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e servendosi a questo scopo dell’aiuto della curia arcivescovile.

Il Mornigani, aiutato dalle mani legnose di don Giosuè, riuscì a spingere a poco a poco quella torma di scarpe grosse, pesanti come il piombo e a distribuirla in fondo sull’ultima fila di sedie: prese ancora qualche nome sulla lista, notò la professione, l’abitazione, il grado accademico, i titoli cavallereschi, e, quando gli parve che ci fossero tutti, andò ad avvertire l’avvocato.

Tra fabbri, magnani, agricoltori, portinai, ortolane, preti, impresari, regi impiegati, meccanici, cantanti e cavalieri, erano in tutti una trentina, senza contare le procure e quelli che avevan data carta bianca in mano all’avvocato patrocinatore.

Tutta questa gente, raccolta nella sala sotto la soggezione dei sommi pontefici, mantenne sul principio un contegno freddo e mortificato, tra la paura e la diffidenza. Rotta a poco a poco la soggezione, che teneva l’un l’altro in rispetto e quasi in sospetto, cominciò un ronzìo, un bisbiglio come una pentola che sente il calore. Le parole si mescolarono, le mani si toccarono, si rinnovarono conoscenze, si comunicarono notizie, rapporti, reciproche spiegazioni, producendo in fine un frastuono che il Mornigani fece subito cessare con un battere secco delle sue mani lunghe e piatte come pantofole.

Si sentì squillare a lungo un campanello elettrico. Una porta, alla destra della scrivania, si aprì e comparve un giovinotto biondo biondo, cogli occhiali lucidi, con un fascio di carte sulle mani, colla cannuccia in bocca; si pose a sedere a un tavolino in disparte, dove collocò gli atti, dove si diè un’energica