Arcadia (Sannazaro)/Egloga X

Egloga X

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Prosa X Prosa XI
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EGLOGA DECIMA.

selvaggio, e fronimo.


Selvaggio.

Non son, Fronimo mio, del tutto mutole,
Com’uom crede, le selve; anzi risonano,
Tal che quasi all’antiche egual reputole.

Fronimo.

Selvaggio, oggi i pastor più non ragionano
Dell’alme muse, e i più non pregian naccari,
Perchè per ben cantar non si coronano.
E sì del fango ognun s’asconde i zaccari,
Che tal più pute, ch’ebuli ed abrotano,
E par che odore più che ambrosia e baccari.
Ond’io temo gli Dii non si riscotano
Dal sonno, e con vendetta ai buoni insegnino,
Sì come i falli de’ malvagi notano.
E s’una volta avvien che si disdegnino,
Non fia mai poi balen nè tempo pluvio,
Che di tornar al ben pur non s’ingegnino.

Selvaggio.

Amico, io fui tra Baje, e ’l gran Vesuvio
Nel lieto piano, ove col mar congiungesi
Il bel Sebeto accolto in picciol fluvio.
Amor che mai dal cor mio non disgiungesi,
Mi fe’ cercare un tempo strane fiumora,
Ove l’alma pensando ancor compungesi.
E s’io passai per pruni ortiche e dumora,
Le gambe il sanno; e se timor mi pusero
Crudi orsi, dure genti, aspre costumora.
Al fin le dubbie sorti mi rispusero:
Cerca l’alta Cittade ove i Calcidici
Sopra il vecchio sepolcro si confusero.

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Questo non intes’io; ma quei fatidici
Pastor mel fer poi chiaro, e mel mostrarono;
Tal ch’io gli vidi nel mio ben veridici.
Indi incantar la luna m’insegnarono,
E ciò che in arte maga al tempo nobile
Alfesibeo e Meri si vantarono.
Nè nasce erbetta sì silvestra e ignobile,
Che ’n quelle dotte selve non conoscasi,
E quale stella è fissa, e qual è mobile.
Quivi la sera, poi che ’l ciel rinfoscasi,
Certa l’arte Febea con la Palladia,
Che non ch’altri, ma Fauno a udir rimboscasi.
Ma a guisa d’un bel sol fra tutti radia
Caracciol, che ’n sonar sampogne o cetere
Non troverebbe il pari in tutta Arcadia.
Costui non imparò potare o mietere,
Ma curar greggi dalla infetta scabbia,
E passion sanar maligne e vetere.
Il qual un dì per isfogar la rabbia,
Così prese a cantar sotto un bel frassino,
lo fìscelle tessendo, egli una gabbia.
Provveda il ciel, che qui ver noi non passino
Malvagie lingue; e le benigne fatora
Fra questi armenti respirar mi lassino.
Itene, vaccarelle, in quelle pratora;
Acciocchè, quando i boschi e i monti imbrunano,
Ciascuna a casa ne ritorne satora.
Quanti greggi ed armenti, oimè, digiunano
Per non trovar pastura; e delle pampane
Si van nudrendo che per terra adunano!
Lasso, ch’appena di mill’una campane;
E ciascun vive in tanta estrema inopia,
Che ’l cor per doglia sospirando avvampane.
Ringrazie dunque il ciel qualunque ha copia
D’alcun suo bene in questa vil miseria,
Che ciascun caccia dalla mandra propia.

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I bifolchi e i paslor lascian Esperia,
Le selve usate, e le fontane amabili;
Che ’l duro tempo glie ne dà materia.
Erran per alpe incolte, inabitabili,
Per non veder oppresso il lor peculio
Da genti strane, inique, inesorabili.
Le qua’ per povertà d’ogni altro edulio,
Non già per aurea età, ghiande pascevano
Per le lor grotte dall’agosto al giulio.
Vivon di preda qui, come solevano
Far quei primi pastor nei boschi Etrurii:
Deh ch’or non mi sovvien qual nome avevano!
So ben che l’un da più felici augurii
Fa vinto, e morto, or mi ricorda, Remo,
In su l’edificar de’ lor tugurii.
Lasso, che ’n un momento io sudo e tremo,
E veramente temo d’altro male;
Che si de’ aver del sale in questo stato;
Perchè ’l comanda il fato e la fortuna.
Non vedete la luna inecelissata?
La fera stella armata di Orione?
Mutata è la stagione, e ’l tempo è duro:
E già s’attuffa Arturo in mezzo Fonde,
E ’l sol, ch’a noi s’asconde, ha i raggi spenti;
E van per l’aria i venti mormorando;
Nè so pur come o quando torne estate.
E le nubi spezzate fan gran suoni.
Tanti baleni e tuoni han l’aria involta,
Ch’io temo un’altra volta il mondo pera.
O dolce primavera, o fior novelli,
O aure o arboscelli o fresche erbette,
O piagge benedette, o colli o monti,
O valli o fiumi o fonti o verdi rive,
Palme lauri ed olive, edere e mirti;
O gloriosi spirti degli boschi;

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O Eco, o antri foschi, o chiare linfe,
O faretrate Ninfe, o agresti Pani,
O Satiri e Silvani, o Fauni e Driadi,
Najadi ed Amadriadi, o Semidee,
Oreadi e Napee, or siete sole.
Secche son le viole in ogni piaggia:
Ogni fiera selvaggia, ogni uccelletto
Che vi sgombrava il petto, or vi vien meno,
E ’l misero Sileno vecchiarello
Non trova l’asinelio ov’ei cavalca.
Dafni, Mopso e Menalca, oimè, son morti.
Priapo è fuor degli orti senza falce,
Nè ginepro nè salce è che ’l ricopra.
Vertunno non s’adopra in trasformarse.
Pomona ha rotte e sparse le sue piante;
Nè vuol che le man sante potin legni.
E tu, Pale, ti sdegni per l’oltraggio,
Che di april nè di maggio hai sacrifizio:
Ma s’un commette il vizio, e tu noi reggi,
Che colpa n’hanno i greggi de’ vicini?
Che sotto gli alti pini, e i dritti abeti.
Si stavan mansueti a prender festa
Per la verde foresta a suon d’avena;
Quando per nostra pena il cieco errore
Entrò nel fiero core al neghittoso.
E già Pan furioso con la sauna
Spezzò l’amata canna; ond’or piangendo
Se stesso riprendendo, Amor lusinga;
Che della sua Siringa si ricorda.
Le saette la corda l’arco e ’l dardo,
Ch’ogni animal fea tardo, omai Diana
Dispregia, e la fontana ove il protervo
Atteon divenne cervo; e per campagne
Lassa le sue compagne senza guida;
Cotanto si disfida omai del mondo,

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Che vede ognor al fondo gir le stelle.
Marsia senza pelle ha guasto il bosso,
Per cui la carne e l’osso or porta ignudo.
Minerva il fiero scudo irata vibra.
Apollo in Tauro, o in Libra non alberga;
Ma con l’usata verga al fiume Anfriso
Si sta dolente assiso in una pietra;
E tien la sua faretra sotto ai piedi:
Ahi Giove, e tu tel vedi? e non ha lira
Da pianger, ma sospira e brama il giorno
Che ’l mondo intorno intorno si disfaccia,
E prenda un’altra faccia più leggiadra.
Bacco con la sua squadra senza tirsi
Vede incontro venirsi il fiero Marte
Armato, e ’n ogni parte tarsi strada
Con la cruenta spada: ahi vita trista!
Non è chi gli resista: ahi fato acerbo!
Ahi ciel crudo e superbo! Ecco che ’l mare
Si comincia a turbare, e ’ntorno ai liti
Stan tutti sbigottiti i Dii dell’acque;
Perchè a Nettuno piacque esilio darli,
E col tridente urtarli in sulla guancia.
La donna e la bilancia è gita al cielo.
Gran cose in picciol velo oggi ristringo:
Io nell’aria dipingo, e tal si stende,
Che forse non intende il mio dir fosco:
Dormasi fuor del bosco: or quando mai
Ne pensar tanti guai bestemmie antiche?
Gli uccelli e le formiche si ricolgono
De’ nostri campi il desiato tritico;
Così gli Dii la libertà ne tolgono.
Tal che assai meglio nel paese Scitico
Vivon color sotto Boote ed Elice;
Benchè con cibi alpestri, e vin sorbitico.

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Già mi rimembra cbe da cima un’elice
La sinistra cornice, oimè, predisselo;
Che ’l petto mi si fe’ quasi una selice.
Lasso, che la temenza al mio cor fisselo,
Pensando al mal che avvenne; e non è dubbio
Che la Sibilla nelle foglie scrisselo.
Un’orsa, un tigre han fatto il fier connubbio:
Deh perchè non troncate, o Parche rigide,
Mia tela breve al dispietato subbio?
Pastor, la noce che con l’ombre frigide
Noce alle biade, or ch’è ben tempo, trunchesi
Pria che per anni il sangue si rinfrigide.
Non aspettate che la terra ingiunchesi
Di male piante, e non tardate a svellere,
Fin che ogni ferro poi per forza adunchesi.
Tagliate tosto le radici all’ellere:
Che se col tempo e col poder s’aggravano,
Non lasceranno i pini in alto eccellere.
Così cantava; e i boschi rintonavano
Con note, quai non so s’un tempo in Menalo,
In Parnaso o in Eurota s’ascoltavano.
E, se non fosse che ’l suo gregge affrenalo,
E tienlo a forza nell’ingrata patria,
Che a morte desiar spesso rimenalo;
Verrebbe a noi, lasciando l’idolatria,
E gli ombrati costumi al guasto secolo,
Fuor già d’ogni natia carità patria.
Ed è sol di virtù sì chiaro specolo,
Che adorna il mondo col suo dritto vivere;
Degno assai più, ch’io col mio dir non recolo.
Beata terra che ’l produsse a scrivere,
E i boschi, ai quai sì spesso è dato intendere
Rime, a chi ’l ciel non pote il fin prescrivere!

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Ma l’empie stelle ne vorrei riprendere,
Nè curo io già, se col parlar mio crucciole;
Si ratto fer dal ciel la notte scendere,
Che sperando udir più, vidi le lucciole.


ANNOTAZIONI

all’Egloga Decima.


Baje, o Baja, una volta città Etrusca, ora castello in Terra di Lavoro. Cotal nome proviene da Baio, compagno di Ulisse, o perchè secondo alcuni costrusse quella città, o perchè secondo altri ivi fu sepolto. Egli è certamente uno de’ più ameni luoghi, ed ha bagni d’acque calde opportunissime tanto al piacere, come a sanare da varie malattie. Gli antichi Romani ne facevano gran conto, di modo che Orazio, che godeva di tutte le belle e buone cose nell’Epist. i. del Lib. i., così lo loda:


Nullus in orbe sinus Bays praelucet amoenis.


E Seneca con quel suo austero parlare, che si crede a ragione non fosse corrispondente a’ suoi costumi, lo chiama albergo de’ vizj, diversorium vittorum, perchè i Romani vi andavano a divertirsi. — Nulla dico del Vesuvio, non essendoci uomo che non sappia che sia, e dove si trovi. — Il Sebeto, detto altrimenti fiume della Maddalena, o Fornello, è un fiume picciolissimo di Terra di Lavoro, che in parte di luogo in luogo scorre per Napoli, e in parte passa vicino alle mura di quella città, e quindi si scarica in mare poco sotto al ponte di Santa Maddalena.

Cerca l’alta Cittade ec., intendi Napoli. Vedi per la maggior illustrazione di questo passo la prima Annotazione alla Prosa Settima pag. 78.

Caracciol che ’n sonar sampogne ec. Il Porcacchi riferisce questa lode a Tristano Caracciolo, molto stimato a que’ tempi dai dotti.

Esperia, cioè Italia. Il medesimo nome però vien dato anche alla Spagna; o perchè il re Espero discacciato dal fratello Atlante venne dalla Spagna in Italia, e come alla Spagna avea dato il proprio nome, così lo diede anche all’Italia; o perchè provenendo cotal nome dalla stella Venere, che al mattino si vede all’oriente, e chiamasi Lucifero, e alla sera vedesi all’occidente, e chiamasi Espero, e perciò sotto [p. 155 modifica]tal nome sposse volte significa lo stesso che occaso; come gl’italiani chiamano Esperia la Spagna, perchè a loro riguardo ella è situata all occidente, così i Greci per la stessa ragione appellano l’Italia col medesimo nome. Ma per lo più volendo usare di questa denominazione, e distinguere quando si voglia indicare l’Italia piuttosto che la Spagna, o al contrario, Esperia maggiore si chiama l’Italia, e minore, o ultima, o estrema la Spagna.

Quei primi pastor ec. Qui si vogliono intendere i due fratelli Romolo e Remo, il primo de’ quali uccise l’altro. Per capire intieramente quello che qui di Remo si dice, cioè ch’egli fu vinto da più felici augurii, ricordiamoci che essendo nato il contrasto tra que’ due fratelli qual di loro dovesse imporre il nome alla novella città, vennero a questo accordo, che chi avesse più felice augurio, dovesse denominarla a modo suo; e che Romolo vide dodici avoltoj, e Remo solamente sei, talchè essendo più felice l’augurio di Romolo, questi e non Remo diede il nome alla città, chiamandola Roma.

Orione ec. Egli è un segno celeste di trent’otto stelle. A mirarlo pare che colla disposizione e col fulgore di sue stelle formi una spada terribile. Se risplende, dinota serenità, se si ottenebra, prenunzia tempesta. Qui ’l Poeta ha stimato bastevole il dire, che appariva armata la stella di Orione, per significare, ch’ella presagiva tempi infelici. È poi chiarissimo che tutta questa descrizione di turbamento di cielo e di terra è intieramente allegorica.

Arturo. È una stella nel segno celeste di Boote, e posta tra le gambe di esso. Nascendo cagiona tempeste; ma le cagiona assai più veementi quando tramonta. Laonde il Poeta per esprimere vie meglio l’infelicità de’ tempi che sopravvenivano, dice che Arturo già s’attuffava in mezzo l’onde. Orazio nell’Ode i. del Lib. iii. per accennare il maggiore imperversare di questa stella, ne rimarca anch’egli il suo tramontare:


Desiderantem quod satis est, neque
Tumultuosum sollicitat mare:
Nec saevus Arcturi cadentis
Impetus, aut orientis Hoedi
etc.


Vertunno fu un Dio appo i Romani, che in tutte le forme si cangiava, Come Proteo appo i Greci. Comunemente è preso pel Dio, sotto la cui tutela sono i frutti degli alberi, e tutte le altre cose, che maturano all’autunno, ed è così chiamato appunto perchè raccoglie i frutti dell’anno che si volge al suo fine. Fu anche detto il Dio dell’anno, pigliando perciò diverse faccie seconde la stagione, e dando agli [p. 156 modifica]uomini occasione di fare quando una quando altra cosa. Di più fu creduto un Dio, che presiedesse agli umani pensieri, onde fingevasi multiforme ed incostante, come quelli sono varj e mutevoli. Da ciò nasce quella frase latina, usata da Orazio nella Sat. vii. del Lib 2. Vertumnis, quotquot sunt, natus iniquis, per indicare uno che sia incostante e di mutabile ingegno. Finalmente era nel foro Romano una statua di Vertunno, che rappresentava il Tebro, che prima passava di là, e che fu poi rivoltato in altra parte. Cotesta statua vedeasi adornata di fiori e di frutti per dimostrare la fertilità de’ campi al Tebro vicini. Questo Dio amò Pomona, Dea de’ pomi, o sia de’ frutti degli alberi; dipinta per lo più colla falce in mano. Ecco un’altra ragione, per cui si dice che ad ogni istante cangiasse faccia. Egli per godere almeno del leggiadro aspetto dell’amata Dea, vuolsi che a bella posta si mutasse in tutte le forme, ed in tal modo ottenesse da lei pietà e mercede del suo amore. Se più desideri sapere di Vertunno, leggi l’Elegia ii. del Lib. iv. di Properzio.

Atteone, figliuolo di Aristeo re d’Arcadia, nobile ed espertissimo cacciatore, il quale avendo voluto vagheggiare Diana tutta nuda, che colle sue Ninfe lavavasi nella fonte Gargasia, fu da lei mutato in cervo, e morì lacerato da’ suoi proprj cani.

Marsia senza pelle ec. Vedi l’ultima Annotaz. al Proemio.

Minerva il fiero scudo ec. Questa Dea presiede a’ pacifici, non meno che a’ guerreschi studj, cosicchè si dà variamente l’etimologia del suo nome. Come negli studi letterarj e scientifici uno de’ primi ajuti è la memoria, così alcuni dicono, che il nome di Minerva provenga da memini, e come il guerriero ha d’ordinario un aspetto truce e minaccioso, e suole devastando le cose, ed uccidendo gli uomini diminuire il tutto, così altri dicono, che un cotal nome nasca da minitari, o da minuere. Il Poeta nostro qui la prende per la Minerva guerriera dimostrando che a que’ tempi infieriva la guerra, e perciò la descrive in atto di vibrare il fiero suo scudo, che Egide particolarmente si chiama, e che avea nel bel mezzo la testa di Medusa sì terribile pe’ serpenti al luogo de’ capelli che tosto mutavasi in sasso chiunque la riguardava.

Apollo in Tauro ec. Il Toro è uno de’ segni dello Zodiaco, composto di trentatrè stelle. Secondo la favola egli è quello stesso, sotto la cui forma Giove rapì Europa, e dalla Fenicia la trasportò in Creta. Il novello anno o sia la primavera comincia propriamente in marzo quando il sole entra in Ariete; nondimeno Virgilio nel Lib. i. della Georgica in quel luogo:


Candidus auratis aperit cum cornibns annurn
Taurus
etc.

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lo fa incominciare in aprile, quando il sole entra in Toro, o perchè si attenesse all’etimologia del nome aprilis tratto dal verbo aperire, aprendosi di fatto in questa sì dolce stagione tutte le cose naturali, o perchè seguisse la mente di Esiodo, e de’ Beoti, che incominciavano il loro anno non già dal nascere dell’Ariete, ma dal nascere delle Vergilie o Plejadi, che sono le stelle che compongono la coda del Toro. A’ tempi di Virgilio non si conoscea il segno della Libra, cosicchè quello dello Scorpione vicino ad esso occupava sessanta gradi, e tutti gli altri ne occupavano trenta. Volendo egli adulare Augusto nel principio cella Georgica disse che lo Scorpione avrebbe ritirato le sue branche per lasciare un luogo in cielo, dove Augusto potesse essere collocato dopo morte. Laonde niuna menzione si trova presso i Latini del segno della Libra, il quale nella moderna astronomia è posto tra la Vergine e lo Scorpione. Egli è formato di otto stelle, riceve il sole in esso verso la metà di ottobre, e perciò fa l’equinozio autunnale. Ciò rischiarato, è facile il capire, che il Poeta nostro dicendo che Apollo in Tauro o in Libra non alberga ec., vuol significare, che i tempi, ch’egli descrive, erano si tristi che Apollo o sia il sole più non recava al mondo nè la bella primavera, nè il fruttifero autunno, e che quel Dio di nuovo in qualità di pastore stavasi guidando coll’usata verga gli armenti del re Admeto di Tessaglia, dove scorre il fiume Anfriso.

La donna, e la bilancia ec. Per questa donna intendi Temi, o Astrea, Dea della giustizia, la quale suol recare in mano la bilancia.

Tal che assai meglio nel paese Scitico ec. La Scizia è una vastissima regione anticamente assai barbara, situata nelle parti settentrionali, cioè sotto la costellazione di Boote, e di Elice, o sia dell’Orsa maggiore.

Già mi rimembra ec. Virgilio nell’Egl. i.


Saepe sinistra cava praedixit ab ilice cornix.


Che la Sibilla nelle foglie scrisselo. Le Sibille furono credute vergini fatidiche, le quali venivano consultate su le cose future. Siccome d’ordinario le loro risposte erano oscure, o di doppio senso, perciò era mistiero ch’altri interpretasse quello ch’elleno rispondevano, o che di nuovo si ricorresse a loro per averne la spiegazione. Dal che nasce il dire d’una cosa sulla quale oscuramente siasi da alcuno parlato o scritto, che si richiede una Sibilla per ispiegarla. Della qual maniera di dire servesi Plauto nel Pseudolo: Has quidem literas, credo, nisi Sibylla legerit, interpretari alium posse neminem. Dieci furono le Sibille. La Persica, di cui fa menzione Nicanore, che scrisse le gesta d’Alessandro Macedone. La Libica, [p. 158 modifica]ricordata da Euripide nel Prologo d’una delle sue Tragedie. La Delfica, di cui parla Crisippo nel libro della divinazione. La Cumea d’Italia, nominata da Nevio ne’ libri della guerra Punica, e da Pisone negli Annali. L’Eritrea nata in Babilonia, che Apollodoro Eritreo afferma essere stata della sua città, e aver vaticinato a’ Greci che Troja sarebbe perita, e che Omero avrebbe scritto cose favolose. La Samia, di cui Eratostene disse averne trovato menzione negli antichi Annali di Samo. La Cumana, di nome Amaltea, o come altri vogliono Demofile, o Erofile. L’Ellespontica, nata nel territorio Trojano, della quale scrisse Eraclide Pontico essere vissuta a’ tempi di Solone e di Ciro. La Frigia, che vaticinava in Ancira. Finalmente la Tiburtina, di nome Albunea, che in Tivoli si onorava qual Dea, lungo le ripe dell’Aniene o Teverone, nel cui gorgo narrasi che ne fu ritrovato il simulacro avente in mano un libro. Fra tutte l’Eritrea, la Cumea d’Italia, la Cumana, sono le più celebrate. Virgilio fa particolare menzione della Cumea, perchè coll’ajuto di lei scese Enea all’inferno, e di nuovo tornò sulla terra. Ella soleva scrivere le sue risposte sopra foglie di lauro, che da lei venivano distese in mezzo a cento porte, e per ogni piccolo aere che v’entrava dentro, le foglie si confondevano, tornandosene que’ che la consultavano senza risposta. Sembra che il nostro Poeta, rammentando lo scrivere nelle foglie, di questa e non d’alcun’altra voglia qui parlare.