Arabella/Parte seconda/6
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VI.
Un cattivo rosario.
Durante la corsa di Ferruccio in mezzo alle strade di Milano, la Colomba, dopo aver fatto bere al Berretta una scodella di brodo e un bicchiere di vino, disse alla Nunziadina:
— Recitiamo il rosario, perchè la Madonna addolorata abbia pietà dei nostri dolori.
Tirò di tasca la corona, memoria della povera Marietta, e cominciò dal mistero che contempla Gesù nell’orto.
Il Berretta, seduto sulla pietra del camino, e la Nunziadina immersa nell’ombra d’un paralume di cartone, rispondevano con un leggiero bisbiglio, con sospiri affannosi in cui stentavano a reggersi le avemarie. E avevan di grazia di poter tenere l’anima raccolta. A ogni passo su per la scala, a ogni gemito e scricchiolìo dell’uscio, il portinaio alzava la testa, aguzzava l’udito nell’aria, per paura che fossero le guardie. La Nunziadina pareva ancora più rimpicciolita sulle gruccette.
La lucerna, col lucignolo abbassato fin dove si può dire che la luce non guasta il buio, lasciava la stanza in una mezza oscurità, dentro la quale le tre figure parevano sprofondare.
Nessun rosario fu più distratto, più scucito. Il Berretta rispondeva or sì or no, sia che i rumori e la paura lo tenessero impennato, sia che la stanchezza e i patimenti d’una giornata di fuga e senza cibo lo tirassero a reclinare il capo e a dormicchiare sopra i pensieri.
Chi andava più lontana a battere la campagna, fuori d’ogni devoto sentiero, era la Colomba. Come se dalla corona si distaccassero, insieme alle avemarie, antiche reminiscenze, il suo cuore tornò indietro a ricordare un’altra notte di spavento, quella in cui era morta la madre di Ferruccio, un affare di vent’anni fa.
Delle tre sorelle la Marietta era la più bella, la più viva, la più romantica com’erano tutte le sartine del suo tempo. Aveva sposato il Berretta, non già perchè il cuore le dicesse qualche cosa per quel povero martoro di sarto, ma perchè così avevan voluto, o perchè bisognava maritarla quella figliuola. Nel dare alla luce Ferruccio (un certo nome che essa aveva trovato in uno dei suoi romanzi) tre giorni dopo fu assalita da una maligna infezione e in ventiquattro ore moriva abbruciata dalla febbre, col ventre gonfio, delirando come una pazza, confessando anche ciò che avrebbe fatto bene a tacere, poverina.
— Hai sentito? — entrò a chiedere la Nunziadina, rompendo il filo dei pensieri, che s’attorcigliavano al rosario.
— Che cosa?
— Mi par di sentire...
— È quest’uomo qui.
Il Berretta, puntellato ai ginocchi, dondolando, e balzando in piccole scosse, mandava dal naso un soffio pesante d’uomo che dorme.
Si entrò nel secondo mistero.
«Delirava la poverina, chiamando per nome tutte le ragazze della scuola, e i giovinetti che accompagnano le ragazze. A volte credeva di recitare sul teatro, faceva la tragedia e la commedia, sempre in mezzo a una fornace di febbre, sempre con quel ventre alto come una montagna, mentre il bimbo strillava di fame in un cesto. Il Berretta per consiglio del dottore era corso, a piedi, fino a Niguarda in cerca d’una balia.
«Che giornata, che notte di purgatorio! Che cosa non usciva di bocca alla malata? a crederle c’era da ritenere la povera tosa peggiore d’una donna perduta; o bisognava credere che il demonio approfittasse del male per far ballare innanzi alla moribonda solamente le immagini carnevalesche dei veglioni e delle festine da ballo, apposta per perdere un’anima.
«A crederle, Ferruccio non sarebbe stato figlio di quel pover’uomo, che col cuore in bocca correva a Niguarda a cercare la balia. Per fortuna, o per misericordia, il delirio cessò al tornare del Berretta colla contadina. La Marietta entrò in agonia, e non parlò più... Storie di vent’anni fa, che uscivano ora a farsi vive, sotto la scossa degli avvenimenti, mentre toccava al ragazzo di correre per salvare la vita di suo padre...»
— Non ti pare ch’egli tardi troppo?
— Se tarda, è perchè non ha trovato subito. Non è mica un bimbo d’un anno — brontolò la Colomba.
— Siam sole, e se venissero le guardie?
— Che guardie d’Egitto! non farmi la stupida anche te...
A queste parole ruvide, pronunciate con forti scosse di testa, la Nunziadina oscillò sulle gruccette e raggrinzò il bianco faccino a un greppio duro di bimba che vuol piangere.
Il portinaio, appoggiata la mano alla tempia sinistra, cominciò a russare raggirando un piccolo rantolo in fondo alla gola.
Verso la mattina la povera Marietta, carbonizzata dal male, con due occhi spiritati e gonfi, cacciò le gambe dal letto per scappare, e cominciò a gridare: — Il prete, il prete; voglio confessarmi, portatelo via. — Non si fu svelti abbastanza, stramazzò e la riposero morta sul letto.
— O Gesù, Giuseppe e Maria... — aspirò la Colomba, e con un sospiro mise giù la corona per non mescolare il bene col male.
Le reminiscenze del passato erano quasi più forti dei bisogni del presente. Il Signore solo sa leggere i segreti della coscienza, e se il male non ha fatto mentire una moribonda, Dio doveva averla giudicata e compatita nella sua misericordia. E da vent’anni ormai la stessa Colomba s’era abituata a considerare le cose come oneste e naturali, allontanando sempre dal pensiero il sospetto, tutte le volte che le varie e le piccole circostanze della vita e l’indole di Ferruccio venivano a ridestarlo. Ma a certe scosse di terremoto che fanno crepar la terra, escono spaventati i più vecchi sorci: e Dio, che non paga al sabato, può benissimo far scontare a un figliuolo il peccato della mamma.
- — È qui, è il suo passo — disse la Nunziadina.
La zia Colomba alzò lo stoppino della lampada, tolse il paralume, e alla luce diffusa e bianca credette vedere entrare dall’uscio la faccia profilata della povera sorella, com’era rimasta sul cuscino dopo l’ultimo respiro.
— Mi ha cacciato come un cane, non mi ha lasciato parlare, mi ha coperto di vituperi...
Ferruccio gettò il cappello sulla sedia e fece un giro intorno al tavolo.
— O povero me, io mi butto nel Naviglietto... — riprese a dire piagnucolando colla voce d’uomo che dorme il vecchio portinaio.
— Ah, ti ha cacciato via... — domandò la Colomba senza levar gli occhi d’addosso al figliuolo.
— Come un cane; non mi ha lasciato parlare.
— E la signora Arabella?
— Io mi butto nel Naviglietto.
— Voi fatevi coraggio — disse il ragazzo a suo padre — la signora Arabella ha promesso di occuparsi della vostra causa e domani mattina manderà una risposta. Per fortuna c’è questa buona signora...
— Dio la benedica... — esclamarono insieme le donne, congiungendo le mani.
— Essa ha detto che ne avrebbe parlato al signor Tognino, il quale alle volte esagera apposta... Se non avessi ancora questa speranza, io non so quel che farei di me.
Stringendo nei pugni i folti capelli, come se volesse strapparseli, girando inquieto per la stanza, esclamò:
— Che cosa ho fatto io di male a Dio e alla gente, perchè debba soffrire a questo modo? e quella donna lassù non guarda, non ha un poco di compassione del suo Ferruccio?
La zia Colomba corse verso il figliuolo e, abbracciandolo, cercò di soffocare contro il suo petto le parole che invocavano così fuor di proposito i poveri morti.
Tutta la notte il Berretta rimase in cucina seduto in terra coi gomiti nella cenere del camino. Fu il solo che bene o male trovasse la maniera di dormire. Le donne provarono a mettersi a letto, ma di dormire non ci fu verso. Finchè Arabella non avesse mandata una risposta era come voler dormire sopra un letto di brace. I quattro poveri martiri respirarono in questa speranza che la cara e buona signora finisse col commuovere il sor Tognino e facesse ritirare la denunzia. Ci sarebbe riuscita? a tutti pareva impossibile che si potesse negare una grazia a quella santa interceditrice.
Verso il mattino la Colomba, pisolando, se la vide comparire a braccetto della povera Marietta, che mostravasi tutt’allegra e contenta; ma fu più l’ombra del suo pensiero che non un sogno vero.
Ferruccio non si levò manco le scarpe, ma quasi tutta la notte passeggiò sulla ringhiera, nel raggio chiaro della luna, che s’imbianchiva sul muro e versava dalla gronda un’ombra lunga e quieta.
Contò le ore fino alle tre e mezzo, sbattuto dalle sue agitazioni come un pezzo di legno in preda alle onde di un mare in burrasca. Cercò inutilmente nella serenità poetica della notte, nella pallida luce delle stelle, nell’aria frizzante che gli giocava nei capelli, un sollievo, una distrazione a quel senso doloroso e cocente, che gli pesava come una brace ardente sul cuore.
A che pro vivere onesti e buoni, credere alle cose sante, mortificare la propria giovinezza, chiedere all’ideale la virtù che ti porta in alto al di sopra di tutti gli altri, se ogni monello della via avrà il diritto di chiamarti figlio di ladri? come affrontare lo sguardo delle persone oneste, se puoi temere che ti si legga in viso la tua vergogna? Molti ti compatiranno e diranno:
— Vedete quel povero giovane? ha il padre in prigione. Avrebbe potuto fare una buona carriera, è un giovane che ha studiato, ma non si può raccomandare, naturalmente, una persona che ha il padre al cellulare.
E come, allora, presentarsi a cercare un impiego con questa terribile paura che ti leggano negli occhi il disonore? e poichè di un pane maledetto egli non ne voleva più mangiare, ecco, insieme al disonore, la miseria e la fame.
Per poche bottiglie di vino un uomo ricco e potente cacciava un vecchio in carcere e un giovane nella necessità di dover stendere la mano. E un delitto di questa natura si osava compiere in nome della giustizia. Giustizia questa? — Ma, Signore, se è giustizia questa, io preferisco a credere all’iniquità del ladro, che ti assalta sulla strada. Allora, forza per forza, giustizia per giustizia, vendetta per vendetta, io stringerò il manico di un coltello, mi presenterò a quell’uomo che mi assassina l’anima, la fede, le speranze, tutto, e scriverò anch’io la mia sentenza nel sangue di quest’uomo.
— O povero me! — sospirava davanti a questi pensieri, passeggiando su e giù per la ringhiera.
Tacevano i giardini e gli orti nella luce smorta. Solo il vento usciva ogni tanto con un bisbiglio tra i rami in fiore e tra le tenere foglie del castagno. L’ora scoccava in quel silenzio chiaro dal vicino campanile, preceduta dal rantolo delle ruote e dei pesi, che scorrono dentro la torre.
Al disopra delle case chiuse e addormentate, al disopra degli orticelli e dei muricciuoli, al disopra delle ombre e di tutte le cieche sensazioni che l’aria, l’ora, la luce, le ombre e le tristezze della notte versavano nell’animo travagliato del giovine, s’innalzava un pensiero che a volte pigliava i contorni d’una figura umana, a volte mandava i bagliori di una fonte, da cui stillasse a’ suoi tormenti un soave refrigerio. Una dolcezza mistica, che usciva di mezzo ai patimenti, quale soltanto era dato ai martiri cristiani di provare nei deliri concenti del supplizio, lo invitava a benedire la mano che percote. La sua disgrazia l’aveva avvicinato a quella donna, s’era inginocchiato davanti a lei, aveva pianto nelle sue mani; l’aveva fatta piangere ed essa gli aveva posta una delle sue manine d’angelo addosso.
Queste immagini avevano la forza di eccitar l’entusiasmo della sventura. Non si poteva a un tempo soffrir di più e inebbriarsi di più del proprio martirio. Da lei sola stava per dipendere ora la libertà, l’onore, la vita di suo padre, la vita e l’onore di un povero giovine; e in questa totale dipendenza da lei, Ferruccio provava la spinta che ci trae ad abbandonarci nei momenti della disperazione nelle braccia aperte di una mamma.
Verso la mattina piegò la testa anche lui sul letto e si addormentò di un sonno chiuso e senza sogni, quale prende un uomo sfinito dal lungo cammino.
La Colomba raccomandò a Nunziadina di star quieta in letto, cacciò le gambe, si vestì in fretta e guidata dalla luce bianca del cielo, si preparava ad uscir di casa per parlare al padre Barca, uomo influente e giudizioso. Volle prima dare un’occhiata al vecchio e al ragazzo: dormivano tutti e due, l’uno colla schiena appoggiata al muro, l’altro raggomitolato sul letto. Fece il segno della croce e uscì dalla porta a vetri che mette sulla ringhiera. Ma si tirò indietro spaventata. Nel cortile c’erano due guardie di questura.
Si attaccò colle mani alle imposte per reggersi, e sentì cinque o sei colpi tremendi nello stomaco, come se glielo picchiassero col martello. Chiuse la finestra e colle due mani sulle orecchie corse nello stanzino dove dormiva il ragazzo. Stette ancora un minuto sospesa, come se tardasse apposta, per carità, a dargli il terribile colpo; ma quando sentì che picchiavano all’uscio della scala, pose una mano sulle mani del nipote, lo scosse e disse:
— Ferruccio...
— Chi è? che c’è?
— Ci son le guardie.
— Dove?
— In corte... Senti che picchiano.
Ferruccio sollevò la testa e stette col viso stravolto, forse senza capire.
— Che cosa si fa? O cari angeli, che cosa si fa?
Di fuori picchiarono più forte, finchè anche il vecchio si scosse dal suo letargo.
Ferruccio saltò dal letto, si abbottonò la giacca, ficcò le mani nella folta selva dei capelli e disse:
— Non aprite, ci penso io.
Andò in cucina intanto che suo padre, irrigidito dal freddo e intorpidito dal sonno e dalla cattiva posizione, cominciava a brancolare sul suolo per tirarsi su.
Ferruccio ripetè:
— Ci penso io...
E aprì il cassetto del tavolo di cucina per trarne un comune coltello.
La zia Colomba che gli teneva dietro lo afferrò ai polsi e mettendogli il viso quasi sul viso, con un’espressione risoluta gli disse tre volte di no, con tre rapide scosse della testa:
— No, figliuolo, il coltello no: no.
Ferruccio si lasciò dolcemente disarmare.
In quel punto una delle guardie, che pareva il capo, comparve sulla ringhiera, sforzò senza molta fatica le vecchie e tarlate imposte della finestra lunga che metteva sul ballatoio, entrò, e disse con tono d’uomo ragionevole che sa di parlare a persone ragionevoli:
— Stiano zitti, buona gente, che è il meglio che si possa fare. Siamo venuti di buon’ora apposta per non dare troppo disturbo. Siete voi il Pietro Berretta?
— Sono innocente, o misericordia! No, Ferruccio, salvami, fammi scappare... — pregò il vecchio portinaio, aggrappandosi alle braccia del figliuolo. E senza aspettare che gli mettessero le mani addosso, corse a rifugiarsi nello stanzino, affrettandosi a chiudere l’antiporto dietro di sè.
La guardia ch’era nella stanza, vista la mossa, corse per tagliargli la strada; ma Ferruccio, acciecato da un fiotto di sangue che gli montò al capo, urtò con tutta la forza nel tavolo di cucina e lo rovesciò contro lo sbirro, che sospinto da quella strana macchina, barcollò sulle gambe e cadde mettendo i gomiti nei vetri della finestra.
All’urto, al crepitìo dei vetri sull’ammattonato, la Colomba mandò un grido e corse a rifugiarsi nella stanza di Nunziadina, che alzò dal cuscino la piccola testa imbacuccata, per chiedere il motivo di quel diavolo in casa.
Intanto il Berretta ebbe tempo di chiudere l’uscio per di dentro contro gli sforzi di una seconda guardia, che, entrata dalla porta principale, cominciava un lavoro di leva. L’uscio nella sua fragile costituzione non avrebbe resistito a lungo, se Ferruccio, inferocito dalla guerra, visto che il maggior pericolo era da questa parte, non avesse lasciato il primo sbirro intrigato nelle gambe del tavolo per scagliarsi sull’altro.
Lo afferrò colle mani alla vita, e puntando un piede al muro, collo slancio e col vigore elastico de’ suoi vent’anni, riuscì a strappare la guardia dall’uscio, innanzi al quale si piantò lui, pallido come un cadavere, ansante, ruggente, non armato che della sua generosa sventatezza.
La lotta stava per cominciare da capo, se la prima guardia, uscita tra la finestra e il tavolo, col viso e colle mani tagliuzzate dal vetro, per spirito brutale di vendetta non l’avesse assalito colla spada sguainata, correndo a colpirlo col pomo di questa sul viso e sulla testa, assalendolo di fianco e mandandolo ruzzolone col capo in sangue in un canto della stanza.
Le due guardie non ebbero difficoltà a levar dai gangheri l’uscio e a metter le mani sul vecchio imprudente.
Ma intanto al diavolìo si erano risvegliati i pochi casigliani e la gente cominciò a radunarsi sulla porta delle «due beate.» Da un piccolo male Ferruccio ne aveva fatto nascere dieci grossi, oltre ai pettegolezzi e al disonore e allo spavento delle donne. Ma a vent’anni non si sa ancora scegliere con giudizio in mezzo ai mali.