stato mantenuto alla casa Fiesca il patto d’un’annua pensione in cambio di dominii ceduti alla Repubblica; un sopruso fatto dai villani soggetti alla repubblica ad altri villani dipendenti feudalmente dalla sua famiglia; e gl’invidiosi sospetti di Giannettino Doria per una famiglia la cui potenza pareva pericolosa alla propria: cagioni che senza dubbio debbono avere avuto una grande elticacia, ma che non si affermerebbe che avrebbero potuto determinar Gian Luigi a quell’azione che gli costò la vita senz’aver fatto alcun bene nè alla Repubblica nè a’ suoi.
G.
L’ambasciatore Senese non ci dice nulla di più di quanto troviamo in tutte le Storie; bene ci mostra in quale concetto fosse tenuto Lorenzo il Magnifico e quanta fosse l’autorità da lui acquistata presso i popoli rivali della potenza di Firenze; i quali la morte immatura di lui considerarono come una pubblica calamità. Siamo d’accordo coll'editore di queste lettere, il nostro valente collaboratore Signor Cesare Paoli, su ciò che afferma intorno al carattere de’ Fiorentini oramai depresso dall’uso di quella specie di servitù, a cui s’andavano accomodando fino dai tempi di Cosimo; le querimonie degli Otto di Balìa ne danno una prova. Ma le cause di questo indebolimento dovrebbero meglio studiarsi, per incolparne non tanto l’astuzia di chi seppe volgere l’arte di stato a proprio vantaggio, nel tempo che l’adoprava per la grandezza dello Stato e per la quiete d’Italia, quanto le vicende che d’una libertà tumultuosa e disordinata, che avevano svogliato una gente a cui piaceva oramai godere in pace e fra gli agi e i divertimenti il frutto della operosità e della parsimonia dei padri e degli avi.
G.
Le più importanti di queste lettere sono le sei indirizzate a Baldassarre Carducci oratore della Repubblica fiorentina in Francia, perchè, essendo scritte nel tempo che il Giannotti era segretario della Signoria, contengono qualche cenno curioso delle cose fiorentine in quei gravi momenti, e, sui negoziati del Carducci col re di Francia che molto prometteva e non fece mai nulla pe’ suoi fedeli alleati. Il Giannotti era intrinseco del Carducci; e ogni volta che doveva scrivergli d’ufficio, v’aggiungeva una lettera particolare per poter meglio dire l’animo suo. Al giovine Del Badia, rammentato altre volte con lode per altre pubblicazioni di documenti, dobbiamo questo mazzetto di lettere, opportunamente e con sobrietà illustrate, che si leggono volentieri, come tutte le scritture del Giannotti. Quando si ristampassero le opere di questo insigne scrittore di cose politiche, le presenti lettere starebbero bene assieme colle altre che già pubblicarono il Polidori nel secondo volume delle Opere (Le Monnier, 1852), Gaetano Milanesi nel giornale Storico degli Archivi Toscani, e Pietro Dazzi nella Strenna del Giornale La Gioventù per l’anno 1861. Sono preziosi ricordi di cosce d’uomini, dettate senza pretensioni, senza paure; e la storia non può fare a meno di giovarsene.
G.
Appartengono queste due relazioni alla storia delle questioni in materia di lingua; e mostrano il progresso che, almeno in questa parte, s’è fatto; perchè le dottrine dell’Accademia son difese con temperanza di forma e con quella urbanità che rispetta gli avversari pur combattendoli. E la difesa dell’Accademia contro le accuse antiche che ognora si rinnovano, è fatta colla dignità di chi ha la coscienza d’attendere a un lavoro utile e decoroso alla nazione. Si può non essere in tutto del parere dell’illustre Segretario: ma è pur forza convenire che le idee sono la conseguenza di studi e di meditazioni che ne richiedono altrettanti per contrapporglisi. Senza rettoricumi, senza quel fastidioso sfarzo accademico che fu un tempo di moda, senza le declamazioni che possono strappare un applauso sul momento, l’autore sa trattenere piacevolmente l’uditorio sopra argomenti che non per tutti hanno attrattiva, e il piacere procurato nel farsi ascoltare colla viva voce continuarlo nella lettura: arte difficile e non comune, che tanto è più bella, lo ripeto, per la eletta semplicità, e per il fare disinvolto e quasi direi casalingo, che mostra come certi modi usuali, saputi adoperare, si convengono alle scritture più gravi, nella maniera che i più insigni scrittori hanno saputo trovare facilità e vivezza trattando materie difficilissime e meno alla portata della comune intelligenza.
Nella commemorazione degli accademici defunti troviamo nomi che la storia politica e letteraria de’ tempi nostri dovrà ricordare, come l’ultimo granduca di Toscana, Leopoldo II, ascritto all’Accademia per benemeranze verso gli studi e Amedeo Peyron: vi troviamo i nomi di due uomini modesti, Giovanni Masselli e Giovanbattista Piccioli, l’uno meglio conosciuto per le note al Vasari, l’altro non da altri rammentato, e forse non lo sarà più, poichè volle piuttosto saper per sè che far vedere che e come sapeva. Principalmente mi piace notare la commemorazione di Brunone Bianchi, predecessore dell’autore nel Segretariato della Crusca; che per l’ingegno vivacissimo, per la molta e svariata dottrina, per una singolare felicità di stile avrebbe potuto primeggiare fra gli scrittori del secolo nostro, se oltre al commento dantesco, alle relazioni accademiche e a brevi scritture, avesse voluto attendere a qualche lavoro di lena.
G.
Lettere di Bernardo Cappello, tratte dagli originali che sono nell’Archivio di Parma. Bologna, presso Gaetano Romagnoli, 1870. Dispensa CVIII della Scelta di curiosità letterarie inedite e rare dal secolo XIII al XVII. Volumetto in 16.mo di pag xix-105.
Il dotto e diligente direttore dell’Archivio parmense, cav. Amadio Ronchini, che poco tempo addietro pubblicò nella medesima collezione bolognese le lettere di Bartolommeo Cavalcanti (V, Arch. St., T. X., P. II., pag. 152-157.) che negli Atti della Deputazione di storia patria per le Provincie dell’Emilia, ha stampato tanti lavori pregiati per accurate ricerche e acume di critica, ha fatto agli studiosi della storia civile e letteraria quest’altro graziosissimo regalo. Le lettere del Cappello le ha illustrate con note opportune, e v’ha premesso una notizia biografica dell’autore breve e sugosa, con quanta erudizione basta all’argomento, e in cui corregge alcuni errori de’ precedenti biografi.
Bernardo Cappello ebbe fama di verseggiatore elegante e di eccellente oratore, meritandosi la lode immortale dell’Ariosto e di Bernardo Tasso. Esule da Venezia sua patria per aver tentato una riforma negli ordini della Repubblica, stette ai servigi del cardinale Alessandro Farnese, che gli affidò il governo di alcune città pontificie e l’amministrazione, per poco tempo, della badia di Caen. Tenne gli uffici con rettitudine. Il suo amore per la giustizia fino al punto di opporsi garbatamente a certe parzialità dei padroni; il senno onde sapeva prevenire e impedire il male ne’ paesi governati; la fermezza e il rigore nel correggere gli abusi, lo mostrano davvero cittadino di quella Repubblica in cui gli uomini delle famiglie statuali s’educavano a governare sapientemente gli stati. In qualcuna di queste lettere descrive le condizioni morali delle città poste sotto la signoria degli ecclesiastici: la quindicesima poi, nella quale deplora il pervertimento morale degli Orvietani, è un’amara condanna di quel governo che tanti mali lasciava crescere e invecchiare, per modo che a’ più destri e più risoluti rettori si rendeva malagevole e pericolosa l’amministrazione.
Pure in mezzo a tanto gravi e spesso fastidiose faccende il Cappello sapeva trovare 11 tempo di scriver versi al suo cardinale, che, sebbene fosse di quelli che tenevano in pregio l’ingegno, pare non gli desse abbastanza per ì bisogni della vita, che egli palesava senza piagnistei, senza la sfacciata servilità d’altri letterati di quei tempi, ma con quella dignità che palesa un animo nobilmente educato. Chi ha piacere anche di raffigurarsi l’uomo nel suo fisico, trova nella lettera xiii un po’ di ritratto, che ce lo fa vedere corpulento, gravaccione e un po’ losco. G.
D’un libro, del quale s’aspetta ancora il seguito e la fine, e che discorre d’avvenimenti contemporanei per cui son vive sempre le passioni, non possiamo che dare un cenno brevissimo. Crediamo che sarà letto con curiosità da chi desidera richiamarsi alla memoria le cose del tempo nostro di cui è stato in parte testimone, o, se molto giovine, quelle di cui vede le conseguenze. Incomincia dall’esporre in compendio, ma con molta chiarezza, le condizioni politiche degli Stati italiani prima del 1850, e le principali vicende per cui venne afforzandosi il concetto dell’unità d’Italia, lumeggiando i meriti del Piemonte verso la nazione. Passa quindi in rassegna le mutazioni successe dopo la guerra, onde le varie Provincie si trovarono concordi per formare un solo Stato sotto lo scettro di Vittorio Emanuele. Di molto profitto ci pare che riescano le molte e particolari notizie sulle condizioni economiche, da cui scende naturalmente la giustificazione dei sacrifizi che la nazione rinnovata ha dovuto e deve sopportare. La ricchezza dei fatti, l’abbondanza delle cifre e i documenti che comprovano il racconto danno a questo libro un’importanza storica da dover esser considerato come un valido sussidio per lo studio di quest’epoca memoranda della storia nazionale.
G.
Cinque di queste lettere sono di Francesco Maria Gianni che fu amico e consigliere del granduca Pietro Leopoldo; e in esse lettere (le quali paiono proprio pittura de’ tempi nostri, tuttochè siano scritte tra il 1802 e il 1808) molto ci sarebbe da imparare, se l’istoria fosse davvero maestra della vita, come avverte l’editore sig. Saverio Scolari; il quale le trasse dalla biblioteca domestica del senatore Rinaldo Ruschi pisano ove parecchie altre del Gianni se ne conservano, che al pari di queste meriterebbero di esser poste alle stampe e illustrate.
Belle sono le tre lettere di Paolo Costa alla Caterina Franceschi Ferrucci, scritte nel 1831 da Corfù dove «era onorato da tutti ed amato». Lieve importanza ha quella di Antonio Canova a Giovan Paolo Schulthesius; anco più lieve quella di Giacomo Leopardi al Resini. E del Leopardi se ne ha poi una alla Franceschi Ferrucci; e con questa si chiude il libriccino presente.
G. S.
Torneremo a parlare di quest’opera tostochè per intiero sia pubblicata per le stampe. Nella prima parte il sig. Falconi descrive i monumenti del lato occidentale del Golfo, cominciando dal promontorio de’ Cappuccini ed estendendosi fino allo scoglio del Tinetto: nella seconda parte descriverà i monumenti del lato orientale del Golfo principiando dal promontorio medesimo e giungendo sino al monastero di S. Croce presso l’imboccatura della Magra.
G. S.
Ben metteva conto che fossero poste alle stampe e illustrate queste lettere di Pietro Giordani a Giuseppe Ligi urbinate; il quale, come ne insegna l’editore, che è Francesco Donati, «fu povero di fortuna, ma ricco d’ingegno, d’umile condizione, ma di sensi nobilissimi». Il Giordani lo conobbe nell’autunno del 1813, e l’amò d’affetto potente; chiaro lo mostrano queste lettere, che sono ricche di dottrina e di senno, e utilissime a leggersi, massime per chi voglia scrivere e pensare da italiano.
G. S.
Questa informazione, non mai fino a qui stampata, è tratta da una copia contemporanea che si trova nel codice 574 della classe XXV de’ mss. Strozziani della Biblioteca Nazionale di Firenze; e che sia opera di messer Piero Parenti si ricava dal Catalogo de’ mss. della Biblioteca stessa. A chi fosse indirizzata non è detto, ma come avverte l’editore «si può da alcuni nomi che vi si leggono e per certi riscontri congetturare che il Parenti inviassela a Filippo di Matteo Strozzi, suo zio materno, che allora stava in Napoli ed è il fondatore del bel palazzo di Firenze».
Con munificenza di re vennero celebrate queste nozze; e la descrizione che ne fa il Parenti riesce molto gustosa a leggersi per le minute particolarità che racconta, parte sulla fede di quanto aveva egli stesso veduto, e parte su quella di Cosimo Bartoli, che delle splendide nozze fu «uno de’ principali governatori, e massime sopra’ confetti». È preceduta da una graziosa letteruccia dell’editore, il quale cerca nascondere il suo nome, ma invano; imperocchè sanno tutti essere egli il Dott. Diomede Bonamici, valente medico e letterato livornese.
G. S.
Carlo Giachery nato in Padova ai 28 di giugno del 1812 moriva ai 31 di agosto del 1865 a Palermo, dove i suoi lo avevano menato fanciullo e dove visse sempre. Studiato che ebbe l’architettura con amore e con frutto nella sua nuova patria ed a Roma, giovanissimo fu chiamato a insegnarla nell’università palermitana, e molto giovò a tenere in fiore le arti cogli esempi e colla parola; imperocchè alla teorica dell’architettura seppe accoppiare la pratica, e molte opere condusse a fine con sapere e con gusto. Di suo a stampa si conosce una Memoria descrittiva della Sicilia e de’ suoi mezzi di comunicazione sino al 1861, edita a Palermo dal Pedone Lauriel.
G. S.
I documenti presenti, dati fuori con amore e illustrati con senno dal sig. Campori, spargono nuova e larga luce sulla vita del Foglietta, imperciocchè svelano ciò che ai biografi di lui restò ignoto, vale a dire le relazioni sue con parecchi de’ Principi che governavano allora l’Italia e che erano delle lettere grandi e benemeriti favoreggiatori.
Col Foglietta fu tra gli altri in carteggio Alberico I di casa Cybo, principe di Carrara e di Massa, il quale sentì con molta consolazione come volesse scrivere de’ fatti di Gio. Luigi Fieschi e di Pier Luigi Farnese, e ricordare pur anco il povero Giulio, fratello suo, crudamente sgozzato da Carlo V. A leggere ciò che di Giulio scriveva al Foglietta il buon Alberico, l’animo si intenerisce. «Alla nostra famiglia ha ben egli lasciato il pianto (così chiude la lettera), ma non già rimordimento d’honore come alcuni maligni e invidiosi s’hanno a pensare, il quale quanto sia luminoso et per lui et per gli andati e per quelli che oggi vivono, il tempo verace dimostratore del vero chiaramente lo farà palese».
Ai 9 di settembre del 1581 un foglio di Avvisi di Roma in questa nuda e meschina maniera annunziava la morte del nostro Uberto, avvenuta ai 5 del mese stesso: «È morto monsignor Foglietta, genovese, referendario di ambe le segnature, historico de’ nostri tempi e famigliare del signor Cardinale d’Este, havendo lasciato herede delle sue scritture e dello studio il Cardinale Giustiniano suo compatriota». Un mezzo sacco di quelle scritture rimasero presso gli Estensi, e il cardinal Giustiniano per quante pratiche facesse non le potè avere. Le videro il Mureto e il Manzuolo e dissero «che non vi era se non diversi pezzi d’historia et tutto imperfetto, ma che si parlava assai male della Corte di Francia et massime della Regina madre». Sembra ancora che il Foglietta in quelle carte non si mostrasse tanto amorevole alla serenissima casa d’Este, e questa fu la cagione vera per la quale sempre vennero negate all’erede. Pare probabile, ed è grave danno, che andassero perdute; e infatti, come afferma il signor Campori, «l’archivio e le librerie che furono estensi non conservano pur un sol foglio originale dell’illustre storico genovese».
Gio. Sforza.
Studi di Storia Siciliana di Isidoro La Lumia.
Palermo, 1870. Vol. 2, di pag. 694 e 590.
In questi due volumi stanno raccolte parecchie monografie storiche, già divulgate dal La Lumia in diversi luoghi e tempi; e come il chiaro autore aveva proceduto fin da principio nelle sue investigazioni con un concetto, così ora gli è stato facile col solo ordinare cronologicamente gli argomenti già trattati, di presentare ai lettori, quasi dipinti a grandi quadri, i periodi principali della storia sicula. Ed infatti il bello ed accuratissimo studio sul regno di Guglielmo il Buono, ci rappresenta la conquista Normanna in tutti i suoi effetti politici e sociali; quello su Matteo Palizzi e l’altro sui Quattro Vicari, la signoria aragonese; quello pienissimo sopra Carlo V imperatore, i cominciamenti della dominazione Spagnuola; la quale negli studi speciali sopra 11 Duca d’Ossuna, sui Tumulti di Palermo del 1647, e sopra Domenico Caracciolo si vede applicata nel lungo governo vicerale. Come ognun può intendere, riempiendo poche lacune, di questi due olumi si farebbe agevolmente una compiuta storia della Sicilia dai Normanni a tutto il secolo XVIII che sarebbe accettissima agli studiosi del continente, i quali delle cose sicule, sanno poco più di quello che si apprende nelle storie generali d’Italia. E questo ci auguriamo che voglia fare quandochè sia l’autore stesso di questi studi, poichè a lui che ha già fornito buona parte del cammino, sarebbe facile toccare la meta; sebbene per quanto dice nella prefazione, sembra che voglia tenersi contento di avere rimosso gli ostacoli e spianato le difficoltà; acciò altri più ardito si accinga all’opera.
Se storia c’è che abbia del drammatico e del poetico, tanto nella parte antica quanto nella medioevale, quella di Sicilia non cede sicuramente ad alcun’altra. Dalle più splendid.e tradizioni della mitologia greca, alle prime ispirazioni della poesìa italiana; dalle cavalleresche invasioni Normanne al truce dominio spagnuolo; dai Cartaginesi agli Arabi; da Dionigi a Verre; da Archimede a Federigo II; da Teocrito al Meli; alla storia della Sicilia s’apre questo campo vastissimo, il quale se ha di che sgomentare un erudito, ha in complesso di che esaltare chiunque serba nel cuore il culto delle grandi memorie. L’autore di questi studi mostra bene d’intendere tutta l’ampiezza del suo tema, e gli argomenti speciali che egli tratta, sono lumeggiati da una perfetta cognizione di tutto il processo storico della vita fortunosa di quel popolo, che egli vuol rappresentarci in alcuni dei suoi più singolari periodi. Lo stile prende colore dalle cose narrate, s’accende nel fuoco delle passioni da cui scaturiscono i fatti, s’aiuta delle particolarità più minute per ricostruire nella sua verità un passato che spesso mal si crederebbe possibile.
La vita dei popoli insulari per sua natura si svolge ristretta nei confini segnati dal mare alla terra; ed anche le cause esteriori che la modificano, appena incominciano ad agire, diventano fatti interni che hanno un particolare svolgimento, con pochi legami al di fuori. La storia di Sicilia è pur essa dominata da questa condizione geografica; e sebbene vi ripercuotano gli avvenimenti più capitali della storia nazionale, pure vi prendono atteggiamento loro proprio, e costituiscono altrettanti fatti staccati che danno ragione di sè stessi. L’autore ha sentito anche troppo questa proprietà del suo argomento, e tutto concentrato nella sua isola, poco si è curato di rilegarne la storia a quella del continente Italiano. I suoi affetti sono tutti per la sua gente, i suoi giudizi non vanno oltre al bene o al male che a lei derivò dai fatti narrati. Nè vogliamo opporgli questo sentimento esclusivo corno difetto dei suoi studi storici, quando può essere scusato e forse anche giustificato dall’argomento, che si allarga e prende importanza più che municipale, e dalla venerazione amorosa per un passato glorioso di cui la Sicilia giustamente si onora. Ciò nondimeno siccome anche le glorie e le sventure dell’isola, sono glorie e sventure italiane, non sarebbe male che lo storico le riconnettesse quando occorre alla grande storia nazionale.
Per non ritardare soverchiamente l’annunzio di un’opera storica, condotta con acutezza di critica, rettitudine di giudizi ed eleganza di dettato, ci contentiamo per ora di questo breve cenno degli Studi Storici del La Lumia, promettendo di tornarci sopra con più pensato discorso. Intanto vorremmo che questi due volumi avessero molti lettori, ed affidiamo chi crede alle nostre parole . che da essi tanto s’impara di fatti reconditi o mal noti, quanto si ricava diletto per una esposizione accurata e colorita, e del migliore stampo italiano che diano le lettere odierne.
M. T.
Storia dell’Isola di Cipro, narrata da Romualdo Cannonero;
Parte Prima. Imola, 1870.
La civiltà all’Europa venne specialmente e primamente dall’Egitto e dalla Fenicia, per le vie del Mediterraneo, e trovò ordinatamente varie stazioni: pria Cipro distante novanta chilometri dalle coste di Tiro, indi Rodi, Candia, la Sicilia. Però la civiltà in queste isole è più antica che ne’ continenti, e la loro storia vetusta è molto importante, segnatamente quella della prima stazione, Cipro, che dopo la Sicilia e la Sardegna, è la maggiore del Mediterraneo, che ha il piano Massaria uno de’ più feraci del mondo, ed un clima tanto salubre, che Stefano Lusignano nella seconda metà del secolo XVI scriveva avervi conosciuti taluni oltrepassanti l’età d’un secolo. La vite, che venne dal Caucaso e dalla Palestina, in Cipro trovò terreno e clima si acconci, da giungere a tanto sviluppo che, come scrisse Plinio, con un sol tronco di vite di Cipro si fece la scala salente al sommo del tempio di Diana in Efeso. Il Cannonero si compiace a descrivere le ricchezze e le bellezze antiche di quell’isola, che diede copioso legname ai Fenici pel famoso naviglio. Ma stimiamo vada errato quando vi fa sorgere limoni ed aranci, che devono esservi stati recati più tardi, e dopo le conquiste d’Alessandro. All’occidente l’isola di Cipro fu specialmente conosciuta pel suo rame, che fu il primo noto all’Europa, onde dal nome di quell’isola il rame si disse cuprum dai Latini, kupfer dai Tedeschi, copper dagl’Inglesi, cobar dagli Spagnuoli, koppar dagli Svedesi.
Il Cannonero è amico e corrispondente di quel generale Luigi Palma Conte di Cesnola, che in America meritò d’essere incaricato di rappresentare a Cipro gli Stati Uniti, e che pure nel 1870 fece rilevantissime scoperte di opere greche e fenicie ad Idalia ed a Golgos in quell’isola. Per questi fatti potevasi argomentare d’avere da lui una peregrina e dotta monografia storica di quell’isola favolosa; ma egli pensò più al popolo che ai dotti, e ci offri un volumetto grazioso che non trascura le autorità classiche, ma che non si giova de’ più larghi studi recenti, quali specialmente gli acuti di Movers sui Fenici e su Cipro, di Preller sulla mitologia greca, di Luynes sulle iscrizioni cipriote, di Layard sulla Venere orientale.
Le genti civili delle coste cananee ed egiziane si gettarono al mare per cercare asilo nelle isole più prossime e felici, per le azioni e reazioni degli Haiks od Hyksos dall’Asia, dall’Egitto, e da questo alla Mesopotamia, rammentate nelle tradizioni di Bacco e d’Osiride, di Abramo e Mosè. Luynes trovò a Cipro monete con leggende simili per lingua e scrittura alle cartaginesi ed a quelle di Tiro, e vi lesse ora kitti ora chitti appellativo non solo degli antichi Ciprioti venuti dall’Asia, ma anche d’altri cananei o fenici. Infatti Epifanio chiama kitti anche que’ di Rodi (κίτιοι γάρ κύπριοι καί Ῥόδιοι), Tolomeo trova un ketis nella Cilicia, e Diogene Laerzio nella vita di Zenone il fondatore della scuola stoica, che era nato a Cipro, dice che Citii (ϲκιτιεῖς) erano anche a Sidone. Servio, lo Scoliaste di Diogene Periergete ed Apollodoro, accennano anche a tradizioni d’immigrazioni a Cipro dall’Egitto, e la memoria della popolazione primitiva dell’isola, dι origini ignote, serbossi ad Amatha, città che Stefano Bizantino chiama antichissima (ἀρχαιοτάτη), e gli abitanti della quale Scilaee dice autoctoni (αὐτοχτονές εἰσι). I vari nomi corografici simili tra la Cilicia e Cipro, dimostrano che fu passaggio di colonie dall’una all’altra terra. Di là devono anche essere venuti que’ Teucri che fondarono Salamina in Cipro, e che diedero il nome di Salamina anche all’isola nel golfo d’Atene. Cipro diventò famosa pure pel culto speciale della sua Venere Cipria. Aphrodite, che i Ciprii facevano venire da Ascalona, alla quale in Pafo sacrificavasi senza sangue, e si dava per simbolo anche il pavone, e ad Amatha s’accompagnava ad Adone. Tutto ciò fece argomentare a Preller che il culto d’Afrodite viene indubbiamente da popoli siri, fenici e cananei (imbezweifelt phonicische). Essa come a Guido ed Erice nella Sicilia, prediligeva anche le cime de’ monti, era Ἀκραία. Anche Belo, Kynira, Pygmalione, Osiride, Urania collegano l’Asia a Cipro.
Come Zacinto si disse dai giacinti, Rodi dalie rose, il Cannonero col Porcacci opina che Cipro traesse nome dalla pianta odorosissima cipro, che ivi cresce copiosa e bella. Il profeta Ezechiele disse che i Sirii aveano barche di abete delle isole de’ Citii. E infatti Cipro fu lungamente la fonte del legname de’ Fenici, e ne andò denudata. Le colonie fenicie accentrate a varie città si ordinarono in piccoli Stati, alla guisa della Fenicia, dell’antica Grecia. Quando li Assirii, vinto Creso, si stesero sulle coste e poi sulle isole prossime, anche l’indipendenza di Cipro cessò. Gli Assiri, dice Erodoto, trasportarono a Pafo una colonia di Etiopi (Arabi). Poi i Persiani soverchiarono li Assiri e trassero seco contro i Greci anche il navile di Cipro, la quale nella reazione ebbe pure colonie greche a Curio, a Colgo, a Neupafo, a Lupato.
Cipro, nella maggior floridezza, dice l’A., fu divisa in nove regni: a settentrione Lapeto, Ceraunia, Epea; a mezzodì Cizio, Amatunta; a ponente Pafo e Curio; a oriente Salamina; nel centro Chitri vicino a Ledra, che poi col nome di Nicosia, fu capitale del regno de’ Lusignani.
Il nostro scrittore ne racconta come i Ciprii ungevano i cadaveri di miele, li intonacavano di cera, e li collocavano ritti in alcune caverne dove si conservavano; caverne che ora si dicono sepolcri de’ gentili. Fra le navi speciali de’ Ciprii ebbero nome i cerciori da κέραος - coda alla quale somigliavano. L’estetica non corrispondeva alla valentia nelle arti marinaresche, giacchè i loro idoletti antichi recati a Parigi da Mas Latrie, ed anche scoperti da Palma, sono assai rozzi, onde si vuole argomentare che quell’isola non fu animata dal soffio fecondatore delle libertà democratiche, ma che si tenne legata al rito sacerdotale ed aristocratico fenicio.
Il Connonero segue Cipro che è nel 550 a. C. costretta a pagare tributo ad Amasi re egiziano, indi che preferisce Cambise persiano agli Egiziani. I Persiani stavano lungi, ed aveano bisogno dell’inimicizia di Cipro contro l’Egitto e la Grecia, onde le lasciarono libertà, per la quale Cipro rifiorì, e segnatamente Salamina per gli spinti greci della quale l’isola insorse secondando gli Ionii dell’Asia; ma Dario dopo fieri combattimenti la sottopose, e la diede al governo del re Gorgo che condusse poi contro Temistocle cento cinquanta navi lunghe di Cipro. Ma poscia, prevalsi i Greci, Pausania e Cimone liberarono dai Persiani anche Cipro.
Negli anni della ricuperata libertà, il re Evagora fece rifiorire Salamina, e prestò soccorso a Conone ateniese contro i Lacedemoni (a. 394 a. C). Il regno d’Evagora, dice l’A., è forse la più splendida pagina del regno di Cipro. E da Isocrate cerca i tratti più salienti di questo re illuminato, che non valse però a rialzare la potenza della sua isola. Quelle costituzioni democratiche e quei perseverante principio di federazione che provocarono il miracoloso sviluppo delle città greche nell’Asia e nell’Europa, e nel medio evo quello delle città italiane, che ne sembrano copia, pare sia sempre mancato alle città di Cipro, per la prevalenza dell’elemento aristocratico fenicio, quell’elemento che impedì alle colonie fenicie nella Grecia, nella Sicilia, nella Spagna di svilupparsi e di propagare il linguaggio semitico. L’Etruria che sa di semitico, ad onta della miscela dell’elemento pelasgo, rimase pure rituale, e solinga vi si serbò la speciale favella. Noi speriamo che per le scoperte di Palma si possano aumentare così i documenti di confronto tra Cipro e l’Etruria, che qualche acuto ingegno ne tragga responsi.
Il nostro scrittore, raccontato come Cipro ricadde ai Persiani sotto Artaserse, mostra che vinto Dario da Alessandro, i Ciprioti prestarono a questo navi ed attrezzi per la espugnazione di Tiro. E poscia gli arredarono le navi fatte costruire a Lampsaco coi cedri del Libano, e gli fornirono i migliori artefici per le costruzioni del naviglio nei fiumi dell’Assiria e dell’India.
Noi rinunciamo a seguire lo scrittore nel laberinto dell’immorale dominio de’ re dell’Egitto successori d’Alessandro, ai quali fu assegnata l’isola, la cui storia di quel tempo ha poco interesse generale. I Romani, che per le speciali loro costituzioni militari e sociali erano spinti a dilatare i dominii colle guerre, come, vinta Cartagine e Corinto, vennero nelle acque di Cipro, trovarono occasione di imdronirsene, e vi spedirono Marco Porcio Catone. Il quale, venduti i tesori regi di Cipro, portò a Roma l’ingente somma di settemila talenti, e Cipro fu ridotta a provincia (a. 57 a. C.), della quale cinque anni dopo prese il governo M. Tullio Cicerone che liberò Salamina da spietati usurai romani che l’aveano preceduto.
Fenici ed Ebrei rimasero sempre in quest’isola tanto opportuna ai traffici, e ricca di cose peregrine. Barnaba compagno di S. Paolo era un ebreo di Cipro, che venne poi in patria lapidato dai suoi, che sotto Traiano sollevatisi nell’isola fecero stragi di Romani e di abitanti d’altre nazioni assenzienti ai Romani, ma vennero poi vinti e sterminati. D’allora in poi Cipro, dice l’A., rimane per più secoli dimenticata dalla storia. Solo vi emergono i prodigi che vi operò S. Elena, la leggendaria madre di Costantino, che vi portò la croce del buon ladrone.
Così giunge la storia di Cipro al medio evo, cinta da molta caligine, onde noi ripetiamo le parole del Cannonero «gran danno che di questa bell’isola, celebrata da tutti i poeti dell’antichità, visitata da tutte le navi del mondo, calcata da tutti i dominatori del mare, non sieno rimase che poche e slegate memorie». Onde sappiamo grado a lui che abbia assunto l’ingrata fatica di esporci ordinatamente e graziosamente quello che si può sapere della storia oscura di tanta isola, e confidiamo che nelle parti successive vorrà dirci qualche cosa di quanto si può cavare dallo studio degli oggetti che Palma in questi ultimi quattro anni vi rinvenne nelle ottomila e più tombe che già egli vi dissotterrò.
G. Rosa.
Opere Storico-numismatiche di Carlo Morbio. Bologna, Romagnoli, 1870.
Chi fra gli studiosi della storia ignora il nome di Carlo Morbio da Novara, stabilito a Milano, autore di sei volumi di Storie dei Municipi italiani? Chi a Milano cerca monumenti storici ed artistici, non solo si volge alle biblioteche di Roma, all’Ambrosiana, alla raccolta Trivulzio, all’Archivio di San Fedele, ma alla raccolta di Carlo Morbio. Il quale colla operosità instancabile e sagace, che solo può dare l’entusiasmo inesausto della scienza, quello che produsse le maraviglie di Magliabechi, di Cicogna, di Libri, di Campana, da molti anni aduna monete, sigilli, pergamene, edizioni rare, capi d’arte, vasi, col sussidio de’ quali monumenti e degli studi correlativi già preparò altri tre notevoli lavori storici Le Monete Franco-italiche da Carlo Magno a Napoleone I con 39 tavole; I Monumenti Longobardi con 16 tavole. Ed il volume delle Opere Storico-numismatiche edito a Bologna dal diligentissimo Romagnoli, di 570 pagine in 8vo con due tavole.
È una miniera di notizie delle ricche raccolte sue e d’altri, e di illustrazioni di fatti storici che viene facendo con scrupolosa prudenza, mano mano svolge le materie de’ suoi musei. Esponendo le monete ossidionali descrive minutamente, sulla fede d’una cronaca contemporanea, il famoso assedio di Novara del 1499, quando rimase prigione Lodovico il Moro, e, contro Promis, mostra che in quello si coniò anche una moneta di rame. Fra le castrensi descrive quelle in onore di G. G. Triulzi del 1499. Mantova ebbe massima copia di monete ossidionali, e dieci ne ha Morbio, ed illustra queste, ed alcune dalmate, ed una di Palmanova.
È notevole la di lui valutazione della lira d’argento di Carlo Magno, ed il rapporto che ne calcola colla lira tornese. Descrive purele poche monete d’oro di Carlo Magno, e col severo Conte Maluzzani restituisce a Carlo Magno il denaro col Mediolanum.
Fra le cose rare che possiede e descrive si notano: Un centinaio di lettere segrete a Federico II Gonzaga relative all’assedio di Firenze del 1530; Sigilli lombardi di preture feudali; Monete ossidionali in cuoio, monumenti numismatici della peste di Milano del 1630, moneta e medaglie cabalistiche e magiche.
Il Morbio si occupò con predilezione di monete, ed il di lui medagliere ordinato per tempi e regioni, è ricchissimo e raro. Con quello e coi viaggi e coi consigli di Maluzzani, Zardetti, Cavedoni, Lopez, San Quintino, Schweitzer, fa monogratìa storica delle zecche italiane, togliendo parecchi errori, adducendo fatti nuovi.
Nel Museo che ci schiude, noi troviamo terrecotte, vetri, piombi, bronzi antichi, cristiani e bizantini, capi d’arte del medio evo e del rinascimento. Fra i dipinti che ci sono, più ammirabile per rarità è una tavola di Antonello da Messina l’introduttore in Italia dell’arte di dipingere a olio. Questa tavola del Morbio ha la firma dell’artista e parecchie figure. Ove si pensi che una mezza figura di Antonello fu pagata nel 1865 pel Louvre L. 113,500, si comprenderà il pregio di questa. Le fanno corona dipinti di Taddeo Gaddi, di Giotto, del Moretto, del Borgognone. Fra gli intagli vi spicca un grande scrigno di quercia del secolo XVI che era de’ frati di Chiaravalle.
L’autore delle Storie de’ Municipi italiani dovea avere grande copia ed eletta di libri e diplomi e statuti. Infatti qui descrivendo la biblioteca sua, dice che possiede alcune migliaia di storie italiane, e carte geografiche de’ secoli XV e XVI. Mostra un Dante pubblicato a Firenze dal Della Magna nel 1481 colle stupende miniature di Gaetano Speluzzi. Nella biblioteca accolse pure alcune migliaia di stampe classiche antiche, mappe ed illustrazioni militari ammirate dal Maresciallo Vaillant nel 1859, autografi preziosi, tra i quali lettere di Napoleone I. Descrivendo questa raccolta toglie argomento a dimostrare che le carte da giuoco vennero dagli Arabi, che erano simboliche, che dagli Spagnuoli dicevansi naibi, parola, che nelle lingue semitiche vale astrologia.
Di pergamene ne ha alcune migliaia dal 910 al 1500. Possiede anche tre papiri egiziani, e diede un papiro ravennate del VI o del VII secolo all’Archivio di S. Fedele. La dotta Germania vi è attirata specialmente da lettere del re Enzo, da Vercelli, del 1243, onde l’insigne storico Raumer disse lodi dell’Archivio del Morbio. Del quale sono pure quelle due notevoli lettere del prete Giuseppe Ripamonti che diede al Manzoni l’argomento ai Promessi Sposi, quelle lettere che testè pubblicò Tullio Dandolo amico del Morbio, e che egli qui riproduce, per mostrare che il Cardinale Federico Borromeo imprigionò quel buon prete per gelosia.
Nel 1819 il Manzoni produsse alla censura la copia della sua tragedia il Carmagnola; e fu mutilata. Quella copia integra sta ora nella raccolta del Morbio, il quale ha pure una copia del Tresor di Brunetto Latini come fu dettato prima in francese, con disegni a penna.
Queste cose rare sono arricchite da Statuti, Storie arcane, da venti dispacci della Cancelleria Aulica di Vienna al Principe Eugenio di Savoia, che non sono ancora aperti, e da dodici lettere dell’imperatore d’Austria pure non aperte ancora.
Il Morbio conchiude questo suo tesoro di notizie ed illustrazioni con dissertazioni su Fra Dolcino di Ossola contemporaneo di Dante, e sul patriarca degli eruditi italiani Lodovico Antonio Muratori.
Tanta modestia; laboriosità, perseveranza in tempi di studi tanto affrettati e vaporosi, merita molta riconoscenza dagli uomini savii nelle cui acque brama riparare la stanca nave il Morbio. Egli ne richiama vivamente alla memoria l’avvocato Gaetano De Minicis che ora a Fermo tocca all’ottantesimo anno, quello che testè pubblicò le Cronache di Fermo, e che nella sua casa in Fermo adunò un tesoro di storie municipali dell’Italia centrale, di manoscritti, ed un Museo aperto da squisito dipinto di Gentile da Fabriano, e ricco di cose rare etrusche, sabine, romane e del medio evo.
G. Rosa.
Topografia di Bergamo dei secoli IX e X. Di Angelo Mazzi.
Bergamo, Pagnoncelli, 1870.
Bergamo, la città de’ montanari, serba tenacità non solo nei lavori industriali, ma nelle fatiche intellettuali. Le di lei tradizioni di studi perseveranti che formarono Barsiza, Calepino, Lupi, Tiraboschi, Mai ed Angelo Mazzi che per studii pazienti e disameni pigliano a penetrare nelle intime viscere di quistioni storiche intricatissime.
La vanità dei nepoti, e la fantasia del popolo ovunque ingrandirono assai le origini della città, ed è frequente la ripetizione di popolazioni ai tempi romani e nel medio evo maggiori delle attuali e di vaste distese di abitati, in luoghi suburbani occupati ora solo da solinghe villeggiature. Questi errori si tolgono fissando coi monumenti e coi documenti precisamente la topografia. Come fece il Reumont per Roma, il Promis per Torino, e l’Odorici per Brescia, e come ora stabili Angelo Mazzi per Bergamo, con quella scrupolosa diligenza, della quale ora è maestra la Germania.
Brescia, Milano, Firenze ebbero quattro cerchie successive. Cosi accadde di Bergamo. Ma se di Brescia centro de’ Cenomani (caput Cenomanorum), e quindi molto ricca di cose romane, si poterono trovare segni della cinta romana, ciò non sarebbe possibile più a Bergamo, dove solo stanno i segni del Campidoglio e dell’Arena. Onde il Mazzi, a procedere sicuramente e non mettere piede in fallo, tolse a piantare i segni topografici ne’ secoli più bui del medio evo. Quando già erano le cattedrali, le basiliche, le pievi, i monasteri benedettini, i senodochi, le canoniche, le torri romane restaurate, che determinarono poi le successive trasformazioni, e dai quali si ponno misurare gli ulteriori ampliamenti. Da questi capisaldi appare come il nucleo cittadino di Bergamo dovesse essere piccola cosa pure ai tempi romani e longobardi.
Il Mazzi sale anche alle origini del nome Bergamo; ma qui, mancando della fida scorta de’ documenti, incespica. Riconosce che Bergamo prima chiamavasi Parra, ma attribuisce tal nome ad uccello auspicale, e s’industria a provare che prima del mille questa città generalmente si diceva Bergamum, non Bergamom. Noi qui stimiamo necessario di ripetere alcune osservazioni.
Nelle edizioni di Plinio al luogo ove riporta Catone, si legge variamente Parra e Bara, ed i nomi di paesi bergamaschi Par e Barià, e la Fara a Bergamo ci indicano che questa prima stazione sul monte si pronunciò variamente. I popoli di varie lingue spesso traducendo il significato di un nome di luogo parvero mutarlo. I Siciliani chiamarono monte per eccellenza l’Etna, ciò che agli Arabi è gibel (onde Gibil-terra), onde unendo all’originale la traduzione, dissero Mon-gibello. La corte ai Magiari è Buda, ai Tedeschi Hofen, onde i Tedeschi, occupata l’Ungheria, chiamarono Hofen Buda. Bara è voce ària significante altura che porta, e Berg-hem ne è traduzione teutonica, giacchè i Cenomani erano isola germanica nella Gallia. Da berb-monte, e da hom, hem, haim-siazione, abitazione, si compose quel nome, che pronunciasi ancora variamente Berghem all’oriente dell’Adda, Bergom all’occidente, Bergamo al mezzodì del Po, dove anche si dicono marinaio, calzolaio, beccaio, quelli che nella Lombardia si chiamano mariner, calzoler, becher. Onde non è maraviglia se i Greci scrissero Bergon, Bergomos questa città che negli scrittori latini è Bergomum, e Bergamum.
Come Roma si disse disposta su sette colli, Bergamo pure sul monte alla guisa di Fiesole, di Perugia, di Fermo, era disposta su tre gobbe (grummis trinis, scrisse Moyse), detti gromi, grumelli: il Campidoglio ora rôcca, l’Arena ora seminario, ed il sito dell’attuale Liceo. E fra questi intorno il mille, secondo il Muzio, era uno stagno con cannucce nell’attuale piazza Garibaldi. Nelle monete di Bergamo, battute sotto Federico II, spiccano i tre colli.
A rendere più evidente la laboriosa topografia, il Mazzi unì al libro suo una carta ove è disegnata diligentemente. Noi non troviamo alcuna cosa a rettificare in questa coscienziosa rassegna di documenti, in queste determinazioni minute di siti. Crediamo che il valente giovane abbia voluto con questo lavoro stabilirsi una base sicura per la storia di Bergamo, ed addestrarsi a voli più alti.
Oramai si è tanto adunato e preparato per la storia di questa città montana che una buona storia di essa rispondente ai concetti della fine del secolo XIX non sarà difficile, nè si farà attendere molto. Se non che corre grande tratto dalla preparazione de’ materiali, alla costruzione artistica del monumento storico. Ma Bergamo è anche la città dell’arte squisita.
G. Rosa.
Ai brevi cenni sulle relazioni commerciali dei Fiorentini colla Spagna, l’autore, che è il cav. Zobi, accompagna ventisei documenti, quasi tutti dispacci del barone Nero Maria Del Nero, che fu ministro di Toscana presso la corte di Madrid dal 1709 al 1715, al senatore Panciatichi. Si riferiscono alle difficoltà che il governo di Filippo l’oppose al commercio degl’Italiani ne’ suoi stati, istigato, a quanto pare, dalla Francia per gl’interessi propri. Nel 1709 il re Filippo proibiva a tutti i mercanti stranieri di commerciare nei porti della monarchia, ed assegnò a quelli che vi dimoravano un termine perentorio ad abbandonare lo Stato. Gli effetti di questa deliberazione furono mitigati a favore d’alcuni, a condizione che pagassero una tassa proporzionale dalle 50 alle 200 doppie: poi ai Cambi ed ai Cantucci fiorentini, che erano fra’ principali commercianti, fu fatto intendere che sarebbero mantenuti nei loro traffici in Madrid, quando avessero fornito al regio erario una certa somma.
In seguito ai Cantucci fu chiesto un imprestito di mille doppie; al quale essendosi virilmente opposto il primo ministro della ragione, Geremia Firidolfi, questi fu soggetto a vessazioni. Se ne dovè naturalmente interessare l’ambasciatore Del Nero; che nei dispacci ora pubblicati informa il suo governo dell’andamento di questa faccenda.
G.
Sono un altro bel mazzo dei proverbi latini che il Vannucci raccoglie nelli scrittori, confrontandoli con quelli di altre lingue. A poco a poco l’illustre storico di Roma si trova ad aver formato un bel libro, che oltre agl’insegnamenti morali, racchiude una gran parte della storia dello spirito umano.
G.
La Nuova Antologia. (Fascicoli dal settembre 1870 al gennaio 1870).
Varie scritture concernenti alla storia abbiamo da notare negl’indicati fascicoli di questa Rivista.- Celestino Bianchi ha narrato con molti particolari e con documenti nuovi o degni d’essere richiamati a memoria, le vicende della Questione romana (Fascicoli di Settembre e Ottobre). E l’ultima spedizione per l’occupazione di Roma è soggetto d’una narrazione di Giuseppe Guerzoni (Novembre). Il senatore Scialoia ha continuato (Dicembre) a dimostrare da insigne economista le condizioni mutate della città di Napoli. Un altro insigne economista, il signor Francesco Ferrara, prendendo occasione dall’opera del dott. Lattes: «La libertà delle banche a Venezia dal secolo XIII al XVII, secondo i documenti inediti del R. Archivio de’ Frari» discorre sui banchi di Venezia colla dottrina e l’acume che gli son propri (Gennaio). In quello stesso fascicolo del Gennaio troviamo un dotto articolo del nostro collaboratore Francesco Bertolini: «La critica moderna sulla storia critica di Roma. Degno pure di considerazione ci sembra l’articolo del signor Luigi Pigorini (Ottobre), in cui, con molta e varia erudizione trattando delle epoche preistoriche in Italia, discorre particolarmente dell’Epoca del bronzo nelle terremare dell’Emilia.- Per la storia letteraria si è letta con curiosità e diletto la continuazione dello scritto del signor Giosuè Carducci «Musica e Poesia nel mondo elegante italiano nel secolo XIV (Settembre), e due saggi biografici e critici, uno di Raffaello Fornaciari su Franco Sacchetti (Ottobre); l’altro su Pietro Aretino, di Francesco De Sanctis (Novembre). Nè si è trascurata la storia dell’arte; che oltre allo scritto di Gaetano Milanesi (di cui abbiamo innanzi parlato in particolare), nel fascicolo di Novembre era un articolo di Cesare Stiavelli sul duomo di Siena. Benchè non appartenga alla storia italiana lo scritto di Michele Amari «I primordi dell’islamismo secondo i più recenti critici (Dicembre), vogliamo notarlo per l’importanza delle ricerche e delle vedute, per l’acume della critica e per la nitida ed elegante esposizione. E sembra finalmente di non dover tacere delli scritti del signor Carlo Corsi sulle vicende della guerra tra Francia e Germania; i quali (lasciando stare il merito scientifico che a noi non appartiene giudicare) rivelano un elegante scrittore di cose militari.
Contengono questi fascicoli per lo più scritti fllosofici, tra’ quali vogliamo ricordare particolarmente gli Appunti di Filosofia Politica di Terenzio Mamiani e il giudizio del medesimo sull’introduzione alla filosofia della storia del prof. Vera. Ci pare che questo periodico si mantenga in quella elevatezza di propositi, co’ quali l’illustre fondatore vuole adoperarsi a rialzare in Italia gli studi severi e a preparare quella cultura, per cui le nazioni acquistano grandezza vera. Egli ha valenti cooperatori in F. M. Bertini, G. Barzellotti, F. Bonatelli, L. Ferri, C. Labanca e in altri cultori dei buoni studi.