Arabella/Parte seconda/7
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VII.
Nello studio dell’avvocato
Nello studio dell’avvocato Baruffa, in piazza di Sant’Ambrogio, la seconda festa di Pasqua si dettero convegno i diseredati per concordare un’azione comune contro il signor Tognino.
Il primo a comparire, verso le due, fu Aquilino Ratta, che per sistema preferiva aspettare al farsi aspettare. Quando uno è stato una volta soldato sa che cosa vuol dire la precisione.
Aveva un bel redingotto di panno color cannella sopra un panciotto chiaro a fiorellini celesti, preludio di primavera, roba che una volta era di gran moda anche tra gli eleganti. Per la circostanza si era preso con sè anche un paio di guanti di pelle tra il nero e lo stracciato, pronto a metterseli quando vedesse la convenienza di farlo. In ogni circostanza Aquilino amava stare colla maggioranza, cantare col clero e bevere coi sonatori.
Al convegno eran stati invitati ricchi e poveri; e Aquilino non voleva comparire nè ineducato coi forti, nè superbo coi deboli.
I Boffa e una confraternita di poveri straccioni avevano combinato di entrare nell’azione comune, pagando la loro piccola parte a rate mensili. Don Giosuè era incaricato di raccogliere le firme, le contribuzioni e di guidare la mandra. Le monache del Buon Pastore si fecero rappresentare da don Felice Vittuone. La famiglia Borrola e tre o quattro Maccagno ricchi si dichiararono pronti a sostenere l’avvocato. Costui oltre al puntiglio suo personale e alla voglia di tormentare un intrigante che l’aveva messo pulitamente alla porta, provava un gusto, per dir così, professionale. Un processo, per quanto magro, può sempre diventare un processo lungo, e alle volte il miglior brodo è quello che si spreme dagli ossi.
— Sono il primo? — domandò Aquilino, fermandosi sulla soglia.
Il Mornigani quello stesso che chiamavano el mèzz avvocat, alzò la grossa testa dalla tavola, dove stava scrivendo, e indicando colla cannuccia una cassapanca antica rasente il muro, sotto il ritratto a stampa di Pio IX, disse:
— Sedetevi, è presto ancora.
— Ho ricevuto una lettera di convocazione per le due..
— Sono soltanto le due... Sedetevi e ditemi il vostro nome, galantuomo.
Aquilino a sentirsi trattato col voi, come un fattore di campagna, fu per rispondere all’illustrissimo signor scrivano che non gli pareva di aver succiato con lui a balia; ma preferì compatire al farsi compatire. Sedette e cominciò a carezzare col dito il pelo scarso di un cilindro sufficientemente rispettabile.
— Il mio nome è Aquilino Ratta del fu Vincenzo, impiegato al R. Lotto, Banco N. 94 — disse in un tono freddo, in cui si sentiva una certa fierezza burocratica.
— Siete parente della vecchia Ratta testè defunta? — disse di nuovo il mezzo avvocato, alzando il capo in modo che pareva volesse guardare colle narici.
— Sissignore, lo siamo — ribattè con un fare cerimonioso e carico d’ironia. — La povera signora Carolina Ratta era una nostra prima cugina.
— Conoscete gli interessati?
— I Ratta quasi tutti, per servirla.
— Potreste fornire delle prove, galantuomo, che la vecchia defunta avesse intenzione di favorire in modo speciale i parenti poveri? l’avvocato mi ha incaricato per far presto di raccogliere quante più notizie possono giovare all’istruttoria della causa.
Aquilino questa volta arrossì e socchiuse gli occhi. Era disposto a compatire, ma chi dava a uno sgangherato scrivano il diritto di chiamarlo galantuomo? Galantuomini dobbiamo essere tutti, ma appunto per questo non c’è bisogno che altri venga a dircelo. Aquilino non avrebbe mai detto a una persona rispettabile: — Si accomodi, signor rispettabile cavaliere. — Ma chi ha educazione, chi non ne ha. E anche questa volta, guardando in fondo al cilindro, si limitò a rispondere:
— Ecco, prove, diremo così, palpabili, non ne abbiamo. Possediamo delle allusioni.
— Degli indizi volete dire, delle prove indirette...
— Lei ha studiata la legge e troverà la parola giusta — ribeccò con più fiera ironia, indicando un libro stracciato sul tavolo che aveva tutto l’aspetto di un vocabolario. — Per conto mio so che andavo tutte le sere a fare una partita a tarocco e so che la buona parente voleva sempre me per compagno. Alla madonna d’agosto m’invitò a mangiare un’anatra, e dopo pranzo, presente la sora Santina...
— Chi è questa Santina?
— La sora Santina era la donzella di casa Ratta, quella stessa che il signor Tognino mise alla porta.
— La donna di servizio, volete dire.
— Tutti dicevano donzella, e io sto col clero.
— La governante, la fantesca, sì, sì, la conosciamo.
— Come vuol lei, sorr... — rispose Aquilino, tirando in lungo le erre per far capire che uno può avere della superbia ed essere un bel niente. — Presente la sora Santina, la buona parente mi disse: — Aquilino, quando sarò morta sarete contenti tutti. — «Che cosa dice, signora cugina? tutt’altro lei deve campare più di noi.» «Non sarebbe giusto, dice lei, più che vecchi non si campa. Io mi ricorderò dei parenti del mio povero Gioacchino.»
— Chi è questo Gioacchino? — domandò lo scrivano, che andava pigliando degli appunti sopra un foglio.
— Gioacchino adesso non è più niente, perchè è morto: ma da vivo era il marito della povera defunta. Più tardi, il giorno di San Carlo, che è ai quattro di novembre...
— Sappiamlo... — interruppe il Mornigani, gonfiando le narici.
— Andai per farle i miei auguri e l’ho trovata seduta nella sua poltrona accanto alla finestra. — Sei Aquilino? — domandò.
Il vice-ricevitore cercò di riprodurre il tono asmatico dell’ottuagenaria.
— Sissignora, sono io, sora cugina — rispondo.
— Sei buono, Aquilino, di levarmi un dente che mi dà fastidio?
― Proverò ― dico io. ― Era un dentone a sinistra già tutto sconnesso, lungo come una lesina, che gli dava pena, poverina. E io con un poco di filo, trac, glielo levai netto come un corno.
Il Mornigani, che nel suo interno godeva più che alle marionette, imitò il gesto con cui il vice-ricevitore accompagnò il suo trac, e fingendo di tener preziosa nota della disposizione, scrisse in fretta, ripetendo sottovoce dente... corno... anatra...
Aquilino, che non tollerava d’esser preso a zimbello, alzò un dito all’altezza dell’occhio e osservò:
— Non credo necessario che ciò sia scritto a verbale; ma ho voluto soltanto citare il fatto per dimostrare, dirò così, l’intimità e il sanfason con cui essa ci trattava. Punto primo una signora non si lascia mettere le mani in bocca dal primo che capita.
— E questo dente lo conservate ancora?
Aquilino tuffò due dita nella tasca del panciotto e trasse un scatolino bianco di farmacista, l’aprì e mostrò al Mornigani un bel dente, sano come un corallo, tuffato in mezzo a della bambagia.
Il mezzo avvocato, soffocando nelle gote la gran voglia di ridere, e simulando un serio interessamento, si alzò un poco, e s’inchinò a osservare attraverso una grossa lente col manico, che tolse dal tavolo, il prezioso documento. E vide anche lui un bel dente sano, bianco, ingrandito dalla lente nella misura di una chicchera da caffè.
— So anch’io che un dente non può parlare — osservò a tempo Aquilino, prima che la gente corresse a giudicarlo un ignorante — Non lo conservo se non come una prova di confidenza.
— Io credo qualche cosa di più. Si sono viste delle ragioni appoggiate a documenti meno solidi — seguitò gonfiando le grosse narici il furbo scrivano, che si preparava a fondare su quel dente una allegra storiella da far ridere tutti i preti della sagrestia. Non volendo guastare il suo uomo, prese un tono serio, e ripigliando la penna in mano, domandò:
— Conoscete un certo Berretta?
— Berretta? ne conosco due. Uno era tamburino della mia compagnia, ma questo è morto a Mestre, nel 49, a due passi dal bravo Poerio. Avrà sentito nominare Poerio....
— Un fabbricante di cioccolata?
Ora toccò ad Aquilino ridere di gusto nel fondo del suo interno.
Tanta superbia e non saper nemmeno il nome dei fondatori della patria! Ma non credette della sua dignità di perdere il fiato con un frustapenne. Crollò il capo e seguitò:
— Nossignore, la cioccolatta non c’entra. — E sorrise amorosamente, mentre coi due diti stringeva e rotolava il piccolo pizzo di barba che riempiva la fossetta del mento.
— L’altro Berretta che conosco è il portinaio.
— Sapete che fu arrestato?
— Arrestato? — esclamò Aquilino tutto sorpreso ― Arrestato dalle guardie?
— Dalle guardie, sissignore, e tradotto al cellulare.
— Io resto di carta. Ma perchè?
— Il sor Tognino ha scoperto che tutte le notti il Berretta metteva in cantina una bottiglia di barolo: quando la cantina fu troppo piena, l’ha fatto menar via....
Il mezzo avvocato alzò un poco il viso dalla carta e rise coi buchi del naso, che all’Aquilino faceva l’effetto d’una trappola.
— Io casco dalle nuvole. Don Giosuè assicurava che il Berretta sarebbe stato un buon testimonio nella nostra causa.
— Per questo il sor Tognino l’ha fatto legare.
— Ma, punto primo, per far legare un uomo ci vuole un motivo.
— La sete, la sete, la sete, galantuomo.
Aquilino rimase così colpito da questa notizia, che non dette più peso al titolo di galantuomo, che per la terza volta il frustapenne gli buttava sul viso. Raccolse la mente e, tentennando il capo, parlò con sè stesso, osservando che con Tognino non era facile scherzare. I preti fanno tutto facile e credono che il diavolo abbia ancora paura dell’asperges; ma il diavolo è vecchio più dei preti, e l’acqua santa, in giornata, non fa paura nemmeno ai cani idrofobi. Credevano di pigliar Tognino nel trappolino come un topolino; e Tognino cominciava col far legare il Berretta, e, un dopo l’altro, c’era da aspettarsi che facesse legare l’Angiolina per insulti e calunnie, e poi forse anche il Boffa, che gli aveva mostrato un pugno, e, guerra per guerra, non è la corda che manca a Milano: basta! A buon conto egli aveva la coscienza di essere sempre rimasto nei limiti del rispetto: e quando un uomo opera col testimonio della coscienza, non deve aver paura del suo diritto. Con tutto ciò era prudente andar col piede di piombo. Si fa presto a fare un buco nell’acqua.
— Dite un po’, Aquilino — riprese dopo un istante lo scrivano — non conoscereste per caso una certa Olimpia?
In un altro momento il reduce delle patrie battaglie avrebbe potuto far osservare che, se Aquilino era il suo nome di battesimo, non credeva per questo d’aver mangiato un sacco di sale col sor avvocato dalle gambe lunghe. Ma ora gli stava a cuore di schiarire le circostanze e rispose che non conosceva affatto la signora Olimpia.
— È una cantante, ma di quelle che cantano poco.
— Non conosco gente di teatro.
— Si dice che sia l’amante del sor Maccagno iunior.
— Iunior? uno svizzero?
— Ecco il nostro don Giosuè! — sorse a dire con intonazione vivace il Mornigani, andando incontro al canonico, e fregandosi una mano sul palmo dell’altra, come se si lavasse con un pezzo di sapone.
Aquilino osservò che il mezzo avvocato vestito di nero con falde lunghe e penzolanti pareva un prete, mentre il canonico, salvo sempre il dovuto rispetto, pareva un cavallante. La religione cattolica sarebbe forse meno perseguitata, se i ministri di Dio avessero meno paura dell’acqua del pozzo.
Il Mornigani, ridendo col rumore d’una carrucola, dopo aver abbracciato don Giosuè colla confidenza che chierici, giornalisti e cantanti hanno col loro riverito prossimo, esclamò:
— Oh che diavolo d’un don Giosuè! Sappiamo che lei ci ha fatto una visita.
— Sta zitto, gambero — brontolò il vecchio prete, urtando il pettegolo nel gomito.
— Che male infine? per salvare una pecorella smarrita nostro Signore....
— Va via, mammalucco! — brontolò di nuovo il prete, facendo la faccia del ranocchio.
― Ih, ih, ih.... — tornò a ridere il Mornigani, sbattendo sotto lo zimarrone nero le due gambe, lunghe e sottili come quelle d’un cavalletto da pittore. — L’avvocato ha moglie e figli ed è uomo troppo rigoroso per esporsi ai pericoli della carne. Se è vero che Olimpia ha visto qualche cosa, non bisogna lasciarla scappare.
— Canta ancora questa...? — si arrischiò a domandare il prete.
— Sollo io? o canta o fa cantare i merli....
E il gamba lunga tornò a dare una fregatina sulla mano.
Aquilino, per quanto cercasse di non occuparsi dei discorsi altrui, non potè a meno d’osservare che è poca creanza parlare a voce alta in pubblico luogo di cose a doppio fondo, e ridere e corbellare con un prete così. C’è della gente che l’educazione non sa neanche dove stia di casa. Sentendo un’altra volta nominare la bella Olimpia, la bella cantante, fu a un pelo di domandare se questa brava signora entrava anche lei nella causa dell’eredità.
Ma il suo desiderio fu troncato a mezzo dalla voce chiara e limpida d’una donna, che entrò senza aspettare il permesso.
L’Angiolina, invece del solito vestito di cotone e del solito scialle color frittata, che l’allacciava come una mortadella di Bologna, aveva un bel vestito di seta verdognola, con fosforescenza d’ale di farfalla, con una catena al collo, con anelli sui grossi diti, con buccole massiccie negli orecchi, d’un oro giallo come il risotto, che litigava col pomodoro del suo faccione ancora fresco.
Con lei entrò la Santina, la donzella di casa Ratta. Questa povera cristiana malaticcia, con due occhi che parevan pieni di cenere, venne avanti avviluppata fin sopra ai capelli in uno sciallo scuro, che dava alla sua persona magra e prolissa la figura di una sanguisuga.
— È qui che l’avvocato tiene la circonferenza? Madonna della Saletta, non poteva pigliar casa un po’ più vicino? È come andare in Siberia. To’ Aquilino. Sempre puntuale come un orologio Aquilino. Bravo e coi guanti! e anche il cilindro.... Conoscete la Santina? È mezza malata e senza voce e non voleva venire! ma io l’ho condotta per forza. Ci dobbiamo essere tutti a questo quarantotto. L’avvocato mi deve sentire. Ho mangiato apposta tre acciughe stamattina per mettermi in forza di cantare, e se l’avvocato non ha gli orecchi foderati di stagno, sentirà una bella campana. Intanto Tognin Gattagno non ha osato fare dei processi all’Angiolina; e invece si vede questo, che un’Angiolina fa dei processi a Tognin Raffagno. Dove si paga? qui? pago subito...
L’ortolana si accostò al banco dove il Mornigani prese nota del nome e delle generalità. Intanto don Giosuè moveva incontro a don Felice Vittuone, che entrava in quella e lo fermò sullo stipite. Il buon vecchietto, tirato in quella bega da un sentimento di dovere e di giustizia, avrebbe voluto far trionfare delle idee di conciliazione. Una causa non giova che agli avvocati, mentre, secondo il suo discreto modo di vedere, sarebbe stato più utile cercare di ottenere una transazione amichevole, e finirla colla pace di Dio.
— Voi conoscete benissimo san Tomaso, caro don Felice, ma non conoscete affatto chi sia il nostro Tognino — osservò don Giosuè con una certa furia, mettendo le sue mani giallognole sopra il magro stomaco del vecchietto, che sorrideva con indulgenza. — Sono idee buone per una predica, caro voi. Non vi dà l’ombra di un soldo sto malandrino, se cominciate a parlare di conciliazione e di transazione.
— Colla rendita di un anno può contentare una parte...
— Ci manderà tanta corda per impiccarci. Transazione vorrebbe dire riconoscere in qualche maniera i nostri diritti, e Tognino è birbone, ma non bestia.
— A questo mondo bisogna guardarsi anche dal guadagnar troppo... — osservò evangelicamente il prevosto; ma don Giosuè, infuriandosi, cercò dimostrare che gli asini non piaciono nemmeno al Signore.
— Eppure è a cavallo d’un asino che ha voluto trionfare in Gerusalemme — notò l’altro, celiando con bonomia.
— Per questo l’hanno messo in croce.
Sospinti dal battente dell’uscio, i due preti dovettero cedere il posto e lasciar passare la elegante e venusta Sidonia Borrola, che entrò a braccetto del cav. Massimiliano Maccagno, capitano d’artiglieria, venuto apposta a Milano dal suo distretto d’Alessandria per assistere all’adunanza.
Mauro Borrola, che aveva la pancia a portare, entrò un momento dopo ansante e sudato. Visto i due preti, cominciò a gonfiare le ganascie e a brontolare il suo rosario contro i pipistrelli. Ma don Giosuè non gli lasciò il tempo d’andare in collera. Fattogli un segno con un dito curvo come un uncino, lo tirò nel vano della finestra per metterlo a parte d’un segreto, in cui entrava ancora la bella Olimpia, la cantante, la quale...
A ogni frase del vecchio prete il faccione di Mauro Borrola prendeva un’espressione di meraviglia e di maggior benevolenza, come un sipario che dal buio viene a poco a poco rischiarato dai lumi della ribalta. Si voltò a cercare Sidonia, per comunicarle la importante notizia; ma il Mornigani aveva già introdotta la signora e stava introducendo gli altri nello studio.
Era lo studio dell’avvocato una sala lunga con tre finestre, che davano sopra i piccoli giardini verso il canale di San Gerolamo, con travi e stipiti dipinti a rabeschi rococò, logorati dal tempo, ma conservanti ancora al disotto delle rinzaffature qualche traccia dell’oro e del fasto d’una volta.
Tra una finestra e l’altra erano appese in semplici cornici di legno le stampe dei famosi quadri del Duomo, rappresentanti molti episodi della vita di san Carlo Borromeo, e di sotto ai quadri in ovali di gesso i ritratti dei sommi pontefici.
Nel fondo era la libreria colla scrivania del famoso avvocato consulente, zeppe di carte, di cartelle, di libri, e nel mezzo apriva le braccia un mite crocifisso addossato a un fondo di panno rosso ricamato d’oro.
Davanti alla scrivania il Mornigani aveva disposto tre o quattro file di sedie di pelle, dove di volta in volta fece sedere gl’invitati, pigliando il nome di ciascuno sopra una lista di carta, e procurando di avvicinare le persone più pulite sul davanti e la poveraglia in fondo.
L’Angiolina, non contenta del suo posto, mosse una sedia e andò a collocarsi nel bel mezzo della prima fila, di fianco alla bella e superba cantante, che si degnò di guardar la sua vicina con occhiate lunghe piene di compatimento.
— Oggi canto anch’io, madama; sentirà che voce! — disse apposta per far rabbia a una smorfiosa infarinata come il pan francese.
Madama Sidonia si compiacque di sorridere d’un sorriso che non uscì dalla pelle. Si tirò su, si impettì, e fece capire che non aveva gusto di parlare con persone sconosciute. Venendo in quel momento a capitarle davanti Mauro, si mosse d’un posto e mise tra lei e l’ortolana il ventre del marito.
Intanto, su per le scale, raccolti e guidati dal Boffa, che per la circostanza non s’era nemmen lavata la faccia, venivano altri parenti, cugini di terzo e quarto grado, che di Ratta non avevano che il nome, messi insieme per forza, per fare il numero grosso e per incutere paura a Tognino. C’erano in mezzo a quei poco ben vestiti faccie scialbe di portinai, che respirano l’aria dei sottoscala senza luce, faccie scure di magnani e di ciabattini, faccie lunghe e livide di sarti e di cucitrici, faccie istupidite di contadini, che non avevano conosciuta mai questa loro parente milionaria, che non capivan nulla: gente che don Giosuè era andato a scovare fin dai cascinali della Valsassina (i Maccagno venivano di là) e del basso Milanese, aiutandosi sui registri parrocchiali e servendosi a questo scopo dell’aiuto della curia arcivescovile.
Il Mornigani, aiutato dalle mani legnose di don Giosuè, riuscì a spingere a poco a poco quella torma di scarpe grosse, pesanti come il piombo e a distribuirla in fondo sull’ultima fila di sedie: prese ancora qualche nome sulla lista, notò la professione, l’abitazione, il grado accademico, i titoli cavallereschi, e, quando gli parve che ci fossero tutti, andò ad avvertire l’avvocato.
Tra fabbri, magnani, agricoltori, portinai, ortolane, preti, impresari, regi impiegati, meccanici, cantanti e cavalieri, erano in tutti una trentina, senza contare le procure e quelli che avevan data carta bianca in mano all’avvocato patrocinatore.
Tutta questa gente, raccolta nella sala sotto la soggezione dei sommi pontefici, mantenne sul principio un contegno freddo e mortificato, tra la paura e la diffidenza. Rotta a poco a poco la soggezione, che teneva l’un l’altro in rispetto e quasi in sospetto, cominciò un ronzìo, un bisbiglio come una pentola che sente il calore. Le parole si mescolarono, le mani si toccarono, si rinnovarono conoscenze, si comunicarono notizie, rapporti, reciproche spiegazioni, producendo in fine un frastuono che il Mornigani fece subito cessare con un battere secco delle sue mani lunghe e piatte come pantofole.
Si sentì squillare a lungo un campanello elettrico. Una porta, alla destra della scrivania, si aprì e comparve un giovinotto biondo biondo, cogli occhiali lucidi, con un fascio di carte sulle mani, colla cannuccia in bocca; si pose a sedere a un tavolino in disparte, dove collocò gli atti, dove si diè un’energica fregatina di mani. Quindi cominciò la pulizia degli occhiali.
Qualcuno riconobbe nel giovinotto biondo biondo un bravo avvocatino, un bel partito per una ragazza educata nei savi principii. Da un anno faceva la pratica nello studio Baruffa.
Un altro squillo nervoso di campanello. La porta si apre di nuovo, e, preceduto da un moderato scricchiolìo di scarpe, ecco entrare l’avvocato in persona, inchinarsi tre volte all’assemblea, che si alzò per rispetto, venire a stringere la mano, strisciando le suole sul mosaico, a Sidonia, al capitano, all’Angiolina, che allungò la sua col mezzo guanto di refe, all’Aquilino che arrossì un poco dell’onore (non si è mai veterani abbastanza nella vita): salutò con un cenno amichevole tutti gli altri più lontani che riassunse con una morbida occhiata e andò a mettersi nella poltrona di damasco, svolse un rotolo, si piegò verso il giovine biondo per chiedere una spiegazione, chiamò col dito il Mornigani, che corse a prendere altre carte.
Intanto la gente ebbe comodità di osservare che l’avvocato Gerolamo Baruffa, cavaliere di San Gregorio, era ancora un bell’uomo fresco, poco in là della cinquantina, colla fronte alta e spaziosa, che andava a finire in un cranio lucido come una biglia, costeggiato da capelli ancora neri. Due basette regolate e leggermente toccate da un pennello facevano comparire più candida la carnagione morbida e ben nutrita. Gli occhi grandi si nascondevano spesso sotto due folti sopracigli e non uscivano dal loro nascondiglio, se non quando avevan bisogno di perlustrare, diremo così, i dintorni d’una posizione. L’Angiolina notò due cose: che aveva due manine da signora e che una volta il sant’uomo adocchiò con una certa compiacenza la bella cantante.
Quando il Mornigani tornò colle carte, l’avvocato, data una scossa al campanello, si alzò, si passò la mano sul labbro e con tono sommesso, quasi di confidenza, in mezzo a un religioso silenzio, prese a dire:
— Signori...
Aquilino socchiuse gli occhi e per sentir meglio aprì la bocca.
— Non ho bisogno, o signori, di spiegare il motivo per il quale noi siamo oggi qui raccolti, nè di manifestare il grado d’interesse ch’io porto a questa, non dirò causa vostra, o causa mia, ma a buon diritto causa nostra; imperocchè nel beneficio dell’eredità Ratta io devo essere interessato non meno di voi, sia pei dritti miei acquisiti in molti anni di non interrotta fiducia, come pei dritti di pie istituzioni che ho più che l’onore — il dovere — di rappresentare.
Questo esordio, detto con voce solida e chiara, che rispondeva a meraviglia a un pensiero chiaro e solido, fece una buona impressione sull’animo degli uditori, che con una leggera scossa si accomodarono meglio, tesero i colli, aprirono occhi e orecchi.
L’avvocato, dopo aver contemplato un poco la punta delle unghie, seguitò:
— Le linee fondamentali della causa son presto segnate. Noi siamo qui non già per impugnare la validità di un testamento, che la sagacia d’un uomo, che per ora mi limiterò a chiamare avveduto e scaltro, ha saputo preparare in tempo opportuno, munito di tutti i requisiti che la legge domanda in documenti di simil natura. Io ho riscontrato il testamento depositato in mano del notaio Baltresca e ho trovato che per la forma puossi considerare come un testamento di ferro, inespugnabile. È tutto di mano della defunta, debitamente firmato, con data che risale all’agosto dell’anno scorso, ed è in questo testamento di ferro, o signori, che d’una sostanza di quasi quattrocento mila lire vien nominato erede universale il signor Tognino Maccagno, primo cugino della defunta testatrice, coll’obbligo a lui di assegnare vari piccoli legati o donazioni ai parenti più bisognosi.
— Il birbonaccio! — scappò detto all’Angiolina, che non poteva più star ferma sulla scranna.
La parola non fece ridere nessuno, perchè ognuno era sotto la grave impressione di quel testamento di ferro. L’avvocato chetò la donna con un gesto della manina e seguitò:
— Noi, ripeto, non possiamo impugnare l’autenticità di quel documento chirografico e io sarei non una, ma due volte mentecatto, se volessi contrapporre a questo un altro testamento del 78, da me in parte ispirato e alle mie mani affidato dalla stessa defunta signora Carolina, due anni prima che si facessero sentire e operassero sopra di lei delle influenze, che mi limiterò a chiamare per ora poco leali e poco corrette. Di queste disposizioni del 78 farò dar lettura a voi tra poco, affinchè possiate conoscere se le ispirazioni del vostro avvocato erano in quel tempo, come s’è voluto far credere da maligni interessati, subdole e rapaci.
E sollevando a un tratto il tono della voce, con un severo aggrottamento dei sopraccigli, soggiunse:
— Signori! ciò che noi vogliamo e speriamo massimamente di dimostrare coi mezzi che la legge mette a disposizione nostra si è che il testamento Baltresca, per così chiamarlo, non è l’ultimo dei testamenti segnati dalla defunta Carolina: ma che dopo di questo ve ne deve essere un altro del dicembre dell’anno testè spirato. Dimostreremo quindi che, o questo testamento esiste in mani che mi limiterò a chiamare per ora avare e strette, o che viceversa il testamento fu distrutto. Dell’esistenza di questo importante documento abbiamo, o signori, due qualità di prove, le une dirette, indirette le altre. Le dirette sono: — Primo: una copia di esso in carta semplice e non firmata, fatta da don Giosuè Pianelli, qui presente, confessore della defunta Carolina, uomo superiore a ogni sospetto. Di questa copia farò dare lettura a tempo opportuno, perchè ciascuno di voi possa farsi un’idea dell’entità della causa, della sua importanza morale e materiale e della presunzione nostra. — Secondo: la testimonianza dello stesso reverendo canonico don Giosuè pronto a giurare che veramente la defunta ha scritta una carta. Se non che la diffidenza da cui era tormentata la debole vegliarda, la trattenne dal rilasciare a persona di fiducia nostra il prezioso documento. Ciò fu ragion sufficiente perchè altre mani, che mi limiterò a chiamar agili, se ne impadronissero; quindi ogni traccia di questo nuovo atto, che doveva essere per la pia signora un atto di risipiscenza e di riparazione, sparì; una volontà più forte della sua, quella volontà, che da molto tempo la dominava spaventandola, rese frustraneo ogni tentativo di ribellione: la coercizione spense il libero arbitrio: la violenza, il diritto...
L’avvocato Baruffa battè colle nocche sul tavolo, come se schiacciasse gli ossi a questo povero diritto così spesso conculcato, e alzò la testa con un moto leonino. Un fitto bisbiglio l’applaudì. Ripreso il discorso, alzò le due mani e avviò un’altra argomentazione, dicendo con voce più chiara:
— Ora voi direte: se il prezioso documento, se quello che dovrebbe essere per noi il testamento d’oro è scomparso, e non ci resta che battere il capo sul testamento di ferro, su che cosa andiamo noi a fabbricare le nostre speranze? — rispondo: sulle prove indirette, cioè: — Primo: noi sappiamo che intenzione della defunta non fu mai di negare ai parenti anche più poveri il beneficio della sua eredità... (e di ciò molti di voi saranno chiamati a testimoniare).
— C’è la Santina, c’è Aquilino... — saltò su di nuovo l’Angiolina.
— Abbiate pazienza, buona donna. Ora parlo io, poi sentiremo anche voi.
— Dopo, sor avvocato sentirà la messa cantata.
Una grossa ilarità salutò queste parole. L’avvocato, che era rimasto attaccato con un dito al pollice dell’altra mano, portò il dito sull’indice e contò:
— Secondo! La pietà della buona defunta non poteva suggerirle di defraudare della sua carità le istituzioni di beneficenza. E infatti nel testamento del 1878 è fatta gran parte a queste istituzioni. Come si spiega il cambiamento nel testamento Baltresca? Aveva la pia signora perduta ogni fede nella religione e nella carità? — Terza prova indiretta (e alzò il medio): La confessione del portinaio Pietro Berretta, il quale ha dichiarato come veramente, la notte dopo la morte, il signor Tognino Maccagno, presente cadavere, entrasse a cercare una carta nella stanza della defunta.
— Ah, ah, ah... — esclamarono diverse bocche, ed erano i pochi a cui questa circostanza arrivava nuova.
Gli altri, come se non potessero resistere al fascino di quei tre diti che l’avvocato teneva alti sulle loro teste, si mossero e ballarono sulle sedie.
— Quarto! La confessione del Berretta fece tanto paura al nominato Tognino Maccagno, che egli cercò subito di infirmarla, e non potendo sottrarre un uomo come si sottrae una carta, procurò di diminuirne la credibilità, coll’accusare un povero uomo di furto qualificato e facendolo tradurre come un malfattore in carcere. Il signor Maccagno vuol dimostrare con ciò che il testimonio è bugiardo, perchè è ladro: noi andremo più in fondo, o signori, e sapremo dimostrare che il signor Maccagno è ladro, perchè è bugiardo...
— Bravo, bene... — scoppiò da varie parti.
L’ambiente si riscaldava. Tutti si guardavano in viso con occhiate piene di calore, che sommate produssero una corrente di simpatia verso il valentuomo, il quale con animata eloquenza e ferrea dialettica sapeva così bene interpretare ciò che ognuno sentiva nel cuore come un gruppo ingarbugliato. La solidarietà dell’impresa faceva scomparire le differenze sociali e nel comune interesse tutti si sentirono alleati e fratelli. Fu per qualche tempo un agitato muoversi di braccia e di gambe; chi lodava l’argomentazione dell’avvocato, chi l’avvedutezza di don Giosuè, chi si fece rosso per il gusto e per la speranza, chi per poco non si sentì il testamento in saccoccia. E l’avvocato, tenendo sempre elevati e diritti i suoi quattro diti, lasciò passare con un sorriso di compiacenza il piccolo subbuglio; poi, aggiungendo ai quattro diti grossi anche il mignolo, gridò in tono di vittoria:
— Quinto!
Il silenzio divenne di nuovo perfetto. Si sarebbe sentito volare una mosca.
L’Angiolina, che non poteva più stare nei vestiti, si alzò, si voltò verso la platea e sollevata anche lei la sua mano grossa e aperta come un ventaglio, gridò anche lei:
— Quinto!
— Nuova e preziosa testimonianza abbiamo in persona, che il segreto professionale m’impedisce ora di nominare, la quale è in grado di provare che il signor Maccagno entrò veramente nella stanza della defunta, mise sottosopra roba e carte... cercò nei cassettoni... frugò nello stipo... nel letto medesimo dove la morta giaceva. A che scopo? A cercar che?
E mentre l’avvocato lasciava cadere queste gravi parole, come altrettante goccie d’oro colato, era a vedersi la diversa espressione delle faccie, certi occhi imbambolati, certi cordoni del collo tesi, certe bocche semiaperte a gustare tutto il sapore di quelle grandi cose. I cuori s’eran fatti duri e stretti, non respiravasi più per non disturbare. L’oratore, continuando in un tono domestico, come tra parentesi, conchiuse:
— Qui non posso dir tutto, ma ciò che dirò in tribunale sarà abbastanza pel signor Maccagno. A ogni modo voi vedete che se l’eredità fatta dal suddetto signore è splendida, non si può con egual sicurezza dimostrare che essa sia solida e invidiabile! Oh! noi non andremo a impugnare i testamenti di ferro; ma inviteremo il fortunato erede a confutare i nostri testimoni e a dimostrare al giudice e al pubblico ch’egli è un uomo onesto e delicato. Noi non potremo negare l’esistenza d’un atto che nomina unico erede d’una sostanza di quattrocentomila lire un cugino quasi ignoto fino a ieri alla stessa testatrice; ma noi — e quando dico noi intendo tutti voi — obbligheremo l’abile signor Maccagno a dimostrare che coercizione morale non ci fu, quando si videro allontanati dalla casa della ricca benefattrice i più vecchi e fedeli amici, che da quindici, venti, venticinque anni l’avevano assistita col consiglio disinteressato e prudente; quando si videro da lei, piissima credente, respinti gli stessi sacerdoti a cui aveva chiesto più volte il conforto dei beni spirituali; quando si vide allontanata dalla testatrice la fantesca Santina Rovatti, ch’essa s’era tratta in casa fanciulla e del cui fedele servizio s’era per vent’anni lodata...
— Sì! sì!... — proruppe singhiozzando la povera donzella di casa Ratta, a cui l’avvocato inacerbiva una piaga.
E molti le furono intorno a compassionarla, a compatirla, mentre l’avvocato, che sentiva d’avere il suo uditorio in pugno, incalzava più forte:
— Qual meraviglia se una vecchia di ottantacinque anni cedesse e cadesse vittima di questo sistema di ingiustizia e di violenza, ripudiasse quel che aveva già ordinato e scritto, scrivesse quel che le facevano scrivere, andando contro nella debolezza senile della sua ragione ai sentimenti più naturali del suo cuore? Qual meraviglia che un giorno, vicina a battere alla gran porta del supremo giudice, quando pare che nel morente riviva la fiamma della coscienza, chiamasse il suo antico confessore e, approfittando d’un momento in cui si sentiva meno sorvegliata, distruggesse, in poche righe, disposizioni estorte per ritornare con un atto di naturale rinsavimento alle primiere disposizioni più consone alla sua benevolenza e alla sua coscienza? E ciò ha potuto avvenire in quel momento appunto perchè Tognino Maccagno non era là. E ciò avvenne perchè la stessa Giuditta Canzi, la donna spia che le avevano messo al fianco, non ha potuto negarlo. Ciò era naturale, dico, consono a’ suoi sentimenti, perchè... (e nel calore del dire la testa dell’avvocato s’era fatta rossa come un pomo) perchè non una, ma cento prove abbiamo che la testatrice fu sempre benevola verso i parenti poveri. Agli uni faceva pervenire segrete limosine, agli altri dava sussidio di consigli ed appoggi, molti invitava alla sua mensa e, non richiesta, si abbandonava a lusinghiere promesse. Aquilino Ratta, qui presente, eroe delle patrie battaglie, onesto impiegato, soldato non avvezzo a mentire, verrà a testimoniare fin dove arrivasse la confidenza della veneranda signora verso i parenti di umile condizione.
Aquilino, non resistendo alla seduzione di quella voce armoniosa e calda, che carezzava così bene il suo amor proprio, mentre arrossiva colla timidezza di una fanciulla, tuffò la mano nel taschino del panciotto, ne tirò fuori lo scatolino, lo scoperchiò e mostrò ai vicini il bellissimo dente, che prese a girare di mano in mano come una reliquia.
— Ecco, ecco il terreno, — continuava intanto a tonare la voce dell’avvocato, — ecco il terreno, sul quale cercheremo di tirare il nostro fortunato avversario. Se noi staremo uniti e compatti, se non ci spaventeremo dei primi sacrifici, vi prometto che gli faremo un tal letto, che quello di Procuste in paragone dovrà sembrare un letto di rose.
— Bravo, molto bene! — sorse a dire col suo vocione di baritono il cav. Borrola, agitando la mazza col pomo d’avorio, acceso anche lui dall’entusiasmo, a cui non sfugge mai un’anima d’artista davanti all’eloquenza vera. Pigliando la parola per sè e per gli altri, recitò anche lui un discorso, in cui si fece interprete dei sentimenti conculcati, dei diritti vilipesi, dei...
Ma l’assemblea non era più in grado d’ascoltare dei discorsi. I pianti della donzella di casa Ratta, le saette dell’Angiolina, il dente di Aquilino, le rivelazioni, i sottintesi dell’avvocato, le illusioni suscitate, fomentate, ingrandite, il desiderio di fare qualche cosa in odio a Tognino Maccagno, il fascino luminoso delle quattrocentomila lire, che stendevasi di sopra coi bagliori di un immenso sole, riscaldò siffattamente gli animi, che a fatica potè farsi sentire, in mezzo allo schiamazzo delle voci, la voce del campanello.
Ognuno aveva idee proprie da suggerire, argomenti da portare, una prova da metter fuori, una testimonianza, un ricordo da aggiungere per frangia. Aquilino, preso in mezzo in un cerchio, cercava di spiegare a tre o quattro poveracci stracciati come ladri il meccanismo della causa, che Battistino Orefice, il pittore di scene, seguitava a definire un buco nell’acqua.
L’Angiolina, che il diavolo non poteva più tenere, s’era messa a sedere davanti al tavolo dell’avvocato e predicando, coi pomelli rossi, andava mettendo sottosopra le carte. Il brav’uomo non arrivava a tempo a togliergliele di mano. Finalmente un’altra scampanellata, rinforzata dai colpi sonori di due mani larghe come pantofole, rimise l’ordine.
— Silenzio! Come ho detto, farò dar lettura del primo testamento del 78, al quale si riferivano le disposizioni che la testatrice qualche giorno prima di morire dettò a don Giosuè Pianelli. Anzi comincerò a dar conoscenza di queste disposizioni nella copia che don Giosuè tenne con sè e che si trova allegata agli atti del presente processo. Silenzio, laggiù, se dobbiamo intenderci. Ecco dunque la forma del documento che il nostro buon amico Maccagno avrebbe avuto l’agi...li...tà... di far scomparire: «In nome della Santissima Trinità, io sottoscritta, Carolina Maccagno vedova di Gioacchino Ratta, ancor sana di mente, ancorchè debole di corpo e prossima a presentarmi al tribunale del supremo Giudice, memore dell’affetto che mi lega a tutti i membri della mia famiglia e di quella del mio compianto consorte dichiaro annullate quelle qualunque disposizioni testamentarie che posso aver segnate nella mia debolezza e non riconosco per mia ultima e sincera e libera volontà, conforme agli obblighi della mia coscienza, che il testamento del 20 agosto 1878 da me dettato e consegnato al signor avvocato cav. Gerolamo Baruffa, abitante nella piazza di Sant’Ambrogio in Milano, al civico numero 24, e nomino di nuovo detto avvocato Baruffa mio esecutore testamentario, incaricandolo di dividere la mia sostanza nei modi che in detto testamento sono indicati a beneficio, parte de’ bisognosi miei parenti e di pie istituzioni di carità, parte agli altri parenti, non che a suffragio dell’anima mia. In fede...»
E qui manca la firma. Ma che l’atto autentico sia stato scritto e firmato dalla morente, c’è qui don Giosuè, il quale potrà riferire.
Tutti si voltarono verso il prete, che rosso e caldo in viso quanto si poteva vedere al disotto del suo colorito di vecchia pipa, agitando le mani legnose e parlando coi soliti gusci in bocca, raccontò a chi ne aveva bisogno come veramente la signora Carolina avesse scritta, firmata e poi trattenuta la carta; come, prima di morire, avesse fatto segno di aver firmato, ma in quel momento entrò il sor Tognino, reduce da Lodi, dov’era stato chiamato tra i giurati, s’impadronì delle chiavi, e addio. Firmata o non firmata, una carta ci doveva essere, laddove invece...
— Laddove invece, — seguitò l’Angiolina, picchiando un pugno sulle carte dell’avvocato e voltandosi verso l’adunanza a predicare, — laddove invece s’è trovata una bella….
L’avvocato la fece sedere per forza e, agitando il campanello sul naso dell’ortolana, gridò:
— Avete inteso? facciamo silenzio? adesso, se state zitti, farò dar lettura del testamento del 78, o meglio, per accorciare la seduta, essendo il documento abbastanza particolareggiato e prolisso, lo metterò a disposizione di quelli di voi che vorranno consultarlo, tutti i giorni dalle undici al tocco. Di tutti i parenti fino al terzo grado è unita una lista che io sto compilando colla più scrupolosa diligenza, e ciascuno di voi è interessato a portare alla causa comune quegli schiarimenti che valgano a far trionfare la giustizia.
Il rumore, l’acciottolìo, le ciarle non cessarono se non quando la gente incominciò a infilar la porta. Tutti sapevano ormai chi fosse Tognino Maccagno e di quanto fossero suoi creditori. Tutti imprecavano contro di lui, ladro, usurpatore, ciascuno in misura del danno che credeva d’aver sofferto. Sulla scala continuarono le discussioni: si trascinarono fin sulla piazza. Don Giosuè che era l’anima nera di quella congiura prese note, indirizzi, e col suo scartafaccio sotto l’ascella, traversò di corsa la piazza per non arrivare tardi al vespero in Duomo.
Aquilino Ratta rimase un pezzo sotto le piante a spiegare il meccanismo della causa a Michele Ratta e al Boffa, che parevano inebetiti dalla speranza. Aquilino, uomo sereno e non avido, poteva dire di dominare la questione meglio di ogni altro. Tra chi vedeva tutto azzurro e già si sentiva i denari in tasca, e chi parlava di un buco nell’acqua, Aquilino stava in una via di mezzo, nè troppo azzurro, nè troppo buco. Probabilità buone c’erano e non c’erano: l’avvocato era bravo, ma neanche Tognino era grullo. Aquilino era di questo parere, che non bisogna insegnare ai gatti la maniera d’arrampicar sulle piante. I gatti furono sempre gatti e lo saranno sempre. Una cosa sola per parte sua capiva poco, ovvero aveva penetrato poco bene; là dove l’avvocato tirò in scena il letto di Procuste. Capiva che era un’allusione alla storia romana, ma anche supponendo che Procuste fosse stato, per modo di dire, un filosofo famoso dei tempi antichi, non vedeva come c’entrasse il letto; a meno che il filosofo usasse dormire sulla nuda terra.
— E quell’altra parola, chiro... chirografico? — chiese il lattivendolo.
— Quella è chiara. È un modo fino per dire che Tognino è chiro...grafico...! — E Aquilino allungò la parola, accompagnandola con un giro della mano, che spiegò come un ventaglio e chiuse in fretta come se pigliasse una mosca a volo.