Vita di Dante/Libro I/Capitolo V
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CAPO V.
(anni 1274-1289)
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Fin qui abbiamo veduto, come s’allevasse Dante in mezzo alla sorgente civiltà fiorentina. E senza dubbio quest’educazione de’ fatti che ci si adempiono intorno, della lingua che ci si parla, delle occupazioni che ci si lodano, è quella che più può sopra noi; quella che ci da la spinta a qualsiasi cosa buona, se di alcuna siam capaci, e ci conforma a quanto sarà poi frutto migliore di nostra vita. Ma non basta certamente. Se gli uomini avessero a ricominciare da capo ad ogni generazione, ei non sarebbero guari diversi da’ bruti, i secoli de’ quali non si contano. Nè ciò è nella idea della provvidenza; la quale, all’incontro, ci ha donati di tutte le facoltà necessarie, perchè valendoci delle fatiche già fatte, noi possiamo sempre partire dal punto ove sono giunti i predecessori, per avviare i successori ad una meta che niuno vede, niuno sa quanto lontana sia, ma a cui pure ci sentiamo spinti per nostra donata natura. Quindi in niuna età, niun uomo veramente grande fu mai, che più o meno non si valesse di quelle fatiche anteriori; che all educazione datagli dal tempo suo non aggiugnesse quella raccolta dai tempi antichi. Coloro che noi fecero, poterono sì mostrare ingegno, capacità, disposizioni, e così farsi ammirare personalmente dalla loro brigata, da alcuni vicini di luogo o di tempo; ma il nome largamente sparso e durevole, l’ammirazione dei lunghi posteri, l’efficacia sulle età avvenire, non sono se non di coloro che hanno saputo, ponendosi in mezzo, congiunger tutti gli insegnamenti, non rinnegarne nessuno. Fra quelli, poi, che così fecero, niuno il fece meglio che Dante. Riluce dalle opere sue tutte; più che dall’altre, dalla massima; e riluce non meno da’ fatti della vita di lui. Così giovasse il grande esempio a non lasciarci dimezzar l’ingegno nè dagli uni, nè dagli altri de’ malaccorti disprezzatori de’ tempi passati o de’ presenti.
Gli studi elementari al tempo di Dante erano ancora compresi nelle sette arti, dette con nomi barbari del trivio e quadrivio. Il trivio comprendeva grammatica, rettorica, e dialettica; il quadrivio aritmetica, geometria, musica, ed astronomia; e Dante stesso nel suo libro del Convito segue tal distribuzione di studi1. La grammatica non toccava alle lingue moderne o volgari, abbandonate all’uso, e tenute in quel conto, che si fa ora de’ dialetti2. Era dunque di sola lingua latina; ma quale poteva essere senza il confronto così necessario colla lingua parlata, senza dizionari, e prima de’ lavori immensi dei nostri quattro e cinquecentisti, e di tutti gli altri, che avanzarono nelle nostre vie. studiata pure in latino, vedremo esempi nelle lettere di Dante, "tutte in latino con alto dittato, et con eccellenti sententie et autoritadi, le quali furono molto commendate da’ savi intenditori3". Così ci dice il Villani contemporaneo; ma noi, che abbiamo le lettere citate, le veggiamo appena simili alle reliquie degli ultimi retori Romani, o a quelle di Cassiodoro e de’ primi tempi barbari; e così troppo dissimili dal bello stile volgare usato, anche in prosa, da Dante. Più facilmente crederemo a ciò che pur ci dice il Villani, che Dante fu "rettorico perfetto, tanto in dittare e versificare, che in ringhiera parlare"; poiché questo, senza dubbio, il faceva in volgare4. E così vedesi in Dante quella differenza tra gli studi morti e i vivi, tra la rettorica studiata e l’eloquenza imparata dall’ uso, che si ritrova poi in Petrarca, in Boccaccio, e in tutti gli altri uomini, anzi nei fatti stessi di quei tempi. Imperciocché eloquenti, cioè persuaditori con ragioni in qualunque modo opportune e convincenti, dovettero essere e quei primi consoli e capi de’Comuni, che raccolsero in leghe tante popolazioni fin dal secolo XII; e que’ capi di parte, che tanti animi accesero e guidarono; e quel Mosca Lamberti, che disse,
lasso! capo ha cosa fatta,
Che fu ’l mal seme per la gente Tosca.
INF. XXVIII. V.107-108.
cioè persuaditene della morte del Buondelmonte ed origine in Firenze delle parti Guelfa e Ghibellina; e quel Farinata degli Uberti, che vedemmo, nuovo Camillo, impedire la distruzione della patria. Fu eloquente senza dubbio quel Fra Giovanni da Vicenza, che nel 1233, in riva all’Adige presso a Verona, raunò, dicesi, quattrocento mila persone di parecchie città ali’ intorno a far pace, e signoreggiò Vicenza e Verona; benché tali paci e signorie non durassero quasi più che il suono dileguato della sua voce. L’eloquenza politica in lingua popolare nacque e fiorì certamente in questi secoli; i quali, dicansi di libertà o licenza, furono ad ogni modo quelli delle passioni, de’ movimenti e delle deliberazioni popolari. Né è da dubitare, che molti de’ discorsi tramandatici dai cronacisti fossero veramente pronunciati ed uditi; ma la rettorica degli storici che seguirono, ora alterando i discorsi veri, ora inventandone ad imitazione antica, gli screditò a segno di farli poi tenere tutti per finti. Ad ogni modo, nel tempo di che parliamo, sono da distinguere bene rettorica ed eloquenza; e Dante famoso allora in ambe, fu mediocrissimo nella prima studiata, ottimo ed efficace nella seconda senza studio usata.
Finalmente, quanto alla dialettica, ultima delle tre arti minori, è da ricordare, che seguivasi allora quella di Aristotile; benché non la vera e moderata di lui, il quale non s’avanzò oltre alle prime divisioni del ragionamento; ma quella che venne da lui per gl’intermediarii di Porfirio e Boezio, e per le traduzioni e ritraduzioni dal greco in arabo, e dall’arabo in latino barbaro; e che fu quindi commentata, esagerata ed applicata ad ogni cosa, duranti sette secoli, da quei filosofi e teologi che si comprendono più o meno sotto il nome di scolastici. Tuttavia, qualche miglioramento della dialettica aristotelica-scolastica si può scorgere all’età dei maestri di Dante, che fu quella di San Tommaso. II quale non solo negli ultimi anni di sua vita fece tradurre, secondo pare, dal greco, e commentò parecchie opere di Aristotile; ma, quel che è più, abbandonò le dispute dei realisti e nominalisti, e degli altri vanissimi metafisici di quelle età, e semplificò cosi il ragionamento nelle applicazioni alla teologia.1 Ma le dispute ricominciarono dopo lui, prò e contro lui, quasi allo stesso modo; e continuarono gli abusi della dialettica, secondo si suoi dire, fino al secolo XVI, o XVII. Benché forse ei non sono cessati del tutto; e non dubbie tracce ne rimangono e in certe logiche le quali insegnerebbono a sragionare, se non si dimenticassero appena imparate; e principalmente in certe forme di solenni argomentazioni, le quali usate per esami, in quasi tutta Europa, non provano nell’ esaminato se non una inutile e forse infelice arguzia e prontezza. Ad ogni modo, della dialettica del medio evo ninno certo giudicò meglio che Corrado III imperadore; il quale, irretito da uno di que’ maestri di logica in una di quelle arguzie, molto bene se ne disimpacciò esclamando: Che gran buon tempo hanno pure i letterati!. Né si astenne Dante da tali esercitazioni; che addestratovi in gioventù, vedremo a luogo suo come vi si dilettasse, in Napoli forse e in Verona, certo poi alla famosa università di Parigi. Anche i grandi uomini forza è che servano talvolta al loro tempo: ma questa differenza v’è tra i grandi e i piccoli, che costoro servon sempre e restan gregge, dove i grandi sanno trovare qualche lor giorno di libertà, e fanno opere allora discernibili di mezzo alle servili, proprie o d’altrui. Me erano migliori gli studi compresi nelle quattro arti del quadrivio. Delle due prime, l’aritmetica e la geometria, meno appartenenti agli studi di Dante, ma in che pure ei si mostra pratico di quanto sapevasi allora, basti il dire: che dei primi anni di questo secolo è quel Leonardo Fibonacci cancelliere della Dogana dei Pisani in Bugia di Barberia, dal cui credesi o introdotto o divulgato l’uso dei numeri indici o arabici5. Così queste scienze sorte già, dicesi, in Egitto ad uso dell’agricoltura, risorgevano ora in Italia ad uso del commercio. Ma a tal progresso è da contrapporre la solita ombra di un’ignoranza pur durante; quella di un Campano da Novara, commentator d’Euclide, ed uno de’ primi matematici dell’età, il quale attendeva alla quadratura del circolo6.
Ma più importante è per noi lo stato dell’astronomia all’età di Dante. Il quale non mirava al cielo in poesia o in ispirito solamente; ma materialmente ancora, e con amore e desiderio, quale a sommo fra gli oggetti di contemplazione, e come a dimora reale degli spiriti cari e dipartiti. Nella più bella fra le lettere di Dante, scritta nell’esilio, egli accenna a questa, come a principal consolazione di sua vita dovunque si fosse. "E che? Non potrò io d’ogni dove mirare gli specchi (specula) del sole e degli astri? Non d’ogni dove sotto il cielo, speculare dolcissime veritadi?7". Quindi, tutto astronomica riuscì la fabbrica del Poema sacro; ed astronomiche sono altre poesie di Dante, e i commenti che ne fece8. Ognuno sa poi, che allora l’Astronomia
era tutta nel sistema Tolommaico, della terra situata al centro dell’Universo, con intorno i sette cieli rotanti de’ pianeti Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove e Saturno; l’ottavo delle stelle fisse, e il nono o primo mobile traente gli altri nel moto universale d’Oriente in Occidente. Tutto ciò è notissimo; ma i periti ammirano in molti luoghi delle opere di Dante le cognizioni di lui, che sembrano superare quelle dell’età9 . Del resto, a malgrado di siffatto sistema, e così delle false basi di calcolo astronomico, un cotai Lanfranco Domenicano predisse al principio del 1261 un ecclisse solare, avvenuto poi alla vigilia dell’Ascensione10. Veggano gli scienziati se sia vero tal ecclisse, e se questa sia o no delle prime predizioni fatte. Ad ogni modo, pur troppo gli Astronomi non si contentavano allora di siffatte predizioni; ma forse appunto dalle predizioni effettuate degli eventi celesti traevano credito a quell’ altre stolte degli eventi umani. Astronomia ed astrologia erano allora una sola parola, e sovente una sola cosa ; e furono grandemente protette da’ principi e potenti di questo secolo, principalmente da Federigo II imperadore, e da Ezzelino tiranno. Ma fin d’allora la Chiesa, e con essa gli uomini più colti, e tra questi Dante nostro principalmente, condannarono sempre quella vana scienza. Dante mette gli Indovini nell’Inferno col capo travolto alle spalle; e in tutto un canto li prosegue, nominando fra essi i principali del suo tempo in Italia :
Quell’altro, che ne’ fianchi è così poco,
Michele Scotto fu, che veramente
Delle magiche frode seppe il giuoco.
Vedi Guido Bonatti, vedi Asdente11,
Ch’avere atteso al cuoio ed allo spago
Ora vorrebbe, ma tardi si pente.
INF. XX. 115-120.
L’ultima, poi, delle quattro arti maggiori del quadrivio era la musica. Della quale forse alcuno si meraviglierà fosse compresa in quegli studi, che a noi pajono così diversi. Ma in questa, come in altre istituzioni del medio evo, per ispiegarle, ei si vuoi ricorrere alle origini. E risalendo a quella dell’ordinamento degli studi, si vede che fu fatto nelle scuole dei Vescovi e de’ Monasteri, e per li Chierici od Ecclesiastici; ai quali dopo i principii delle lettere eran pur necessarii quelli del salmeggiare e del canto. È noto l’affaticarsi in ciò di Carlomagno, che trasse cantori di Roma in Francia; e, a dir degli storici, male riuscì ad addestrarvi le voci naturalmente stonanti de’ suoi settentrionali. Ebbe fin d’allora l’Italia, e conservò duranti quei secoli barbari, il primato della Musica; e Guido d'Arezzo, al secolo XI, le fece fare il passo del nominare le note. Crebbe più tardi siffatto vanto all’Italia, incominciando dal Palestrina al finir del secolo XVI, quando appunto le venivan mancando altre glorie troppo maggiori. E giudichi ognuno a talento suo, se questo primato solo or ne rimanga; e chi giudica così, se ne adonti pure a ragione. Ma non si vituperino coloro che ci salvano questo almeno; che in qualunque arte, e massime in questa così accostantesi a spiritualità, tutti i sommi si vogliono non che ammirare ma venerare, quasi donati d’ uno dei raggi del sommo ed universale artista. Vero e, che di questa, come di tutte le belle arti, ei si può abusare, e si abusa da coloro che ci sviano a mollezza, a languore, all’abbandono di ogni forte virtù, all’accontentarci nel vizio: ma alcuni pur sono che con questa, la più efficace forse d’ ogni arte, tentano ricondurci a quella forza, e quella virtù, la quale in tanti altri modi ci viene meno. Nè si ripudii così una parte, qualunque siasi, di nostre glorie; e s’ oppongano a quegli oziosi spregiatori due operosissimi Italiani, solenni ammiratori di musica, Napoleone e Dante. Di Dante ce lo dicono tutti i biografi, e principalmente il Boccaccio. "Sommamente si dilettò in suoni e in canti nella sua giovinezza, e con ciascuno che a que’ tempi era ottimo cantatore e sonatore fu amico ed ebbe sua usanza; ed assai cose (intendi le Canzoni allora fatte per cantarsi realmente, e i Sonetti per essere dal suono accompagnati) da questo diletto tirato compose, le quali di piacevole e maestrevole nota a questi cotali facea rivestire12". Anche Leonardo cel dice; e quando niuno cel dicesse, sono innumerevoli i luoghi della Commedia, ove il Poeta si mostra sensitivo, come agli stridori d’Inferno quasi supplizio grande di esso, così poi nel Purgatorio e nel Paradiso ai canti di speranza e di amore di quelle anime pazienti o soddisfatte13. Al principio specialmente del Purgatorio, tra quell’ anime che vi approdano cantando dalla barchetta dell’Angelo dall’ali spiegate, egli trova Casella, cantore e amico suo, e probabilmente suo compagno al giubileo del 1 300 in Roma, morto in quel romeaggio.
E come a messaggier che porta olivo,
Tragge la gente per udir novelle,
E di calcar nessun si mostra schivo;
Così al viso mio s’affissar quelle
Anime fortunate tutte quante,
Quasi obliando d’ire a farsi belle.
Io vidi una di loro trarsi avanti:
Per abbracciarmi con si grande affetto,
Che mosse me a far il simigliante.
Oi ombre vane, fuor che nell’aspetto!
Tre volte dietro a lei le mani avvinsi,
E tante mi tornai con esse al petto.
Di meraviglia, credo, mi dipinsi;
Perchè l’ombra sorrise, e si ritrasse;
Ed io, seguendo lei, oltre mi pinsi.
Soavemente disse ch’io posasse:
Allor conobbi chi era, e pregaiìì
Che, per parlarmi , un poco s’arrestasse.
Risposemi: cosi com’io t’amai
Nel mortai corpo, cosi t’amo sciolta:
Però m’arresto; ma tu perchè vai?
Casella mio, per tornare altra volta
Là dove io son, fo io questo viaggio;
Ma a te com’era tanta terra tolta?
Ed egli a me................
Ed io: se nuova legge non li toglie
Memoria o uso all’amoroso canto,
Che mi solea quietar tutte mie voglie,
Di ciò ti piaccia consolar alquanto
L’anima mia, che con la sua persona
Venendo qui, è affannata tanto.
Amar, che nella mente mi ragiona,
Cominciò egli allor si dolcemente,
Che la dolcezza ancor dentro mi suona.
Lo mio maestro ed io, e quella gente
Ch’eran con lui, parevan si contenti,
Come a nessun toccasse altro la mente.
Noi eravam tutti fissi ed attenti
Alle sue note; ed ecco il veglio onesto14,
Gridando: che è ciò, spiriti lenti?
Qual negligenzia, quale stare è questo?
Correte al monte a spogliarvi lo scoglio,
Ch’esser non lascia a voi Dio manifesto.
Come quando, cogliendo biada o loglio,
Gli colombi adunati alla pastura,
Queti, senza mostrar
l’usato orgoglio,
Se cosa appare oncd’elli abbian paura,
Subitamente lasciano star l’esca,
Perchè assaliti son da maggior cura;
Cosi vid’io quella masnada fresca15
Lasciare ’l canto, e gire inver la costa,
Com’uom che va, no sa dove riesca;
Nè la nostra partita fu men tosta.
PURGAT. II. 70-133.
Amor, che nella mente mi ragiona, è il primo verso d’una delle belle Canzoni di Dante; la quale si vede così essere stata messa in musica e cantata, com’erano allora veramente le canzoni. Ancora pare accennato che la mettesse in musica Casella stesso; e tutto questo passo, cosi affettuoso, mostra l’amicizia che era tra il Poeta e il compositore. Ma che questi fosse maestro di musica a Dante, noi vedo qui accennato, benchè sia stato detto da alcuni biografi.
Tale, dunque, era la condizione delle sette arti studiate già da’ soli Cherici; ma allora, almeno in Italia, anche da’ Secolari, e così da Dante. Insegnavansi fin dal tempo dei Carolingi in tutte quelle città, ove essi ordinarono o riordinarono scuole; e così in Firenze fin dall’829, sotto a Lotario imperadore16. Quindi in Firenze stessa Dante imparò certo tutte o la maggior parte delle sette arti; e n’ebbe a maestro Brunetto Latini, come ci è accennato da Leonardo Aretino17, e da Dante stesso nell’Inferno. Nel quale, con istrana mescolanza di severità od anzi satira, e d’amorevolezza, ei mette il maestro tra i dannati del più brutto fra’ peccati, e gli dice poi teneramente :
Chè in la mente m’è fitta, e ancor m’accuora
La cara e buona immagine paterna
Di voi nel mondo, quando ad ora ad ora
M’insegnavate come l’uom s’eterna:
E quant’io l’abbo in grado, mentre io vivo,
Convien che nella lingua mia si scerna.
INF. XV. 82-87.
Non fermiamoci con tanti altri a spiegare, giustificare, o peggio lodar Dante di tale contraddizione e sconcezza, che ancor sa di quella barbarie onde egli primo usciva, e non è meraviglia uscisse talora imbrattato. Veniamo anzi a Brunetto. Il quale nato, non si sa in qual anno, di nobil famiglia fiorentina, e Guelfo costante, trovavasi ambasciadore del Comune ad Alfonso di Castiglia l’anno 1260, mentre la parte sua era cacciata dalla città dopo la rotta di Monteaperti; e rimase esule così più anni in Francia, e probabilmente in Parigi. Fece ivi in lingua volgare nostra parecchie traduzioni da Cicerone; e in lingua d'oil il suo Poema intitolato il Tesoro, zibaldone o Enciclopedia delle cognizioni di quei tempi. Tornato a Firenze colla famiglia di Dante e con gli altri Guelfi nel 1266, fecevi in versi e in nostro volgare il Tesoretto, che è una raccolta di sentenze morali; e poi il Pataffio, che è una raccolta di riboboli fiorentini. Ebbe quindi l’uffizio, detto già di Notario, allora Dittatore, e più tardi, ai tempi di Machiavello che pur l’ebbe, Segretario della Repubblica Fiorentina; e quello di Sindaco per essa nell’anno 1284, che allora voleva dir deputato a qualche commissione particolare. Morì l’anno 129418; . {{Ac|Giovanni Villani}} lo dice "uom dì gran senno, grande filosofo, sommo maestro in Rettorica, tanto in ben saper dire, quanto in ben dittare.... Et fu dittatore del nostro Comune, ma fu mondano huomo. Et di lui havemo fatta mentione, perchè fu cominciatore et maestro in digrossare i Fiorentini, et farli scorti in bene parlare, et in sapere giudicare et reggere la nostra Repubblica secondo la Politica.19" Vedesi in tutto, che fu il maggior uomo di lettere della generazione sua in Firenze. Ma qual differenza tra esso e il maggiore della seguente! È tanta, che la vera gloria del primo è oggi l’ aver avuto il secondo per iscolaro.
Ma, oltre alle sette arti, complesso dello scibile per più secoli, ed oltre alle scuole di esse, erasi da 150 anni incirca salito a scienze ulteriori, ed a quelle scuole raccolte che allora si dissero Studii, ed ora diconsi Università. Il primo di tali Studii in Italia fu senza dubbio in Bologna, e sorse a poco a poco, come pare, intorno ad Irnerio; il quale verso il principio del secolo XII incominciò a insegnarvi le leggi, non più su’ breviarì fatti ed usati durante la barbarie, ma sulle opere e le raccolte Giustinianee, nuovamente disotterrate qua e là. Ad Irnerio succedettero nel medesimo insegnamento altri giureconsulti; e principalmente quei quattro, Bulgaro, Martino, Jacopo ed Ugo, che alla famosa Dieta di Roncaglia tenuta da Federigo Barbarossa, sedettero con lui e per lui contro le pretensioni delle regalie, perdute così in giurisprudenza, vinte poi colle armi dai Comuni. Nè Bologna stessa e il suo Studio furono costanti sempre nella giurisprudenza e nella parte Imperiale. Ma volgendosi come le altre città ora a questa, ora a quella parte, lo Studio fu ora protetto, ora fatto chiudere, or dagli Imperadori, or dai Papi; i quali si disputavano non meno che l’altre la giurisdizione degli Studii. E da queste chiusure e questi trasporti dello Studio di Bologna in altre città, vennero, come credesi, tutti gli altri più antichi in Italia; quelli di Padova e di Napoli principalmente, che ne figliarono altri al medesimo modo; ondecche a ragione fu detta Bologna Mater Studiorum. Appena nati questi altri Studii, cercavano d’emulare quello di Bologna, e si toglievano i maestri e gli scolari, accrescendo a vicenda stipendii e privilegi. Sono curiose a vedere queste lotte, e l’uso (ridotto ora a Germania) delle lezioni private, aggiunte alle pubbliche da’ maestri che ne arricchivano. Trovo recate dal grave Tiraboschi le parole con che Odofredo terminava un suo corso di Digesto; e sono in latino cosi grosso, che non occor tradurlo. "Et dico vobis, quod in anno seri quanti intendo decere ordinarie, bene et legaliter, sicut unquam feci. Non credo legere extraordinarie, quia scholares, non sunt boni pagatores; quia volunt scire, sed nolunt solvere, a iuxta illud: Scire volunt òmnes, mercedem solvere nemo. Non habeo vobis plura dicere; eatis cum benedizione Domini20". Ma, a malgrado di siffatte lagnanze e degli sforzi delle altre città, lo Studio di Bologna raccoglieva dieci mila scolari d’ogni nazione, al tempo del medesimo Odofredo, verso il principio del secolo XIII; nè è ragione di credere che n’ avesse meno al tempo non molto lontano di Dante. Ne erano d’Italiani e stranieri; e vi si studiavano non solo la ragione civile, ma pur la canonica, e la Teologia forse, benchè non con tanta lode come a Parigi, e certo la Filosofia morale e naturale. D’ ambedue queste era allora quasi solo autore Aristotele, di cui Dante:
Vidi ’l Maestro di color che sanno,
Seder tra fllosofica famiglia.
Tutti 1’ammirai, tutti onor gli fanno.
INF. IV. 131-133.
Ora, di queste scienze universitarie che allora insegnavansi agli Studii, pare che l’ ultima sola, la Filosofia naturale e morale, già da Dante incominciata sotto Brunetto Latini, fosse poi da lui studiata a Bologna ed a Padova. Che facesse un viaggio tra gli anni dell’adolescenza e della gioventù, già lo vedemmo rammentato da lui stesso nella storia de’suoi amori. Boccaccio poi ci dice, che egli "i primi inizi prese nella propria patria; e di quella, siccome a luogo più fertile di tal cibo, se n’andò a Bologna21; e Benvenuto da Imola, che o in verde età vacò alla Filosofia naturale in Firenze, Bologna e Padova"22. Altri commentatori e biografi v’aggiunsero altri viaggi ed altri studii; ma questi scrittori già discosti scambiarono certo tra’ viaggi a studio, e quelli fatti poi da Dante nell’ambascerie e nell’esilio; duranti i quali bensì egli sempre continuò ad aggiugnere all’imparato. Adunque, le sette arti e le due Filosofie sono le sole scienze che constino imparate da Dante nella sua educazione; quelle, in Firenze sotto Brunetto Latini; queste, parte al medesimo modo, parte ai due Studii di Bologna e Padova. Si fa poi da taluni una grave disputa se Dante sapesse o no di greco; trovandosi non poche parole di tal lingua introdotte con qualche affettazione nella Commedia23. Certo dunque ei sapeva quelle; nè dell’altre importa molto, rispetto a tante altre quistioni intorno a lui, a Firenze e a tutta Italia, che occorrono necessariamente nella vita di lui. Facciano i dotti d’ogni scienza le illustrazioni speciali della dottrina di Dante in ciascuna di esse; ma basti a noi, se non sia soverchia, la specialità della storia.
Note
- ↑ Conv., Trat. II, c.14, p.106.
- ↑ Volg. Eloq., lib,I, cap. 11, p. 264.
- ↑ G. Vill., Rer. It., XIII, p. 508.
- ↑ G. Vill., ivi.
- ↑ Tirab., IV, p. 178.
- ↑ Sullo stato di tutte queste scienze durante il secolo XIII, vedi Historie des sciences mathématiques en Italie, par Guillame Libri; Paris 1838, Tom. II, Livre I.
- ↑ Ediz. della Minerva, tom. V, p. 120; e vedi più giù l’opera presente, lib. II, cap. XIV.
- ↑ Convito, Tr. II, c. 3, 4.
- ↑ Magalotti, Redi, Targioni, Bottagisio e Ferroni, fecero già parecchie osservazioni sulla dottrina di Dante in iscienze naturali. Ma chi le voglia trovare maestrevolmente, e perciò moderatamente, raccolte e comparate colle cognizioni dell’età, vegga il libro citato del Libri, Tom. II, pp. 174-184, e 188.
- ↑ Tirab. IV, 177.
- ↑ Calzolajo che fu.
- ↑ Boccaccio, Vita, p. 56
- ↑ Vedi Inf. III, 22 e seg.; V, 25 e seg.; XII, 12 - Purg. IX, 142; XII, 112 - Parad. VIII, 46; XIV, 32 e 118; XX, 142; XXIII, 97; ed altri
- ↑ Catone Uticense, con istrana fantasia fatto guardiano del Purgatorio, e quasi deputato a far salire le anime su per lo monte di esso.
- ↑ Fresca per di fresco giunta.
- ↑ Vedi Murat. an.829, e Capitolare di Lotario Imp. nel Rer. It., tom. II, P. I.
- ↑ Ed. Minerva, Tom. V, p. 50.
- ↑ Tirab. IV, 483 e seg. - Ginguené, tom. I, p. 215 e seg.
- ↑ Rer. It, XIII, pp. 204, 352.
- ↑ Tirab. IV, 54.
- ↑ Boccaccio, Vita, p.15
- ↑ Antiq. It., tom. I, pp. 1036, 1135.
- ↑ Pelli, p. 85; Tirab. V, 491