Al fronte/Nella conca d'Ampezzo e intorno al lago di Misurina

Nella conca d'Ampezzo e intorno al lago di Misurina

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Nella conca d'Ampezzo e intorno al lago di Misurina
Sulle vette dell'Alto Agordino Nella valle di Sexten

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NELLA CONCA D’AMPEZZO E INTORNO AL LAGO DI MISURINA.

8 settembre.

In mezzo alla smisurata violenza di forme rocciose delle Alpi Dolomitiche, nel cuore di quella convulsa moltitudine di vette e di balze nude, si adagiano due meravigliosi angoli di calma, pieni di una molle e riposante bellezza: sono la conca di Cortina d’Ampezzo e la valle di Misurina — nella quale s’incastra il lago famoso, freddo, verde e puro come uno smeraldo. Nel cavo delle sue ondate più eccelse, la grande tempesta dei monti cela e protegge questi due rifugi di tranquillità, così diversi fra loro, ridente l’uno, melanconico l’altro, ma pieni tutti e due di una non so quale dolcezza d’immobilità.

La valle del Boite, nella quale — proprio ai piedi delle terribili Tofane — s’apre la conca di Cortina, e la valle dell’Ansiei, che al sommo di un’aspra salita riserba al viaggiatore la sorpresa del piccolo lago pittoresco di Misurina, queste due vallate profonde, dopo un corso capriccioso, finiscono per risalire al nord quasi parallele e vicine, incanalando strade che conducono alla grande arteria austriaca: la [p. 190 modifica] vallata della Drava. Sono le strade per Toblach e per Welsberg, lungo le quali la nostra azione punta.


Il nemico accumula qui tutte le difese possibili, con una concitazione che somiglia all’allarme. Esso protegge energicamente gli approcci della Drava, che costituisce la sua comunicazione unica e vitale col Trentino e sul cui fianco sente gravare la minaccia delle nostre armi. In questo momento anche le lontane montagne di Toblach si stanno fortificando, secondo le voci che circolano fra gli abitanti, e tale eccesso di previsione rappresenta un riconoscimento inconfessato ma convinto del valore del nostro esercito.

La natura favorisce le opere della difesa. Ad una decina di chilometri al nord di Cortina e di Misurina, le due valli parallele sono traversate da occidente ad oriente da una vallata profonda, oltre la quale si ergono montagne immani e dirupate, che dopo un breve declivio, salgono fino ai tremila metri con pareti quasi a picco. Noi teniamo quasi tutti i massicci al di qua della vallata, il nemico tiene quelli al di là. I ciglioni sono fortificati. Gli austriaci non si sono contentati di erigervi delle trincee in cemento, preparate chi sa da quanto tempo, ma hanno disteso sul bordo degli abissi larghi reticolati, aspettandosi l’attacco anche dall’inaccessibile. [p. 191 modifica]

Tutti gli approcci erano difesi da fortezze: il forte di Landro allo sbocco del vallone di Rienz, sopra Misurina, risalito dalla strada per Toblach; e pure sopra a Misurina, il forte di Platzwiese, allo sbocco del vallone del Seeland, risalito dalla strada per Welsberg, il forte di Sompauses sopra Cortina, allo sbocco del vallone di Campo Croce. Una delle nostre operazioni più importanti fu il bombardamento sistematico dei forti.

Cominciarono gli austriaci a bombardare. Al secondo giorno della guerra tirarono dai forti nella conca di Misurina dove avevano avvistato forse qualche movimento di truppe. Era al momento in cui le nostre fanterie, a piccoli reparti, s’irradiavano sui valichi della frontiera. Il giorno dopo, infatti, occupavano dopo un vivo combattimento il Passo delle Tre Cime di Lavaredo, un’asprissima giogaia a nord-est di Misurina, una lunga cresta alla quale non manca che un metro per raggiungere l’altezza precisa di tre chilometri. Due compagnie austriache furono poste in fuga.

La lotta di scaramucce si propagava tutto intorno. Il 29 maggio l’occupazione da Misurina, per il passo delle Tre Croci che congiunge le due valli dell’Ansiei e del Boite come le due aste di un H sono congiunte dal taglio, arrivava a Cortina d’Ampezzo. Da Cortina si diramava e si spingeva, fiancheggiata dagli scalatori di vette, verso il passo di Falzarego a [p. 192 modifica] ponente, verso Podestagno a settentrione. Abbiamo parlato dell’azione sul passo di Falzarego. ai piedi delle Tofane e dell’Averau, dove ancora si combatte, nel caos delle rocce, intorno alle rovine dell’albergo di Falzarego, scoronato e bruciato dalle granate. Seguiamo la grande linea delle azioni che a quella si allacciano.


L’8 giugno l’avanzata al nord di Cortina respingeva il nemico verso Podestagno, proseguendo sotto al tiro del forte di Sompauses. Gli speroni laterali delle montagne, intorno ai quali la valle leggermente serpeggia, servivano da riparo; si balzava da canalone a canalone, da cresta a cresta, da costa a costa. La strada, bianca e dritta nel fondo della valle, era tempestata di colpi, infilata dal fuoco del forte, sbocconcellata ai bordi dalle granate. Bisognava che la nostra artiglieria avanzasse in appoggio della fanteria, e non vi erano altre vie che quella. L’artiglieria passò.

Una delle nostre batterie, reclamata dall’azione, si slanciò in pieno giorno su quella strada fumigante di esplosioni. La batteria era a Cortina; un ammassamento di cannoni, di cassoni, di cavalli, di soldati, ingombrava le linde vie della cittadina bianca. Il capitano comandante la batteria destinata ad avanzare era andato a scegliere la posizione. Alle due del pomeriggio arrivò un sergente al gran galoppo [p. 193 modifica] portando l’ordine: batteria avanti! «Soldati! gridò l’ufficiale in comando. — Abbiamo la fortuna di essere prescelti per un posto d’onore nella battaglia, e voi mostrerete di esserne degni! Primo mezzo, al trotto allungato, avanti!» I cannoni partirono ad un minuto l’uno dall’altro. Al frastuono del loro passaggio, le finestre si aprivano e delle teste curiose e spaurite si mostravano.

Appena fuori dalle ultime case, la batteria fu avvistata dagli osservatorî austriaci. Le granate scoppiavano intorno ai pezzi, che apparivano velati dal polverone e dal fumo. Non un arresto, non una esitazione: la corsa procedeva regolare come in manovra, finchè il folto di un bosco la nascose al nemico. Dalla strada, a forza di braccia, la batteria fu portata sopra una posizione scoperta, a soli 2200 metri dal forte, così ardita che il nemico non riuscì a identificarla. Con i suoi colpi esso cercava i nostri cannoni più indietro, non potendo mai immaginare che essi fossero là, in un boschetto vicino.

Il 9 giugno, Podestagno era occupata. Ma per qualche tempo la posizione appariva talmente esposta da essere intenibile. La linea quindi è stata corretta: avanzandola. Le nostre trincee si sono portate così vicine al forte di Sompauses da non poterne ricevere i colpi. Noi siamo arrivati nell’angolo morto del forte. [p. 194 modifica] È una situazione inverosimile; i cannoni nemici che tirano di tanto in tanto su Cortina, che cercano di sfogare la loro tonante ostilità sopra un raggio di dieci o dodici chilometri, non possono niente contro le truppe che vivono appostate a poche centinaia di metri da loro. L’artiglieria è impotente contro di esse.


Il Sompauses da lontano ricorda il forte Porr, che vedevamo in Val Giudicaria. Uno sperone di montagna sporge alla sinistra del torrente, e a mezza costa, sopra un ripiano, in una boscaglia di abeti una linea giallastra di terre smosse, una confusione di spalti freschi, di parapetti, di ripari, si avanza sotto ad un zig-zag di strade militari, che rigano il bosco e le rocce più in alto come venature rossastre. Sotto al forte il pendio è ripidissimo, scoperto, brullo, difficile all’assalto, e percorso da fasci di reticolati.

Il Sompauses è come una belva che non può più mordere, ma che non si può ancora prendere. È stretta dalla grande battuta, ridotta quasi all’impotenza, ma vive, rintanata e torva. Se spara un colpo, il Sompauses è coperto di granate: decine di cannoni gli impongono silenzio; le nostre artiglierie lo tengono sotto ai loro tiri; il terreno intorno alle opere appare sgretolato delle esplosioni. Perciò il Sompauses spara raramente. Tutti i suoi difensori si tengono sepolti entro i cunicoli e le gallerie scavati nel [p. 195 modifica] monte, e dentro alle trincee di cemento, le quali non sono che sterminati corridoi dalle spesse pareti, illuminati da sottili feritoie.

Anche gli altri forti sono ormai silenziosi. Ai primi di luglio le nostre batterie aprirono il fuoco contro i forti di Landro e di Platzwiese. L’8 luglio in quest’ultimo si scorsero le fiamme e il fumo di un grande incendio, che durò tutto il giorno. Il 14 una batteria austriaca annidata più indietro di Landro, sul Rautkofel, fu parzialmente smontata. I forti sono ora demoliti o quasi. Però la Grande Guerra aveva già svalutato l’importanza delle fortificazioni permanenti, e gli austriaci non si sono lasciati prendere alla sprovvista. Hanno ritirato in tempo le artiglierie dai forti battuti e, per vie di arrocco nascoste, preparate da lunga mano, probabilmente munite di rotaie, trasportano i pezzi da un punto all’altro, spostandoli appena una posizione comincia ad essere individuata.

Questo non li salva sempre; i nostri tiri lì rintracciano e li seguono da appostamento ad appostamento; le batterie italiane anche esse si muovono; è un lento duello di mostri. Ma è difficile ad un profano rendersi conto dei problemi complicati che questi spostamenti impongono. È tutta una geometria di traiettorie e di parabole che traccia le sue linee immaginarie sulle vette dei monti. Sono calcoli di angoli, misurazioni infinitesimali, e ogni colpo di [p. 196 modifica] cannone è la soluzione di un quesito matematico irto di cifre.

Non abbiamo tardato ad accorgerci, operando sul territorio conquistato, che le carte topografiche austriache messe in commercio differivano da quelle riservate dello Stato Maggiore nemico per una alterazione di punti trigonometrici, appena percettibile ma sufficiente a turbare l’orientazione dei tiri. Abbiamo dovuto scoprire le alterazioni e calcolarle.

Inoltre gli austriaci spostano, quando possono, i segni visibili messi sul terreno ad indicare i punti trigonometrici. Da noi questi segni sono delle piccole piramidi di pietra, in Austria sono degli alti cavalletti di legno che si scorgono da lontano. È avvenuto qualche volta che i tiri, precisi alla sera, deviassero alla mattina. Nella notte il nemico aveva portato un centinaio di metri più a oriente o ad occidente qualche cavalletto sul quale s’era calcolata l’angolazione. È veramente singolare questa schiavitù dei cannoni più possenti ai tracciati fantastici di un teorema, a delle esattezze logaritmiche, senza le quali essi divengono ciechi.

Questa parte della guerra, che si svolge dietro al furore delle battaglie, lontano dalle masse per chilometri e chilometri, in una calma, in una solitudine di pendici e di valli, ha qualche cosa di affascinante e di terribile. Gli artiglieri che s’intravvedono talvolta in un’ombra di selve, taciturni, raccolti intorno ad una massa [p. 197 modifica] grigia, tranquilli, isolati da ogni movimento e da ogni agitazione, intenti ad un lavoro misterioso, si direbbe che non abbiano a che fare nulla col combattimento, del quale non arriva fino a loro neppure l’eco. Non vedono niente, non sentono niente, non sanno niente della lotta alla quale partecipano. Sono i guerrieri dello spazio, i combattenti della immensità, i colpi dei quali passano al di sopra dei nevai per piombare in vallate remote.

Lembi di foresta sono stati denudati, e le centinaia di alberi sfrondati che l’ascia ha abbattuto formano rafforzamenti ciclopici sui declivi che portano i più grossi pezzi. Consolidano e sorreggono pendici boscose, e i poderosi cannoni, la larga gola in aria, sembrano accovacciati sull’ultimo gradino d’una scalea da giganti, sorretta da massicci tronchi di abete. Più lontano, indietro, nelle radure si allargano strani parchi di carrocci ferrati, di automobili larghe e pesanti come locomotive, di veicoli strani che portano argani, tutti mascherati di fronde: sono i trasportatori delle moderne artiglierie da assedio, le quali vanno alle posizioni trascinate da lenti e poderosi motori.

Gli austriaci cercano le nostre grosse batterie come noi cerchiamo le loro. Studiano per settimane, poi, quando credono d’aver trovato, una mattina, da qualche posizione nuova aprono il fuoco con un 305, che lancia dieci, quindici granate in fila, e poi tace per non essere [p. 198 modifica] scoperto. Dove arrivano, i mostruosi proiettili aprono cavità enormi, sconvolgono terra, pietre, alberi, e lasciano squarci così grandi sul suolo che sembrano inizi di un lavoro di sterro.


Per arrivare da Cortina a Podestagno, la nostra azione ha dovuto dominare il massiccio della Tofana a sinistra e quello del monte Cristallo a destra. La Tofana e il Cristallo hanno da una parte e dall’altra della vallata di Ampezzo una posizione quasi simmetrica all’occhio. Hanno anche quella somiglianza di forme di tutte le Dolomiti, quell’apparenza turrita e fantastica, con pareti precipitose che dai tremila metri scendono quasi a picco ad immergersi nelle verdure della valle, piombando per un chilometro e mezzo in una vertigine di asperità, di fessure, di canaloni, di speronate.

Abbiamo parlato della lotta sulla Tofana, della stupenda guerriglia di pattuglie in quel caos di rocce e di gelo la quale ci ha dato il possesso incontrastato del monte. Nel monte Cristallo gli austriaci, salendo dal nord, erano riusciti ad insediare un posto sulla Cresta Bianca, che domina Cortina.

Questi monti sono tutti fatti a stratificazioni, sembrano formati da immani tavoloni di pietra sovrapposti a piano inclinato. Salendo lungo l’inclinazione degli strati la via è più facile, ed è la via dal nord. Dalla nostra parte i monti invece sono spezzati a piombo. Dal [p. 199 modifica] lato austriaco essi presentano una groppa scoscesa ma praticabile, dal lato nostro una parete. Dunque gli austriaci erano saliti sulla Cresta Bianca, detta così perchè è coperta di nevi eterne. Essa finisce in una specie di piramide candida e puntuta.

Arrivati lassù, sicuri di non essere sloggiati, avevano trasportato sulle vette abbondanti provviste di viveri e munizioni, anche per artiglierie, si erano rinforzati, e si preparavano a portar su i cannoni. Bisognava scacciarli. Per scacciarli bisognava salire le pareti del monte.

Quando si osserva la montagna non si capisce come un reparto di truppe, composto in gran parte di fanterie, sia potuto arrivare lassù. Ma questa guerra di vette ci abitua ai miracoli. La spedizione era guidata da un ufficiale che è uno degli alpinisti più noti, uno di quei dominatori di cime che sfidano l’inarrivabile. Si erano scelti in tutti i reggimenti gli uomini più adatti a quella fatica e i conoscitori di montagne. Partirono muniti di seicento metri di corda, di ramponi, di graffi, di strumenti per forare le rocce.

La preparazione della scalata durò sette giorni.

Per sette giorni si vide una catena di puntini grigi, una catena di uomini che lavoravano come sospesi lungo l’immane muraglia. Piantavano anelli nella pietra, attaccavano corde, configgevano punte di ferro dove mancava [p. 200 modifica] una sporgenza per posare il piede. I lavoratori alpini si davano il cambio. Dietro a loro i soldati salivano per impratichirsi del cammino, per conoscerlo bene gradino per gradino. Ogni giorno la scalata ricominciava e arrivava un poco più in su. Alla fine i primi ciglioni furono raggiunti a mille metri sulla valle. Si usufruì dei canaloni, delle fessure, delle cornici. La via dell’ascesa andava a serpeggiamenti bruschi, girava negli angusti pianerottoli formati dalle stratificazioni sull’abisso, superava dei tratti a strapiombo senza altro appoggio che la corda e qualche rampone, e spariva fra due speronate coronate di guglie.

Una sera la scalata definitiva fu data. I soldati avevano le scarpe di corda, per non far rumore avvicinandosi al nemico e per aver più sicura presa sulla pietra. Seguì un lungo inerpicamento sulle nevi nelle anguste ascelle delle vette in un labirinto di pietra e di gelo. Divisi in grosse pattuglie i nostri circondarono la Cresta Bianca. Appena gli austriaci sorpresi aprirono il fuoco sopra i più vicini, la fucileria crepitò tutto intorno. I nemici fuggirono precipitosamente, nascondendosi nelle anfrattuosità, e lasciarono tutto il materiale che avevano accumulato lassù.

Così il Cristallo fu preso;, e il possesso delle sue cime ci permetteva di dominare la valle del Felizon, al nord, lungo la quale ora il nostro fronte si snoda. [p. 201 modifica]

Di tanto in tanto un lungo rombo scende dalla Cresta Bianca: sono granate austriache che scoppiano fra le rocce. Cercano delle artiglierie. Perchè in quella immane confusione di picchi, in qualche piega introvabile, sui ghiacci, c’è dell’artiglieria, tirata su a forza di braccia, con le corde, lungo le pareti....

Un’altra scalata fu dovuta dare a Col Rosa. Il Col Rosa è una specie di prolungamento delle Tofane, al nord. È una guglia alta, isolata, aguzza, che affaccia la sua punta rossastra in fondo alla valle di Ampezzo e la vigila. Era un posto di osservazione austriaco dal quale i tiri delle artiglierie venivano diretti. Di notte i nostri circondarono il monte e lo ascesero, facendo prigionieri gli austriaci che vi si trovavano e prendendo loro degli ottimi strumenti ottici. Si comprende come il nemico ora non si fidi più dell’inaccessibile e pianti i suoi reticolati anche sul bordo dei precipizî.


Mentre si combatteva nella valle di Cortina, una lotta analoga ma più intensa si accendeva nella valle di Misurina, sul Monte Piana.

Questa montagna sbarra la valle, al nord, proprio come il Col di Lana sbarra quella del Cordevole. Una somiglianza di posizioni ha prodotto una somiglianza di situazioni. Il Monte Piana è tagliato dalla frontiera. Tutte le strade che salgono su Misurina contornano la sua base. Esso domina ogni passaggio. Gli austriaci [p. 202 modifica] tentarono di impadronirsene all’inizio della guerra.

Poche forze nemiche vi si insediarono per breve tempo. Furono sloggiate. Il 12 giugno gli austriaci tornarono più numerosi al contrattacco: furono respinti. La lotta diveniva attiva. L’importanza della posizione faceva concentrare su di essa gli sforzi dell’attacco e della difesa. Il 13 giugno gli austriaci bombardarono il Monte Piana dal forte di Platzwiese — nel quale, come abbiamo detto, meno di un mese dopo le nostre granate dovevano portare la devastazione e l’incendio. Nella notte delle masse nemiche tentarono un nuovo attacco. Il 15 si combatteva ancora. La battaglia, cominciata con un’azione di reparti, attirava nuovi rincalzi, si distendeva, si abbarbicava al monte, diveniva lotta di posizioni, combattimento di trincee.

La linea del fronte, dopo avere oscillato lievemente ai colpi e ai contraccolpi degli attacchi, si fissava, entrava nel solco profondo di opere campali. Il 12 giugno il nemico tentava nella notte un altro sforzo per sloggiarci: era respinto. Dodici giorni dopo sperava di riuscire in un aggiramento, e attaccava a oriente del Monte Piana la Forcella di Col di Mezzo sulle Cime di Lavaredo — occupata fin dal 26 maggio dagli alpini — la quale, se in loro possesso, avrebbe aperto il varco al nemico sulla conca di Misurina: fu respinto. Il 23 luglio, altri [p. 203 modifica] attacchi austriaci. L’11 agosto, il nemico ritorna all’offensiva. Il giorno dopo siamo noi che attacchiamo e prendiamo delle piccole posizioni sulle pendici occidentali del monte. Gli austriaci non aspettano a lungo per tentare la riscossa, e la notte appresso, dopo un vivo cannoneggiamento, assaltano quelle posizioni che gli avevamo preso: sono respinti.

Così ogni otto, ogni dieci giorni, la battaglia si riaccende. La singolarità è questa: che le trincee nostre e quelle austriache sono separate dalla vetta. Stanno al di qua e stanno al di là, relativamente vicine ma invisibili le une alle altre. E tutto intorno, appiattata dietro dossi vicini, una quantità di artiglierie, italiane da una parte e austriache dall’altra, domina la sommità del monte. Perciò la vetta è intenibile. Di notte o di giorno, appena uno dei due avversarî vi si affaccia, una pioggia di granate trasforma il Piana in una specie di vulcano. Se nessuno si muove, così a ridosso dei due versanti, le posizioni sono invulnerabili.

O vi è un furore inaudito di combattimento che spande i suoi echi da temporale fino alla vallata del Piave, o è la pace profonda. Così profonda che quando siamo arrivati a Misurina ci sentivamo soggiogati dal silenzio prodigioso della valle melanconica, oscura sotto ad un cielo basso e grigio tutto variato da un lento e tortuoso svolgersi di nubi, che [p. 204 modifica] celavano le vette e scendevano a tratti ad annebbiare le pendici più basse fino ad appannare lo specchio del lago.

Era tutta una pigra agitazione di vapori, che si addensava e si schiariva, che si squarciava in diafane profondità bianche di luce e ricopriva quegli sfondi con plumbee e molli masse sfumate. Per un istante, in alto, le nubi si sono diradate, e abbiamo visto come un nero di temporale fra le sfumature delle frange nebbiose: erano i monti, le masse del Lavaredo. Poi una gran torre si è profilata cinerea nella lontananza: lo Schwabenalpenkopf, la vedetta austriaca. Ma la nebbia è ridiscesa, si è richiusa, e non abbiamo più visto che il fondo della conca di Misurina, il lago grigio, le rive selvose, fosche di pini. E tutto questo, così pallido, indefinito, in quella gran quiete, aveva un’apparenza di sogno triste, uno di quei sogni lugubri che non si dimenticano.

Il grande albergo, sulla riva, e sfondato da un colpo di grossa granata. È stato quel 305 che viaggia da valle a valle, spara dove crede sia uno stato maggiore o una batteria, e si rimette in viaggio. Un grande demolitore di alberghi, quel cannone errante. Ha tirato sul Grande Hôtel di Cortina, e sull’Ospizio delle Tre Croci. Gli austriaci ci lasciano dei paesi intatti, ma degli alberghi, quando possono, ci consegnano le rovine. A San Martino di Castrozza, sopra Fiera di Primiero, un paese di [p. 205 modifica] villeggiature, hanno bruciato tutto, facendo un danno di circa sedici milioni.

L’albergo di Misurina, tutto chiuso, con quella gran ferita nera, si specchiava nel lago. Non si vedeva nessuno. Sulla strada deserta un soldato solo passava lentamente. Una pioggia sottile cominciava a cadere, gelata, e spandeva il suo fruscìo monotono e vasto. Un colpo di cannone ci avrebbe fatto piacere come una voce.

Cortina invece ci è apparsa sorridente, incantevole, in un giorno di sole, con le sue casette bianche posate sui prati folti con un pittoresco disordine come fossero tolte allora da una scatola di giuocattoli nuovi.

L’abbiamo vista come la vedevano i touristes. Dall’alto delle prime giravolte della strada delle Dolomiti ammiravamo il paese sotto a noi, e dimenticavamo quasi la guerra. Vi era una non so quale serenità anche in basso, una serenità della terra, una contentezza tranquilla e profonda. Si udiva appena, come un tuono remoto, lo scoppio di qualche granata sul Cristallo. Dalle Tofane scendeva di tanto in tanto il rumore sordo e lontano di un colpo di fucile. Ma una persona ignara non avrebbe mai immaginato che a ponente, a nord, a nord-est si stendeva un fronte di battaglia, e che tutte quelle fantastiche vette luminose infarinate dalla nuova neve, striate di candori, alleggerite da quella sottile variegazione di bianche [p. 206 modifica] evanescenze che disegnavano la sommità d’ogni balza, d’ogni strato, d’ogni asperità, celassero appostamenti e ricoverassero cannoni puntati.


Lassù da due giorni la temperatura è scesa a dieci gradi sotto zero. Il Comando aveva provveduto al cambio delle truppe che occupano le vette. Sono quasi tre mesi che vivono in quell’inverno, fra le tormente, in mezzo a fatiche, pericoli e privazioni inenarrabili, ricoverate nei crepacci della roccia. Ma quando l’ordine di prepararsi a scendere è arrivato, quelle truppe hanno rispettosamente pregato il Comando, per la voce dei loro ufficiali, di lasciarle sulla montagna.

«Noi, oramai siamo abituati al freddo e alla vita delle vette — dicono — noi abbiamo imparato a combattere questa guerra, abbiamo scoperto i sentieri o li abbiamo creati, sappiamo da dove si può salire, da dove si può passare, conosciamo il nemico, e a truppe nuove non è facile imparare presto tutte queste cose». E per paura di non essere ascoltati, qualche reparto si è rivolto per lettera al Comando Supremo.

Ecco degli uomini che da tre mesi vivono in un inferno di sofferenze, che rischiano la vita niente altro che per camminare, che quando riposano si tengono ammassati a gruppi su sporgenze larghe tre passi fra una parete e un abisso, senza vedere altro che rocce e neve, [p. 207 modifica] senza udire altro che l’urlo della bufera e il sibilo dei proiettili nemici, degli uomini che quando sono feriti debbono essere impaccati in sacchi e calati con le corde dall’orlo di precipizi, e che quando si offre loro il riposo nella vita, rispondono: «No, noi possiamo servire quassù meglio la Patria, il nostro posto è qui!»

La Patria deve conoscere e riconoscere questi eroismi oscuri, calmi, magnifici, compiuti per la coscienza profonda del dovere, per un’adorazione ineffabile verso la Madre Italia sulla quale si vigila.

Non vogliono scendere le truppe dalle altitudini, anche perchè hanno finito per amare questa montagna conquistata che ora conoscono e che ora le conosce. La montagna si allea a chi la vince, serve chi la doma, offre in difesa quelle stesse difficoltà che si sono dovute superare per espugnarla, svela i suoi tranelli, suggerisce i suoi agguati, combatte anche essa, come un favoloso gigante, per i piccoli uomini che hanno saputo scalarla e comandarla dalla vetta.

Arrivano a Cortina dei soldati dalle altezze a fare provviste. Hanno l’apparenza grave e un po’ stupita di chi giunge dalle lunghe solitudini. Vanno fieramente, raccolti, a passo lento, perplessi talvolta sulla strada da prendere, indecisi, come storditi di rivedere delle automobili, di trovarsi fra le case, nel movimento e nel vocìo. Portano in loro una non so [p. 208 modifica] quale atmosfera di silenzio come si porta l'aria fredda entrando dall’aperto in inverno.

Passano settimane lassù senza udir nulla, nella quiete morta delle cime. Soltanto alla sera, le truppe che stanno verso il passo di Falzarego e che hanno di fronte delle forze trincerate, nell’ora del tramonto sentono squillare le trombe del nemico. Il suono ha una ripercussione prodigiosa nell’aria cristallina. Le trombe suonano una musica solenne, sempre quella, come se fosse la preghiera dell’Ave Maria. È il Deutschland über alles.

I nostri lasciano finire il suono delle trombe, e poi cantano in un coro tremendo l’inno di Garibaldi. In quel momento i soldati, che sono stati rintanati fino allora, non si tengono più, balzano in piedi, allo scoperto, urlando: «Va fuori d’Italia, va fuori straniero!» Gli ufficiali redarguiscono: — Giù perdio, coperti, giù!

Lo straniero manda invariabilmente una scarica di fucilate che lampeggiano sul bordo d’un ciglione. Poi l’oscurità e il silenzio si richiudono, e la lunga profonda notte comincia.