Arcadia (Sannazaro)/Prosa XI
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ARGOMENTO
Spende alcune parole in lodar Napoli sua patria; e poi, a imitazion di Virgilio nel quinto dell’Eneida, fa che Ergasto propone premj a chi in onor di Massilia riporterà vittoria de’ giuochi, ch’essi fanno.
prosa undecima.
Se le lunghe rime di Fronimo, e di Selvaggio porsero universalmente diletto a ciascuno della nostra brigata, non è da intendere. A me veramente, oltra al piacere grandissimo, commossero per forza le lacrime, vedendo sì ben ragionare dell’amenissimo sito del mio paese. Che già, mentre quelli versi durarono, mi parea fermamente essere nel bello e lieto piano, che colui dicea, e vedere il placidissimo Sebeto, anzi il mio Napolitano Tevere, in diversi canali discorrere per la erbosa campagna, e poi tutto insieme raccolto passare soavemente sotto le volte d’un picciolo ponticello, e senza strepito alcuno con giungersi col mare. Nè mi fu picciola cagione di focosi sospiri lo intendere nominare Baje, e Vesuvio, ricordandomi de’ diletti presi in cotali luoghi; coi quali ancora mi tornano alla memoria i soavissimi bagni, i maravigliosi e grandi edificj, i piacevoli laghi, le dilettose e belle isolelte, i sulfurei monti, e con la cavata grotta la felice costiera di Pausilipo, abitata di ville amenissime, e soavemente percossa dalle salate onde: ed appresso a questo, il fruttifero monte sovrapposto alla città, ed a me non poco grazioso, per memoria degli odoriferi roseti della bella Antiniana, celebratissima Ninfa del mio gran Pontano. A questa cogitazione ancora si aggiunse il ricordarmi delle magnificenzie della mia nobile e generosissima patria; la quale di tesori abbondevole, e di ricco ed onorato popolo copiosa, oltra al grande circuito delle belle mura, contiene in se il mirabilissimo porto, universale albergo di tutto il mondo; e con questo le alte torri, i ricchi templi, i superbi palazzi, i grandi ed onorati seggi de’ nostri patrizj, e le strade piene di donne bellissime, e di leggiadri e riguardevoli giovani. Che dirò io de’ giuochi, delle feste, del sovente armeggiare, di tante arti, di tanti studj, di tanti laudevoli esercizj? che veramente non che una città, ma qualsivoglia opulentissimo Regno ne sarebbe assai convenevolmente adornato; e sopra tutto mi piacque udirla commendare de’ studj della eloquenza, e della divina altezza della poesia; e tra le altre cose, delle merite lode del mio virtuosissimo Caracciolo, non picciola gloria delle volgari Muse; la canzone del quale, se per lo coverto parlare fu poco da noi intesa, non rimase però che con attenzione grandissima non fosse da ciascuno ascoltata, altro che se forse da Ergasto, il quale, mentre quel cantare durò, in una fissa e lunga cogitazione vidi profondamente occupato, con gli occhi sempre fermati in quel sepolcro, senza moverli punto, nè battere palpebra mai, a modo di persona alienata; ed alle volte mandando fuori alcune rare lacrime, e con le labbra non so che fra se stesso tacitamente summormorando. Ma finito il cantare, e da diversi in diversi modi interpretato, perchè la notte sì appressava, e le stelle cominciavano ad apparere nel cielo; Ergasto, quasi da lungo sonno svegliato, si drizzò in piedi, e con pietoso aspetto ver noi volgendosi, disse: Cari pastori, siccome io stimo, non senza volontà degli Dii la fortuna a questo tempo ne ha qui guidati; conciossiacosachè ’l giorno, il quale per me sarà sempre acerbo, e sempre con debite lacrime onorato, è finalmente a noi con opportuno passo venuto; e compiesi dimane lo infelice anno, che con vostro comune lutto, e dolore universale di tutte le circostanti selve, le ossa della vostra Massilia furono consecrate alla terra. Per la qual cosa, sì tosto come il sole, fornita questa notte, averà con la sua luce cacciate le tenebre, e gli animali usciranno a pascere per le selve; voi similmente convocando gli altri pastori, verrete qui a celebrar meco i debiti offici, e i solenni giuochi in memoria di lei, secondo la nostra usanza. Ove ciascuno della sua vittoria averà da me quel dono, che dalle mie facultà si puote espeltare. E così detto, volendo Opico con lui rimanere, perchè vecchio era, non gli fu permesso; ma datigli alquanti giovani in sua compagnia, la maggior parte di noi quella notte si restò con Ergasto a vegghiare; per la qual cosa, essendo per tutto oscurato, accendemmo di molte fiaccole intorno alla sepoltura, e sovra la cima di quella ne ponemmo una grandissima, la quale forse da lunge a’ riguardanti si dimostrava quasi una chiara luna in mezzo di molte stelle. Così tutta quella notte fra fochi senza dormire, con soavi e lamentevoli suoni si passò: nella quale gli uccelli ancora quasi studiosi di superarne, si sforzavano per tutti gli alberi di quel luogo a cantare; e i silvestri animali, deposta la solita paura, come se dimesticati fossero, intorno alla tomba giacendo, parea che con piacere maraviglioso ne ascoltassero. E già in questo la vermiglia aurora alzandosi sovra la terra, significava a’ mortali la venuta del sole; quando di lontano a suon di sampogna sentimmo la brigata venire, e dopo alquanto spazio rischiarandosi tuttavia il cielo, gli cominciammo a scoprire nel piano; li quali tutti in schiera venendo vestiti e coverti di frondi, con rami lunghissimi in mano, parevano da lungi a vedere non uomini, che venissero, ma una verde selva, che tutta insieme con gli alberi si movesse ver noi. Alla fine giunti sovra al colle, ove noi dimoravamo, Ergasto ponendosi in testa una corona di biancheggianti ulivi, adorò prima il sorgente Sole: dopo alla bella sepoltura voltatosi, con pietosa voce, ascoltando ciascuno, così disse: Materne ceneri, e voi castissime e reverende ossa, se la inimica fortuna il potere mi ha tolto di farvi qui un sepolcro eguale a questi monti, e circondarlo tutto di ombrose selve, con cento altari d’intorno, e sovra a quelli ciascun mattino cento vittime offrirvi, non mi potrà ella togliere, che con sincera volontà, ed inviolabile amore questi pochi sacrificj nou vi renda; e con la memoria, e con le opre, quanto le forze si stendono, non vi onori: e così dicendo, fe’ le sante oblazioni, baciando religiosamente la sepoltura. Intorno alla quale i pastori ancora collocarono i grandi rami, che in mano teneano; e chiamando tutti ad alta voce la divina anima, ferono similmente i loro doni; chi uno agnello, chi uno favo di mele, chi latte, chi vino, e molti vi offersero incenso con mirra, ed altre erbe odorifere. Allora Ergasto, fornito questo, propose i premj a coloro, che correre volessero; e facendosi venire un bello e grande ariete, le cui lane eran bianchissime, e lunghe tanto, che quasi i piedi gli toccavano, disse: Questo sarà di colui, a cui nel correre la sua velocità, e la fortuna concederanno il primo onore. Al secondo è apparecchiata una nova e bella fischia, convenevole instrumento al sordido Bacco. El terzo rimarrà contento di questo dardo di ginepro, il quale ornato di sì bel ferro, potrà e per dardo servire, e per pastorale bastone. A queste parole si ferono avanti Ofelia, e Carino giovani leggerissimi, ed usati di giungere i cervi per le selve: e dopo questo, Logisto, e Galizio, e ’l figliuolo di Opico, chiamato Partenopeo, con Elpino, e Serrano, ed altri lor compagni più giovani, e di minore estima: e ciascuno postosi al dovuto ordine, non fu sì tosto dato il seguo, che ad un tempo tutti cominciarono a stendere i passi per la verde campagna con tanto impeto, che veramente saette, o folgori avresti detto che stati fossero: e tenendo sempre gli occhi fermi, ove arrivare intendeano, si sforzava ciascuno di avanzare i compagni. Ma Carino con meravigliosa leggerezza era già avanti a tutti: appresso al quale, ma di buona pezza, seguiva Logisto, e dopo Ofelia; alle cui spalle era sì vicino Galizio, che quasi col fiato il collo gli riscaldava, e i piedi in quelle medesime pedate poneva: e se più lungo spazio a correre avuto avessero, Io si arebbe senza dubbio lasciato dopo le spalle: e già vincitore Carino poco avea a correre, che la disegnata meta toccata avrebbe, quando, non so come, gli venne fallito un piede; o sterpo, o pietra, o altro, che se ne fosse cagione; e senza potere punto aitarsi, cadde subitamente col petto, e col volto in terra: il quale, o per invidia, non volendo che Logisto la palma guadagnasse, o che da vero levar si volesse; non so in che modo, nell’alzarsi gli oppose davanti una gamba, e con la furia medesma, che colui portava, il fe’ parimente a se vicino cadere. Caduto Logisto cominciò Ofelia con maggiore studio a sferzare i passi per lo libero campo, vedendosi già essere primo: a cui il gridare de’ pastori, e ’l plauso grandissimo aggiungevano animo alla vittoria; tal che arrivando finalmente al destinato luogo, ottenne, siccome desiderava, la prima palma: e Galizio, che più che gli altri appresso gli era, ebbe il secondo pregio; e ’l terzo Partenopeo. Qui con gridi e romori cominciò Logisto a lamentarsi della fiode di Carino, il quale opponendogli il piede, gli avea tolto il primo onore, e con istanzia grandissima il dimandava. Ofelia in contrario diceva essere suo, e con ambe le mani si tenea per le corna il guadagnato ariete. Le volontà de’ pastori in diverse parti inclinavano; quando Partenopeo figlinolo di Opico sorridendo disse: E se a Logisto date il primo dono; a me, che sono ora il terzo, quale darete? A cui Ergasto con lieto volto rispose: Piacevolissimi giovani, i premi, che già avuti avete, vostri saranno: a me fia licito aver pietà dell’amico; e così dicendo, donò a Logisto una bella pecora con duo agnelli. Il che vedendo Carino, ad Ergasto voltosi, disse: Se tanta pietà hai degli amici caduti, chi più di me merita esser premiato? che senza dubbio sarei stato il primo, se la medesima sorte, che nocque a Logisto, non fosse a me stata contraria: e dicendo queste parole, mostrava il petto, la faccia, e la bocca tutta piena di polvere; per modo che movendo riso a’ pastori, Ergasto fe’ venire un bel cane bianco, e tenendolo per le orecchie, disse: Prendi questo cane, il cui nome e Asterion, nato d’un medesimo padre con quel mio antico Petulco, il quale sovia tutti i cani fedelissimo ed amorevole merito per la sua immatura morte essere da me pianto, e sempre con sospiro ardentissimo nominato. Acquetato era il rumore e ’l dire de’ pastori, quando Ergasto caccio fuori un bel palo grande, e lungo, e ponderoso per molto ferro, e disse: Per duo anni non arà mestiero di andare alla città nè per zappe, nè per pale, nè per vomeri colui, che in trar questo sarà vincitore: che il medesimo palo gli sarà e fatica, e premio. A queste parole Montano, ed Elenco, con Eugenio, ed Ursacchio si levarono in piedi; e passando avanti, e postisi ad ordine, cominciò Elenco ad alzare di terra il palo, e poi che fra se molto bene esaminato ebbe il peso di quello, con tutte sue forze si mise a trarlo; nè però molto da se il poteo dilungare. Il qual colpo fu subito segnato da Ursacchio; ma credendosi forse che in ciò solo le forze bastare gli dovessero, benchè molto vi si sforzasse, il trasse per forma, che fe’ tutti ridere i pastori; e quasi davanti ai piedi sel fe’ cadere. Il terzo, che ’l tirò, fu Eugenio, il quale di buono spazio passò i due precedenti: ma Montano, a cui l’ultimo tratto toccava, fattosi un poco avanti, si bassò in terra, e prima che il palo prendesse, due o tre volle dimenò la mano per quella polvere: dopo presolo, ed aggiungendo alquanto di destrezza alla forza, avanzò di tanto tutti gli altri, quanto due volte quello era lungo: a cui tutti i pastori applausono, con ammirazione lodando il bel tratto, che fatto avea. Per la qual cosa Montano presosi il palo si ritornò a sedere: ed Ergasto fe’ cominciare il terzo giuoco, il quale fu di tal sorte. Egli di sua mano con un de’ nostri bastoni fe’ in terra una fossa picciola tanto, quanto solamente con un piè vi si potesse fermare un pastore, e l’altro tenere alzato, come vedemo spesse volte fare alle grue. Incontro al quale un per uno similmente con un piè solo aveano da venire gli altri pastori, e far prova di levarlo da quella fossa, e porvisi lui. Il perdere tanto dell’una parte, quanto dell’altra era, toccare con quel piè, che sospeso tenevano, per qualsivoglia accidente in terra. Ove si videro di molti belli e ridicoli tratti, ora essendone cacciato uno, ed ora un altro. Finalmente toccando ad Ursacchio di guardare il luogo, e venendogli un pastore molto lungo davanti, sentendosi egli ancora scornato del ridere de’ pastori, e cercando di emendare quel fallo, che nel trarre del palo commesso avea; cominciò a servirsi delle astuzie, e bassando in un punto il capo con grandissima prestezza, il pose tra le coscie di colui, che per attaccarsi con lui gli si era appressato; e senza fargli pigliar fiato, sel gettò con le gambe in aere per dietro le spalle, e sì lungo, come era, il distese in quella polvere. La maraviglia, le risa, e i gridi de’ pastori furono grandi. Di che Ursacchio prendendo animo, disse: Non possono tutti gli uomini tutte le cose sapere: se in una ho fallalo, nell’altra mi basta avere ricovrato lo onore: a cui Ergasto ridendo, affermò che dicea bene; e cavandosi dal lato una falce delicatissima col manico di bosso, non ancora adoprata in alcuno esercizio, glie la diede; e subito ordinò i premi a coloro, che lottare volessero, offrendo di dare al vincitore un bel vaso di legno di acero, ove per mano del Padoano Mantegna, artefice sovra tutti gli altri accorto ed ingegnosissimo, eran dipinte molte cose: ma tra l’altre una Ninfa ignuda, con tutti i membri bellissimi, dai piedi in fuori, che erano come quelli delle capre; la quale sovra un gonfiato otre sedendo, lattava un picciolo Satirello, e con tanta tenerezza il mirava, che parea che di amore e di carità tutta si struggesse: e ’l fanciullo nell’una mammella poppava, nell’altra tenea distesa la tenera mano, e con l’occhio la si guardava, quasi temendo che tolta non gli fosse. Poco discosto da costoro si vedean due fanciulli pur nudi, i quali avendosi posti due volti orribili di maschere cacciavano per le bocche di quelli le picciole mani, per porre spavento a duo altri, che davanti loro stavano; de’ quali l’uno fuggendo si volgea in dietro, e per paura gridava: l’altro caduto già in terra piangeva, e non possendosi altrimenti aitare, stendeva la mano per graffiarlo. Ma di fuori del vaso correva attorno attorno una vite carica di mature uve: e nell’un de’ capi di quella un serpe si avvolgeva con la coda; e con la bocca aperta venendo a trovare il labbro del vaso, formava un bellissimo e strano manico da tenerlo. Incitò molto gli animi de’ circostanti a dovere lottare la bellezza di questo vaso; ma pure stettero a vedere quello, che i maggiori, e più reputati facessero. Per la qual cosa Uranio, veggendo che nessuno ancora si movea, si levò subito in piedi; e spogliatosi il manto, cominciò a mostrare le late spalle. Incontro al quale animosamente uscì Selvaggio, pastore notissimo, e molto stimato fra le selve. La espettazione de’ circostanti era grande, vedendo due tali pastori uscire nel campo. Finalmente l’un verso l’altro approssimatosi, poi che per buono spazio riguardati si ebbero dal capo insino ai piedi, in un impeto furiosamente si ristrinsero con le forti braccia; e ciascuno deliberato di non cedei e, parevano a vedere duo rabbiosi orsi, o duo forti tori, che in quel piano combattessero. E già per ogni membro ad ambiduo correva il sudore, e le vene delle braccia, e delle gambe si mostravano maggiori, e rubiconde per molto sangue; tanto ciascuno per la vittoria si affaticava. Ma non possendosi in ultimo nè gittare, nè dal luogo movere; e dubitando Uranio, che a coloro, i quali intorno stavano, non rincrescesse lo aspettare, disse: Fortissimo, ed animosissimo Selvaggio, il tardare, come tu vedi, è nojoso: o tu alza me di terra, o io alzerò te; e del resto lasciamo la cura agli Dii; e così dicendo il sospese da terra. Ma Selvaggio non dimenticato delle sue astuzie, gli diede col tallone dietro alla giuntura delle ginocchia una gran botta, per modo che facendogli per forza piegare le gambe, il fe’ cadere supino, ed egli senza potere aitarsi gli cadde di sopra. Allora tutti i pastori maravigliati gridarono. Dopo questo toccando la sua vicenda a Selvaggio di dovere alzare Uranio, il prese con ambedue le braccia per mezzo; ma per lo gran peso, e per la fatica a villa non possendolo sostenere, fu bisogno, quantunque molto vi si sforzasse, che ambiduo così giunti cadessero in quella polvere. All’ultimo alzatisi con malo animo si apparecchiavano alla terza lotta. Ma Ergasto non volle che le ire più avanti procedessero, ed amichevolmente chiamatili, disse loro: Le vostre forze non son ora da consumarsi qui per sì picciolo guiderdone: eguale è di ambiduo la vittoria, ed eguali doni prenderete: e così dicendo, all’uno diede il bel vaso, all’altro una cetera nova, parimente di sotto e di sopra lavorata, e di dolcissimo suono; la quale egli molto cara lenea per mitigamento e conforto del suo dolore. Avevano per avventura la precedente notte i compagni di Ergasto dentro la mandra preso un lupo; e per una festa il tenean così vivo legato ad un di quegli alberi: di questo pensò Ergasto dover far in quel giorno lo ultimo giuoco; ed a Clonico voltandosi, il quale per niuna cosa ancora levato si era da sedere, gli disse: E tu lascerai oggi così inonorata la tua Massilia, che in sua memoria non abbi di te a mostrare prova alcuna? Prendi, animoso giovane, la tua fionda, e fa conoscere agli altri, che tu ancora ami Ergasto; e questo dicendo, a lui, ed agli altri mostrò il legato lupo, e disse: Chi per difendersi dalle pioggie del guazzoso verno desidera un cucullo, o tabarro di pelle di lupo, adesso con la sua fionda in quel bersaglio sel può guadagnare. Allora Clonico, e Partenopeo, e Montano poco avanti vincitore nel palo, con Fronimo cominciarono a scingersi le fionde, ed a scoppiare fortissimamente con quelle: e poi gittate fra loro le sorti, uscì prima quella di Montano, l’altra appresso fu di Fronimo, la terza di Clonico, la quarta di Partenopeo. Montano adunque lieto, ponendo una viva selce nella rete della sua fionda, e con tutta sua forza rotandolasi intorno al capo, la lasciò andare; la quale furiosamente stridendo, pervenne a dirittura, ove mandata era; e forse a Montano avrebbe sovra al palo portata la seconda vittoria, se non che il lupo impaurito per lo romore, tirandosi indietro si mosse dal luogo, ove stava; e la pietra passò via. Appresso a costui tirò Fronimo, e benchè indrizzasse bene il colpo verso la lesta del lupo, non ebbe ventura in toccarla; ma vicinissimo andandole, diede in quell’albero, e levogli un pezzo della scorza: e ’l lupo tutto atterrito fe’ movendosi grandissimo strepito. In questo parve a Clonico di dovere aspettare che ’l lupo si fermasse; e poi sì tosto, come quieto il vide, liberò la pietra: la quale drittissima verso quello andando, diede in la corda, con che all’albero legato stava, e fu cagione che il lupo, facendo maggiore sforzo, quella rompesse. E i pastori tutti gridarono, credendo che al lupo dato avesse. Ma quello sentendosi sciolto, subito incominciò a fuggire; per la qual cosa Partenopeo, che tenea già la fionda in posta per tirare, vedendolo traversare per salvarsi in un bosco, che dalla man sinistra gli stava, invocò in sua aita i pastorali Dii; e fortissimamente lasciando andare il sasso, volle la sua sorte, che il lupo, il quale con ogni sua forza intendeva a correre, ferì nella tempia sotto la manca orecchia, e senza farlo punto movere, il fe’ subito morto cadere. Onde ciascuno di maraviglia rimase attonito; e ad una voce tutto lo spettacolo chiamò vincitore Partenopeo; e ad Opico volgendosi, che già per la nova allegrezza piangea, si congratulavano, facendo maravigliosa festa. Ed Ergasto allora lieto, fattosi incontro a Partenopeo, lo abbracciò, e poi coronandolo d’una bella ghirlanda di fronde di baccari, gli diede per pregio un bel cavriuolo, cresciuto in mezzo delle pecore, ed usato di scherzare tra i cani, e di urtare coi montoni, mansuetissimo, e caro a tutti i pastori. Appresso a Partenopeo, Clonico, che rotto avea il legame del lupo, ebbe il secondo dono; il quale fu una gabbia nova e bella, fatta in forma di torre, con una pica loquacissima rientro, ammaestrata di chiamare per nome, e di salutare i pastori; per modo che chi veduta non la avesse, udendola solamente parlare, si avrebbe per fermo tenuto, che quella uomo fosse. Il terzo premio fu dato a Fronimo, che con la pietra ferì nell’albero presso alla testa del lupo: il quale fu una tasca da tenere il pane, lavorata di lana mollissima, e di diversi colori: dopo dei quali toccava a Montano l’ultimo pregio, quantunque al tirare stato fosse il primo. A cui Ergasto piacevolmente, e quasi mezzo sorridendo disse: Troppo sarebbe oggi stata grande la tua ventura, Montano, se così nella fionda fossi stato felice, come nel palo fosti: e così dicendo, si levò dal collo una bella sampogna di canna fatta solamente di due voci, una di grandissima armonia nel sonare, e glie la diede: il qual lietamente prendendola, il ringraziò. Ma forniti i doni, rimase ad Ergasto un delicatissimo bastone di pero salvatico, tutto pieno d’intagli, e di varj colori di cera per mezzo, e nella sua sommità investito d’un nero corno di bufalo sì lucente, che veramente avresti detto, che di vetro stato fosse. Or questo bastone Ergasto il donò ad Opico, dicendogli: E tu ancora ti ricorderai di Massilia, e per suo amore prenderai questo dono, per lo quale non ti farà mestiere lottare, nè correre, nè fare altra prova: assai per te ha oggi fatto il tuo Partenopeo, il quale nel correre fu de’ primi, e nel trarre della fionda, senza controversia è stato il primo: a cui Opico allegro rendendo le debite grazie, così rispose: I privilegj della vecchiezza, figliuol mio, son sì grandi, che o vogliamo, o non vogliamo, siamo costretti di obbedirli. O quanto ben fra gli altri mi avresti in questo giorno veduto adoperare, se io fossi di quella età e forza, che io era, quando nel sepolcro di quel gran pastore Panormita furono posti i premj, siccome tu oggi facesti, ove nessuno, nè paesano, nè forestiero, si possette a me agguagliare. Ivi vinsi Crisaldo figliuolo di Tirreno nelle lotte: e nel saltare passai di gran lunga il famoso Silvio: così ancora nel correre mi lasciai dietro Idalogo, ed Ameto, i quali eran fratelli, e di velocità e scioltezza di piedi avanzavano tutti gli altri pastori: solamente nel saettare fui superato da un pastore, che aveva nome Tirsi: e questo fu per cagione che colui avendo uno arco fortissimo con le punte guarnite di corno di capra, potea con più sicurtà tirarlo, che non faceva io, il quale di semplice tasso avendolo, dubitava di spezzarlo: e così mi vinse. Allora era io fra’ pastori, allora era fra’ giovani conosciuto: ora sovra di me il tempo usa le sue ragioni: voi dunque, a cui la età il permette, vi esercitate nelle prove giovanili; a me e gli anni, e la natura impongono altre leggi. Ma tu, acciocchè questa festa da ogni parte compita sia, prendi la sonora sampogna, figliuol mio, e fa che colei, che si allegrò d’averti dato al mondo, si rallegri oggi di udirti cantare; e dal Cielo con lieta fronte miri ed ascolti il suo sacerdote celebrare per le selve la sua memoria. Parve ad Ergasto sì giusto quello, che Opico dicea, che senza fargli altra risposta, prese di man di Montano la sampogna, che poco avanti donata gli avea: e quella per buono spazio con pietoso modo sonata, vedendo ciascuno con attenzione e silenzio aspettare, non senza alcun sospiro mandò fuora queste parole.
ANNOTAZIONI
alla Prosa Undecima.
Cari pastori, siccome io stimo, non senza volontà degli Dii ec. li Sanazzaro anche qui imita Virgilio. Ergasto alla sepoltura della madre Massilia è simile ad Enea a quella del padre Anchise. Ecco le parola di Enea nel Lib. v. dell’En.:
Dardanidae magni, genus alto a sanguine divum,
Annuus exactis completur mensibus orbis,
Ex quo reliquias divinique ossa parentis
Condidimus terra, moestasque sacravimus aras.
Jamque dies, ni fallor, adest, quem semper acerbum,
Semper honoratum (sic Di voluistis) habebo etc.
Mi piace però nel Sanazzaro udir a dire ad Ergasto, ch’egli stima
che non senza volontà degli Dii la fortuna aveva guidato
lui ed i suoi compagni al luogo, dove potevano onorare
le ceneri di Massilia nel giorno appunto che da un anno ella
era morta. Non v’ha dubbio, che le genti semplici, come i
pastori sono, tutto credono giustamente accadere per volontà
celeste; ma particolarmente quello che ha una chiara idea di
bene, siccome l’opportuna occasione d’onorare le reliquie
della propria virtuosissima madre. Al contrario mi disgusta in
Virgilio quella spezie di dubbio, ch’Enea esprime colle parole
ni fallor sul preciso giorno della morte di suo padre.
Enea che ci viene sempre offerto col carattere di uomo grande
sì, ma insieme pio e buono, e che avendo assaissimo amato
il padre suo fu preso da acerbissimo dolore per la morte
di lui, secondo ciò ch’egli stesso ne dice, come mai non
dovea di tal giorno conservare un’infelice memoria?
Le ossa della vostra Massilia. Il Massarengo, quantunque poco giudizioso, e nojosissimo sia nelle sue Annotazioni, fa qui un’acconcia riflessione. Grande artificio, egli scrive, contiene quella parola vostra detta da Ergasto, che sebbene Massilia sia sua madre, pure gli piace chiamarla degli ascoltanti pastori, per disporli più facilmente, come ad onorar cosa loro propria; quasi dicesse: vostra fu, perchè vi amava; vostra, perchè vi onorava, vi consigliava, vi faceva beneficj. Lo stesso Massarengo sospetta, che ’l Sanazzaro sotto persona di Ergasto intenda per Massilia la propria sua madre. Se il Massarengo non avesse ignorato, com’egli medesimo confessa, che il nome della madre del nostro Autore fu Masella, da Tomasella, diminutivo napoletano di Tomassa, si sarebbe vie maggiormente confermato nel suo sospetto. E quando così si voglia credere, non è fuor di ragione il sospettare parimenti, che come qui onora la memoria della madre, così colla canzone cantata pur da Ergasto nell’Egloga Quinta sopra la sepoltura di Androgeo, abbia voluto onorare quella del padre.
Chiamando tutti ad alta voce la divina anima ec. Virgilio nel Lib. v. dell’En.:
Vinaque fundebat pateris, animamque vocabat
Anchisae magni, Manesque Acheronte remissos.
Necnon et socii, quae cuique est copia, laeti
Dona ferunt oncrantque aras, mactantque juvencos.
Padoano Mantegna. Andrea Mantegna, dice il Sansovino,
fu pittore famoso e molto diligente, e di gran credito in Italia
a’ tempi de’ padri nostri. A Mantova sono molte opere di
sua mano veramente belle e vaghe; ma non però la comparare
a quelle di Raffaello da Urbino, di Michelangelo, di Tiziano.
Ma Ergasto non volle che le ire ec. Virgilio nel Lib. v. dell’En.:
Tum pater Æneas procedere longius iras,
Et saevire animis Entellum haud passus acerbis;
Sed finem imposuit pugnae etc.